Fonte: facebook
Url fonte: http://www.huffingtonpost.it/alessandra-serra/sindrome-di-adattamento-diamanti-annunziata-_b_5749542.html
di Alfredo Morganti – 4 settembre 2014
Alessandra Serra, sull’Huff Post, traccia una critica ben argomentata al ragionamento fatto da Lucia Annunziata pochi giorni prima. Era un post feroce verso Renzi, senza sconti, come non se ne leggevano da mesi (a parte Scalfari, e mai così tranchant). Serra tenta di interpretare quella critica, e scansa subito i temi di contenuto: la questione dei pochi risultati raggiunti è solo un diversivo. La critica, dice, è culturale, piuttosto. E concerne le modalità con cui l’ex Sindaco propone se stesso. Ossia, “l’impianto retorico persuasivo” messo in campo dal premier. Roba da cultural studies, roba linguistica: schemi concettuali, modelli comportamentali, gabbie retoriche, tutto qui dice Serra. Non ci sarebbe, in sostanza una vera e motivata avversione alle iniziative del Governo (che lei, con modi presuntamente en passant, definisce “risultati straordinari”), ma soltanto “a un codice e a un frame concettuale”. Saremmo dinanzi a una disomogeneità tra livelli discorsivi, tra linguaggi, si confronterebbero punti di vista alberganti all’interno di diverse “cornici discorsive”. Cambia la foto, cambiano le parole, cambiano i modi di approccio, e infine si battaglia sul nulla formale del linguaggio senza tenere conto della polpa, ossia degli “straordinari risultati” del Governo. Sarebbe più onesto, dice Serra, ammettere questo, dire che il modo di fare del premier non piace e punto, senza disconoscere la sua monumentale bravura, senza criticare un governo magnificamente in sella e pronto a dare risposte agli italiani.
Insomma, è tutta una questione di linguaggio. Torna qui un cardine della propaganda renziana: io sono il nuovo, io ‘spacco’ il sedime culturale, rompo gli schemi, rottamo le continuità, sfido i vecchi paradigmi, inauguro nuovi linguaggi. Io sono il superuomo, parrebbe di sentir dire. Spariglio e chi s’è visto s’è visto. Annunziata andrebbe a cadere proprio in questo abisso spalancato dall’irruzione del rottamatore. Un trappolone di cui nemmeno avrebbe avuto sentore se Serra non glielo avesse spiegato. Il discorso della direttrice sarebbe solo ‘formalistico’, sarebbe una specie di equivoco linguistico wittgensteiniano: siete delle mosche in una bottiglia, pare dire, siete prigionieri del linguaggio e nemmeno lo sapete, credete di parlare di politica e invece ce l’avete con i nuovi schemi culturali introdotti da Renzi perché non vi appartengono. Vecchiezza culturale? Piuttosto afasia linguistica, gente a cui non funziona più lo strumento verbale. Peggio ancora per la giornalista Annunziata, che col linguaggio ci lavora e ci vive. Ma è davvero così? Sono solo un incidente linguistico, un cieco equivoco, le critiche che cominciano a piovere su Renzi? Oppure c’è dell’altro? C’è roba più solida?
Be’, l’altro è davvero poco, se togliamo le classiche 80 euro. Perché il primo a sfilare da sotto il banco il contenuto è stato proprio il premier. La sua discontinuità culturale è all’incirca tutto quello che ha offerto e messo in campo in questi mesi. Il linguaggio è stata la sua sola arma. E difatti ne utilizza a pieno, con annunci, battute, con una presenza mediatica alla lunga persino controproducente. A fare il simpatico prima o poi stanca, ha detto Cacciari. L’Annunziata parla, in fondo, di ciò che vede, di quello che offre il convento. Se fa la mosca in bottiglia è perché gli mostrano solo la bottiglia: non mezza piena o mezza vuota, ma vuotissima. Non si può rimproverare ai giornalisti critici la loro lateralità linguistica, i loro equivoci, il loro essere insetti in trappola nella rete tessuta dal premier, se poi quello è l’unico campo da gioco ammesso sinora da chi fa attualmente le regole (che sono poi le regole della retorica, dello storytelling, della comunicazione-politica). Siamo sommersi da hashtag, dovremmo parlare di politica internazionale? Siamo sopraffatti dagli annunci e dai contro annunci, dovremmo andare alla ricerca di una ‘cosa’ che non c’è ancora ma che vedremo, se va bene, tra#millegiorni (scrivo con l’hashtag perché si capisce meglio)? Sono accerchiato da narrazioni e contronarrazioni, peggio di un critico letterario che almeno lo fa di mestiere. Non solo. Da ‘adesso!’ siamo arrivati al#passodopopasso, lasciando persino presagire che il brodo comunicativo è destinato ad allungarsi sino a diventare la classica acqua fresca. Si è scelta dapprincipio la strada della ‘posa’ comunicativa pur di imbrigliare l’elettorato e i media, e poi si ironizza sul fatto che molti in questa trappola ci sono cascati e pure alla grande? Rimproverando in fondo alla Annunziata un eccesso di zelo nel considerare solo l’aspetto ‘culturale’, i modi, e gli approcci linguistici scartabellati dal premier in già sette mesi? Dopo il danno pure la beffa? Dopo la sòla, la presa in giro?
