Fonte: Unione sarda
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di Paolo Savona – 1 settembre 2014
A causa dell’incalzare dei problemi e dei vincoli posti alla loro soluzione la società ha perso il senso della sua esistenza. Non è più né un sistema liberale, né socialista. Il cittadino non è più chiamato a valutare la situazione e scegliere le sue sorti assumendosene le responsabilità. E’ investito da un’ondata di notizie che le cose vanno male, sia in economia che nelle relazioni internazionali, e di proposte su come i problemi andrebbero affrontati accompagnate da supposizioni su come il suo Governo o i Governi degli altri intendono affrontarli.
Resta perciò frastornato e, nell’incertezza sul futuro, se può risparmia e se non può ovviamente non spende. Il suo comportamento è quindi razionale. In queste condizioni la teoria economica e l’esperienza passata insegnano che il sistema bancario e finanziario che riceve questi risparmi (nel 2013 le famiglie hanno risparmiato 150 mld di euro, 9 punti percentuali circa di PIL) deve reinvestirli in modo produttivo e lo Stato deve fare il resto spendendo di più per rimettere in moto il meccanismo di crescita.
La risposta che viene data agli italiani è che le banche non possono essere forzate a concedere credito, ma sono libere di speculare con i soldi dei risparmiatori e con quelli che concede la BCE, entrambi a tassi trascurabili, inferiori all’inflazione; inoltre che lo Stato deve rispettare gli accordi europei e i vincoli dei mercati globali e, quindi, non si può fare niente di più se non redistribuire redditi e ricchezza. Ma questa politica seguita da tutti gli ultimi governi crea altre incertezze e altri malumori sociali, non modifica le condizioni di convenienza a investire in Italia e perciò finiscono con aggravare la situazione invece di sanarla.
I vincoli europei non sono scritti sulle tavole che Mosè portò dal Monte Sinai ed essi vanno affrontati insieme a quelli globali con un’accorta politica estera; almeno finché, da un lato, l’Unione Europea rifiuta di procedere verso l’unione politica che era il presupposto della sua trasformazione da accordo iniziale di libero scambio e, dall’altro, la cooperazione internazionale langue nonostante il mercato globale presenti una sempre più sfuggente finanza e un sistema produttivo iniquo perché presuppone la quasi rinuncia dei sistemi di civiltà raggiunti con il welfare e la democrazia.
E’ saggio attendersi che per affrontare questo problema sul piano negoziale si debba partire da un’inevitabile prova di forza con le forze contrarie che richiede comprensione dei problemi almeno da parte dei gruppi dirigenti e una visione cooperativa dell’intera società. Invece l’attuale politica ha messo i giovani contro gli anziani e i poveri contro quelli “statisticamente” benestanti (mentre i ricchi sono già uccel di bosco!), emarginando chi non la pensa come chi comanda.
A queste condizioni la società resterà conflittuale, ossia incapace di affrontare i problemi con la coesione necessaria e, di conseguenza, il ricorso al voto democratico continuerà a essere considerato pericoloso più di quanto non lo sia il non farvi ricorso. Si fa credere che si dispone di strumenti e si alimentano le speranze di saper uscire dalla crisi, ma il degrado continua in superficie e nel corpo della società.
Se il Governo condivide con l’Europa e le forze economiche che le riforme del mercato del lavoro sono un aspetto importante per uscire dalla crisi – mentre non lo sono – e le riforme della pubblica amministrazione – che invece importanti lo sono – vengono proposte come se fossero indipendenti dall’esistenza di una legislazione eccessiva in cui gli impiegati pubblici ci guazzano e la politica in essa prospera, non può esserci quella svolta desiderata.
In conclusione, se non si imposta una politica che ricerchi una coesione sociale capace di resistere alle difficoltà che si incontrerebbero affrontando i vincoli europei e globali, non si esce dalla crisi. Per far ciò occorre ricostituire non a chiacchiere una visione del tipo di società che desideriamo: liberaldemocratica, come quella che ha funzionato nel dopoguerra, o socialautoritaria, come quella in cui siamo scivolati dopo aver evitato tanti tranelli populisti, ammettiamolo apertamente con la collaborazione di tutti.