Idee per un nuovo soggetto politico della sinistra

per Siciliano
Autore originale del testo: LANFRANCO TURCI
Fonte: Pagina Facebook del Network Socialismo Europeo
Url fonte: https://www.facebook.com/notes/antonello-badessi/idee-per-un-nuovo-soggetto-politico-della-sinistra/886838831358164?hc_location=ufi

di  Lanfranco Turci
Articolo per la rivista: La Costituente Numero 2. Anno 3 Aprile 2015

Crisi del Socialismo europeo

Una sinistra che non si dà una spiegazione del passato non può pensare il futuro su basi solide. Credo che per parlare della sinistra del futuro sia necessario cercare di adottare una lettura, o come si dice nel linguaggio dei media, una narrazione condivisa di quanto è successo nei decenni passati e delle ragioni per cui ci troviamo a questo punto di impasse della sinistra in Italia e in Europa, con le felici eccezioni di Grecia e Spagna. E’ una leggerezza imperdonabile presentare la fine del ‘900 come una cesura millenaria, per cui si sarebbe rinati in un nuovo mondo, libero dai pesi del passato, dalle sue contraddizioni, dalle sue ideologie. Soprattutto è pericoloso questo discorso quando si pretende di farlo da sinistra. C’è una sinistra opportunista che parla della fine del ‘900 per coprire i suoi sensi di colpa e non fare i conti con le idee che ha sostenuto in passato. E c’è anche qualche pezzo di sinistra che volendo essere radicale rifiuta gli strumenti analitici della sinistra del ‘900 e propone visioni irrazionalistiche e vitalistiche, spesso condivise inconsapevolmente con analoghe posizioni della destra. Attenzione, con ciò non si vuol dire che non siano Intervenuti profondi cambiamenti nel panorama sociale e ancor più nel sentire comune, profondamente inciso dalla ideologia dominante e dal rifiuto delle prassi politiche tradizionali, consunte prima da tangentopoli e poi dai vent’anni della seconda repubblica. Di ciò cerchiamo di dare conto nella ricostruzione del passato, ma uno schema interpretativo del passato è necessario per orientarci nell’oggi.

Lo schema per me più congeniale è quello di assumere come punto di partenza la rivoluzione conservatrice degli anni ’70 che sbocca a fine decennio nei governi della Thatcher e di Reagan. E’ la svolta che pone fine a quello che è stato chiamato il compromesso socialdemocratico o keynesiano, che aveva improntato i tre decenni del dopoguerra, i cosiddetti “ 30 gloriosi”. Gli anni ’70 sono quelli in cui comincia la rimonta liberista descritta da Tony Judt nel suo libro “Guasto è il mondo”. Una rimonta che poi si consolida non solo in termini di egemonia culturale, ma anche attraverso una precisa panoplia di ricette economiche e politiche che sono raccolte nel cosiddetto Washington Consensus. Un economista, fra i tanti, la cui lettura mi è stata di grande aiuto per l’efficace sintesi di questi processi, è Thomas Palley , un keynesiano strutturale che collabora con i sindacati americani. In particolare con questi due saggi: (http://www.newamerica.net/publications/policy/america_s_exhausted_paradigm_macroeconomic_causes_financial_crisis_and_great_recession
http://www.boeckler.de/pdf/p_imk_wp_111_2013).