Onestà intellettuale per onestà intellettuale. Come la si chiede alla Annunziata, io la chiedo alla Serra, di cui stimo senz’altro le qualità professionali e l’abilità retorico-comunicativa. Perché qualcuno non ammette che sì, in effetti, la faglia culturale c’è perché l’abbiamo pensata, progettata, messa in atto noi. Sì, le modalità nuove di Renzi le imponiamo perché dietro non c’è ancora nulla, e spesso meno che nulla? Sì, il linguaggio è la nostra unica risorsa, forse la vera e sola straordinaria risorsa di cui dispone il premier per ‘ammischiarla’ agli italiani in attesa che Padoan o chi per lui cavino il ragno dal buco. Insomma, costruiamo palazzine su fondamenta abissali e speriamo nella buona sorte. Speriamo che non crollino. Speriamo non ci crollino indosso. Sarebbe bello, sarebbe onesto ammettere questo aspetto, peraltro così evidente. Stimerei di più l’allegra brigata che ha ‘preso’ il PD e lo ha mutato in una cosa che non capisco (e non solo per motivazioni linguistiche, culturali o di approccio retorico, ma politiche, politicissime). Sarebbe un gesto leale, comprensibile, forse dovuto. Anche se capisco che, ammettere la propria nudità, non è da Re. E Renzi a fare il Re si atteggia molto. Anzi, moltissimo.
——————————————–
questo l’articolo di Alessandra Serra pubblicato su http://www.huffingtonpost.it/*
Sindrome di adattamento: da Diamanti all’Annunziata, gli opinionisti reagiscono allo stress di sei mesi di governo Renzi
Settembre si è aperto con alcune autorevoli riflessioni pubbliche sull’Italia dei nostri giorni. Mi ha colpito quella molto amara di Ilvo Diamanti su Repubblica, che parla di un Paese avviato giù per una china di mesta vecchiaia – economica e culturale. Quasi inutile sarebbe lo sforzo di Matteo Renzi di dare una scossa a una comunità che è ostaggio di una generazione di pensionati e pensionandi, a crescita demografica zero, dalle prospettive asfittiche.
Lucia Annunziata si rivolge direttamente al premier, indirizzandogli una critica senza sconti. In buona sostanza i sei mesi di governo finora trascorsi le avrebbero insinuato il dubbio che l’attuale Presidente del Consiglio sia “unfit“, non adatto al ruolo. Troppi pochi i risultati raggiunti a fronte dei molti annunci fatti. Troppa protervia ingiustificata. Mi è piaciuto quell’articolo, perché non le manda a dire. È il segno di un giornalismo che non si accoda forzosamente al consenso popolare che accompagna Matteo Renzi. Qualche perplessità però, devo dirlo, me l’ha suscitata.
Perplessità che non riguardano direttamente il merito delle rimostranze sui contenuti che sta proponendo questo Governo e il suo Presidente. Non solo è giusto giudicare entrambi, ma è doveroso incalzarli, se si ha a cuore l’interesse collettivo di un Paese con un’economia e una politica asmatica da decenni. Per certi versi però l’articolo mi è parso un po’ prematuro, visto che appare proprio nel momento in cui vanno in porto alcune iniziative del Governo non proprio irrilevanti. Certo non si potrà parlare di rivoluzione, ma tra riforma della Giustizia, incisività nelle politiche UE ufficializzata dalla nomina della Mogherini e – il giorno stesso della pubblicazione dell’articolo – la presentazione del programma dei cosiddetti mille giorni, non si può dire che si ragioni proprio di robetta. Comunque che un’autorevole opinionista non si ritenga soddisfatta, anche questo, senza dubbio, ci sta.