Naturalmente non si tratta solo di processi politici e culturali, a monte e in parallelo bisogna guardare ai processi sociali e materiali. All’inizio degli anni ’70 gli Usa dichiarano la fine della convertibilità del dollaro con ciò seppellendo definitivamente gli accordi di Breton Woods, mentre lo shock petrolifero scatena un grave processo inflazionistico. Il colpevole di tutto ciò viene individuato nell’eccessivo potere dei sindacati, negli alti salari e nei costi del welfare denunciati come insostenibili. Nel 1975 la Trilaterale lancerà la teoria del “sovraccarico del sistema decisionale” che segna l’inizio della lotta di classe alla rovescia, il rifiuto dei grandi gruppi imprenditoriali di restare vincolati da rapporti di forza divenuti per loro troppo costosi e di proseguire le politiche necessarie per la piena occupazione. Una lotta di classe sostenuta dai cambiamenti tecnologici e organizzativi che con l’outsourcing interno e le delocalizzazioni internazionali spezzano le concentrazioni operaie delle grandi fabbriche e cominciano a far emergere nei paesi avanzati nuove figure sociali, che, pur permanendo nella cornice generale dello sfruttamento, hanno minore potere contrattuale e sono spesso inquadrate in diversi rapporti giuridici, indebolendo il potere dei sindacati e l’unità del mondo del lavoro. La mobilità dei capitali favorita dal peso crescente della finanza non conosce più limiti, con la globalizzazione si affermano nuove dinamiche mondiali. Non tutti i paesi investiti dall’afflusso dei capitali internazionali restano pedine inerti. Nascono i BRICS e nuove potenze mondiali come la Cina, ma l’effetto per i lavoratori dei paesi di capitalismo avanzato è prima di tutto quello della comparsa sulla scena mondiale di un nuovo colossale esercito di riserva, che pesa sui loro stessi salari e diritti, così come pesa per molti paesi il fenomeno relativamente nuovo dell’arrivo diretto dai paesi poveri di masse enormi di lavoratori immigrati. (Occorre tener presente come obiettivamente l’immigrazione costituisca un punto di sofferenza per i ceti popolari dei paesi di arrivo, non solo in termini di concorrenza sui salari e nell’uso dei servizi di welfare, ma anche in termini di trasformazione e in molti casi di degrado del paesaggio urbano. Da qui i crescenti orientamenti di tipo xenofobo e razzista. I partiti di sinistra non possono limitarsi a difendere di fronte a questo disagio elementari valori di umanità e di solidarietà. Occorre cercare di governare questo fenomeno a partire dai rapporti con i paesi di provenienza per cercare di regolarne la dimensione. Ma occorre anche una decisa lotta nei nostri paesi contro le forme di sfruttamento di questi lavoratori spesso destinati al mercato nero controllato da mafie e criminalità. L’integrazione politica e sindacale degli immigrati è la via per ridurre gli effetti negativi della immigrazione e fare di questi lavoratori un fattore di crescita delle capacità di lotta dell’intero mondo del lavoro.)

Abbiamo parlato del “Washington Consensus”. Ricordiamone le principali direttive che sono ancora quelle cui siamo oggi soggetti: ritiro dello Stato, deregulation, privatizzazioni, smantellamento del welfare, destrutturazione del mercato del lavoro, globalizzazione non governata. Thomas Palley nei saggi sopra citati usa una figura molto semplice e utile per riassumere queste politiche. Egli disegna un box al cui interno sono racchiusi i lavoratori, mentre sui lati del box premono quattro forze ostili rappresentate a) dalla globalizzazione, b) dall’abbandono delle politiche per la piena occupazione, c) dalla riduzione dell’area del pubblico, d)dalla destrutturazione del mercato del lavoro. Sono le politiche che hanno dominato nei paesi del capitalismo sviluppato negli ultimi decenni e che dettano legge tuttora. Per cogliere inoltre la specificità europea occorre considerare lo schema particolare dell’euro che funziona come un aggravante di queste politiche, sia per i meccanismi della moneta unica senza Stato, sia per la particolare impostazione deflazionistica che sta alla base dei Trattati dell’Unione Europea. Occorre anche aggiungere che, se pure è vero che questi cambiamenti strutturali indeboliscono dovunque il ruolo degli Stati nazionali e delle istituzioni democratiche, l’architettura europea aggrava questi effetti a causa del trasferimento di potere a istituzioni burocratiche e non rappresentative. Da qui due processi concomitanti: da un lato il crescere irrefrenabile dell’antipolitica alimentato anche dal malessere sociale indotto dalla crisi, dall’altro la perdita di ruolo dei partiti e dei corpi intermedi accompagnata dall’emergere di spinte oligarchiche e plebiscitarie come quelle cui stiamo assistendo in questi mesi con il governo Renzi.

Nello scenario europeo, fin dall’inizio della rivoluzione conservatrice, la reazione della sinistra è stata debole, prima in ritardo nel comprendere i cambiamenti in corso, poi sostanzialmente di ripiegamento e infine di adesione alla cultura neoliberista apparsa vincente sull’onda della globalizzazione e dei suoi effetti di ricchezza e modernità. Un’onda ritenuta irresistibile anche alla luce dei nuovi rapporti di forza imposti dal capitale e della stessa scomposizione del mondo del lavoro che riduceva il peso della classe operaia e delle forme di lavoro tradizionale, su cui nel passato la sinistra aveva fatto affidamento. Ci sono degli avvenimenti simbolici in Inghilterra che segnano questo cambio d’epoca: la sconfitta dei minatori inglesi, la Thatcher che conquista il governo e annuncia la dottrina del T.I.N.A.( there is no alternative) e infine la vittoria ancora in Inghilterra del Blair della Terza Via , che arriva come conferma della dottrina della Thatcher, muovendosi dentro i ristretti margini di manovra consentiti all’interno di una strategia che viene riconfermata. I cardini del discorso pubblico alimentato quotidianamente dalla pervasività dei media e dalla stessa pubblicità commerciale diventano l’individuo, il merito e il mercato. La sinistra ci aggiunge al massimo un po’ di solidarietà compassionevole. La concezione dell’economia torna ad assumere i connotati di un processo naturale Perfino una crisi come quella attuale, ormai più lunga e più grave di quella del ’29, viene presentata come un fenomeno naturale, per quanto catastrofico

Nella narrazione del periodo storico successivo alla fine del compromesso socialdemocratico e nello schema interpretativo che abbiamo fin qui illustrato, bisogna aggiungere un evento che, per quanto atteso, ha definitivamente cambiato gli assetti dell’epoca iniziata con la fine della seconda guerra mondiale. Mi riferisco alla caduta del Muro di Berlino il cui significato fu quello di certificare il fallimento dell’unico tentativo nella storia del capitalismo di contrapporgli una alternativa radicale e sistemica. Questo evento ci aiuta a capire anche perché direttamente o indirettamente le residue forze dei partiti comunisti in occidente si siano adeguate alla politica dei partiti socialdemocratici, dopo esserne stati per decenni veementi antagonisti. Il paradosso sta nel fatto che questa convergenza arrivò proprio nel momento in cui i principali partiti socialdemocratici stavano abdicando alla loro connotazione di partiti di classe e di contrattazione col capitalismo, per assumere sempre più le caratteristiche di partiti neo-liberali o social-liberali.
Venendo al nostro paese dobbiamo ammettere che DS, Ulivo e Pd fanno parte di questa storia. Questa è la riflessione autocritica che si impone in Italia. La sinistra maggioritaria di cui anch’io ho fatto parte, è stata dentro a questa corrente. Certo, concediamo pure le migliori intenzioni, ma l’Ulivo mondiale con Clinton e Blair teorizzato da Prodi e da D’Alema è la traduzione fedele di quanto siamo venuti dicendo finora. E non c’è un salto logico o una soluzione di continuità quando Renzi sbaracca gli avversari interni, porta a compimento il lavoro di trasformazione della sinistra maggioritaria in un accrocco neoliberista e trasformista, e disvela ai vecchi dirigenti restati sotto le macerie il senso di ciò che essi stessi avevano contribuito a costruire. Semmai il tratto originale della esperienza italiana è quella grande operazione di anestesia di massa operata sul vecchio corpo di militanti ed elettori del Pci, trascinati dalla apparente continuità, anche se sempre più diluita , dell’asse Pci, Pds..…PD. Una anestesia di cui molteplici segni di quest’ultimo anno fanno intravvedere l’inizio della fine.
Abbiamo ricostruito finora i termini della vittoria neoliberista e della conversione di gran parte della sinistra europea. Il paradosso della situazione è che la crisi scoppiata nel 2008, a partire dai mutui subprime americani, ha in questa vittoria le sue cause e le sue radici: disuguaglianze che crescono a livelli esponenziali, impoverimento dei ceti popolari, indebitamento privato (e poi pubblico), speculazioni finanziarie, bolle immobiliari e borsistiche, crisi. Sicuramente i passaggi sono più complessi e non così meccanici come si potrebbe dedurre da questa descrizione, né chi scrive ha la presunzione di trattarli come un addetto ai lavori. Anche fra gli economisti eterodossi ci sono divergenze nella ricostruzione e nel peso attribuibile alle diverse componenti, che peraltro giocano in modi diversi fra le grandi aree geografiche e fra i singoli paesi, anche dentro l’Unione Europea. Ma il nocciolo sta nei cambiamenti del capitalismo diventato neoliberista e globale. Purtroppo dopo 7 anni di questa crisi, con i disastri economici e sociali che sta producendo, non sta emergendo ancora in Europa una risposta da sinistra. Le uniche eccezioni sono Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. Il vecchio mito di derivazione marxista e comunista per cui la crisi dovrebbe produrre una naturale radicalizzazione a sinistra viene ancora una volta smentito dai fatti. Se la crisi del ’29 determinò da un lato la risposta del nazismo, ma anche dall’altro la risposta del New Deal americano ( senza dimenticare che alla fine furono determinanti per uscirne le grandi spese della seconda guerra mondiale) oggi, a sette anni dall’inizio di questa crisi, sembrano dominare ancora le cure omeopatiche, con le nuove bolle alimentate dalla finanza facile in America (che almeno è uscita dalla recessione!) o peggio i salassi da medicina medievale della politica di austerità ancora praticata in Europa.
Che cosa dovrebbe avere in mente una sinistra che voglia uscire dalle secche in cui si è arenata la sinistra socialdemocratica e ex-comunista. Su quali basi si può costruire una alternativa? Non è mia intenzione e neanche nella mie capacità, proporre un programma di governo. In proposito mi limito a rimandare a un buon documento che abbiamo elaborato come Network per il socialismo europeo nel luglio scorso http://www.ricostruire.info/wp-content/uploads/2014/09/per-un-manifesto-24-luglio-2014-2.pdf.

Vorrei solo proporre alcuni punti fermi

  • Dobbiamo muoverci con un punto di vista critico sul capitalismo, critico e consapevole delle sue contraddizioni e della necessità di intervenire su di esse con le correzioni necessarie, e con un punto di vista autonomo da quello delle classi dominanti. Sapendo che all’odg non c’è la sua sostituzione con un altro sistema totalmente alternativo ( qui giocano ancora le aporie messe in luce dal fallimento del socialismo reale), ma una profonda riforma che cambi i rapporti fra capitale e lavoro e fra capitale e Stato. Si tratta di unire insieme gli obiettivi che tradizionalmente si raccolgono sotto il termine di giustizia sociale e gli obiettivi di un nuovo modello di sviluppo ecologicamente e socialmente compatibile, che il mercato non è da solo in grado di garantire. Anzi, come abbiamo visto in questi anni, rende sempre più difficili da raggiungere. Questa può essere oggi una definizione proponibile di socialismo, come volontà di controllare le logiche irrazionali del capitalismo( quelle che Marx riassumeva nella produzione per la produzione) e di garantire uno sviluppo equo e di qualità. A questo fine io penso che il keynesismo e il marxismo sono due fonti necessarie da cui non si può prescindere.
  • Questo schema presuppone una dimensione internazionale o almeno europea. Non a caso Thomas Palley nei saggi sopra citati contrappone al box delle politiche neoliberiste un box alternativo dentro al quale al posto dei lavoratori sono racchiuse le grandi corporazioni e i mercati finanziari, premuti sui quattro lati da una globalizzazione controllata, da politiche di pieno impiego, dalla solidarietà sul mercato del lavoro e da politiche socialdemocratiche di governo. E’ chiaro che questa impostazione presuppone fra le altre cose una rottura con i capisaldi della globalizzazione liberista, come la libertà di movimento dei capitali e la piena libertà del commercio internazionale.( Altro che TTIP !)
  • Ma è realistico proporre questo schema oggi a livello europeo? Continuare a proporlo può essere utile a livello tattico. Ma abbiamo già misurato in questi anni come non solo le politiche delle classi dominanti, ma la stessa architettura delle istituzioni europee imperniate sulla austerità e su una banca centrale senza un corrispettivo Stato federale, abbiano esasperato i conflitti fra i vari interessi nazionali, e alzato una barriera contro politiche progressiste che pare invalicabile, come sta misurando in questi mesi anche la Grecia. I sogni del Manifesto di Ventotene si sono trasformati in un incubo. Dunque bisogna cominciare a pensare anche a una politica senza Euro, riportando allo Stato nazionale la gestione della moneta e le principale scelte economiche e recuperando la collaborazione europea e internazionale in termini di accordi fra gli Stati, e non di interessi dei capitali.
  • Queste politiche richiedono un ruolo radicalmente diverso della mano pubblica. A questo proposito interviene il prezioso recente contributo di Mariana Mazzucato sullo Stato imprenditore/innovatore. La novità di questa impostazione è che l’autrice va ben oltre il keynesismo del deficit spending, che pure sarebbe una manna in questa fase di austerità cupa e suicida. Essa non è riducibile neppure a una semplice indicazione tipo “più stato meno mercato”. La Mazzucato non rinchiude l’intervento pubblico nell’ambito della risposta ai fallimenti del mercato, e per ciò stesso non accetta di sottoporlo alla contrapposta teoria dei fallimenti dello Stato. L’obiettivo è più ambizioso e si connette a mio parere a quello che correntemente chiamiamo nuovo modello di sviluppo. In un suo recente saggio l’autrice indica il cambiamento climatico, la disoccupazione giovanile, l’obesità, l’invecchiamento e la crescente ineguaglianza come le sfide sociali poste davanti al capitalismo contemporaneo. Di fronte a questa situazione ella pone il problema non tanto di regolare i mercati, ma di plasmarli e addirittura crearli per obiettivi pubblicamente e democraticamente definiti Con altre parole tornano in mente quelle riforme di struttura proposte in anni lontani da una certa cultura socialista e comunista italiana, come quella di Lombardi e Trentin.
  • Si diceva una volta che una buona politica non può vivere solo nel campo delle idee, ma deve camminare anche sulle gambe degli uomini Il mondo del lavoro, proprio perché è quello sulle cui spalle è stato scaricato il peso della rivincita neoliberista, non può non essere il perno dello schieramento che abbia l’obiettivo di rovesciare quella logica e di aprire una nuova fase. Questa fase, per quello che abbiamo detto, non sarà solo il recupero delle conquiste del compromesso socialdemocratico, ma avrà obiettivi più ambiziosi sia in termini di diritti sociali e civili, sia soprattutto in termini di governo dello sviluppo. Riunificare il mondo del lavoro è dunque l’esigenza primaria, tutt’altro che facile da soddisfare, perché non servono le semplificazioni ideologiche e le illusorie riduzioni ad unum. Bisogna indagare materialmente tutte le pieghe della nuova articolazione sociale del mondo del lavoro, anche quelle che sembrano più lontane dal lavoro dipendente, per essere capaci di elaborare piattaforme politiche e sindacali capaci di far emergere le connessioni e gli interessi comuni. Pensiamo per esempio alle nuove figure lavorative della share eonomy. Il lavoro dunque come base per alleanze che possono andare molto oltre, per costruire un nuovo blocco sociale che abbia l’ampiezza e la capacità egemonica di altri blocchi sociali di altre epoche storiche. Per questo va incoraggiata l’iniziativa per la “ coalizione sociale” lanciata da Landini e dalla FIOM e va anche accolta quella leggera venatura populista oggi necessaria per superare la barriera che divide le grandi masse dalla politica corrente.

Se un nuovo soggetto politico della sinistra , tema attorno al quale si sono concentrate le discussioni dell’ultimo anno, soprattutto dopo la deriva renziana del PD, riuscirà alla fine a prendere corpo, è evidente che confluiranno in esso diverse culture politiche. Dall’ecologismo al femminismo, dai beni comuni alla politica dei diritti civili, dai temi della alienazione consumistica a quelli della “emergenza antropologica”. Ma io credo che esso non decollerà se non avrà al suo centro come asse portante la lettura del capitalismo nelle sue concrete trasformazioni e nelle nuove contraddizioni che esso presenta a livello mondiale, come nella nostra vita quotidiana. Per questo può sembrare paradossale, ma la cultura più preziosa di cui non potrà fare a meno, è ancora quella del vecchio socialismo. Da esso sono nati, pur tra divisioni e sconfitte, i soggetti storici della sinistra del ‘900. Con ciò non intendo porre un problema nominalistico. Difficilmente un nuovo soggetto politico potrebbe chiamarsi socialista.( tanto meno comunista!). La parola socialista è consunta, da un lato perché evoca il capitolo craxiano, identificato tout court, anche se ingiustamente, con la commistione di politica e affari, dall’altro per la subalternità e la debolezza degli attuali partiti socialisti in Europa nel contrastare la crisi e il dominio delle destre neoliberiste. Ma il socialismo storicamente nasce come antitesi al capitalismo, presuppone un punto di vista autonomo e critico su di esso e un protagonismo delle masse popolari. In questo è ancora un valore essenziale, da cui non si può prescindere. Bisogna ricostruire con pazienza e apertura mentale, avendo ben chiaro le coordinate del lavoro. Non è detto che i tempi debbano essere biblici!
Aprile 2015

*Occorre tener presente come obiettivamente l’immigrazione costituisca un punto di sofferenza per i ceti popolari dei paesi di arrivo, non solo in termini di concorrenza sui salari e nell’uso dei servizi di welfare, ma anche in termini di trasformazione e in molti casi di degrado del paesaggio urbano. Da qui i crescenti orientamenti di tipo xenofobo e razzista. I partiti di sinistra non possono limitarsi a difendere di fronte a questo disagio elementari valori di umanità e di solidarietà. Occorre cercare di governare questo fenomeno a partire dai rapporti con i paesi di provenienza per cercare di regolarne la dimensione. Ma occorre anche una decisa lotta nei nostri paesi contro le forme di sfruttamento di questi lavoratori spesso destinati al mercato nero controllato da mafie e criminalità. L’integrazione politica e sindacale degli immigrati è la via per ridurre gli effetti negativi della immigrazione e fare di questi lavoratori un fattore di crescita delle capacità di lotta dell’intero mondo del lavoro.

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