A dirla tutta però, sono rimasta disorientata perché ero partita per le vacanze riflettendo sui moniti di altri opinionisti autorevoli riguardo una presunta deriva decisionista e autoritaria in atto. Sembrava proprio che Renzi veleggiasse dritto verso il presidenzialismo menando fendenti alla Costituzione, a colpi di decreti e fiducia parlamentare. Alla faccia dell’indolenza. Invece nel frattempo, mentre mi documentavo sulla messa in sicurezza del Paese da un attuatore compulsivo e poco democratico di improvvide riforme, pare che non ci fosse granché di cui preoccuparsi, anzi ci fosse persino troppo poco. Meno male, va.
Ora, però non mi pare interessante insistere troppo sul fatto che in realtà il governo stia portando a casa risultati straordinari. Il che penso sia vero per molti versi, ma anche legittimamente opinabile. Non insisto neppure sul fatto che le condizioni oggettive del nostro Paese siano di un certo ostacolo a un percorso accelerato di riforme (lo dice, per esempio il Financial Times che non è un fan sperticato del nostro premier).
Il punto che mi pare invece meno evidente ma forse più rilevante, è che la questione dei pochi risultati raggiunti in sei mesi sia, al di là dell’apparente centralità nel ragionamento, un po’ un diversivo. Perché tra le righe dell’eccellente fluire argomentativo di Lucia Annunziata mi sembra emergere non tanto l’insoddisfazione per la scarsezza di provvedimenti incisivi – le critiche sostanzialmente rimangono vaghe, un po’ annegate nei vari riconoscimenti delle cose buone fatte, ma qualcos’altro. La sensazione è che il giudizio negativo sia indirizzato piuttosto verso il modo in cui il premier propone se stesso e la sua politica. L’impianto retorico-persuasivo di Renzi, in altre parole. Alla Direttrice, ecco, quello non va proprio.
Niente di male, ci mancherebbe, ma è altra cosa dalla critica a un programma politico. È una critica culturale, piuttosto. Che un po’ si svela in due righe nella prima parte dell’articolo dove, lapidariamente, si manda a far benedire chi non voglia discutere solo dei risultati ottenuti finora dal Governo: “Non è questione né di immagine né di buone maniere, di cui non ci interessa assolutamente nulla. Si tratta di risultati” (“Stick to facts!” ammoniva l’utilitarian Mr Gradgrind di Dickens).
Un po’ ruvida ma tant’è. Da quel punto iniziale l’accusa principale a Renzi da quella di inefficacia scivola veloce verso quella di arroganza retorica “senza gabbie etiche”, di politicismo finalizzato all’esercizio di un potere privo di contenuti, di un mancato raccordo col Paese e con la crisi. Tutto il filo della questione si regge poco sul bilancio attivo o passivo delle iniziative del Governo quanto sull’avversione a un codice e a un frame concettuale. Che la Direttrice si sforza (non è l’unica, va detto) di ricondurre su un binario di parallelismi storici che mostrerebbero evidenti corrispondenze tra l’attuale Presidente del Consiglio e le figure più esecrabili del recente passato italiano. Renzi come Andreotti, dunque, per altri come Berlusconi, qualcuno ha addirittura azzardato fisionomie ancora più distanti e nebbiose. E allora, forse è anche un po’ un problema di immagine. Di come viene trasmessa e percepita, e persino di buone maniere, se con questo si intenda una modalità espressiva, dialogica.
Il problema di fondo a me pare per l’ennesima volta la disomogeneità tra modelli di discorso. Che spesso si mandano reciprocamente a quel paese per distanza, più che per sostanza. Cioè, se non ci si riconosce più in un linguaggio, in una cornice discorsiva, come forse è successo alla direttrice col premier italiano, si fanno un po’ le pulci al politico (non ne esiste uno sulla faccia del pianeta del quale non si possa dire “poteva fare di più”), poi si sminuiscono stile e linguaggio (“non ci interessano”) per approdare infine a una bocciatura definitiva – magari ravvisando appunto inquietanti similarità con gli arcinemici della propria gioventù.
In realtà sotto traccia scorre, credo, il fiume carsico del rigetto del paradigma culturale che si sta affermando in questa temperie culturale, una svolta giudicata di rinnovamento dai più, di intollerabile carattere barbarico per i rimanenti. Una frattura di giudizio che forse sarebbe il caso di affrontare di petto, senza tergiversare troppo. Tutto sommato bisognerebbe avere il coraggio di dire “questo modo di fare, questo modo di porsi, di parlare, non mi piace, non mi rappresenta, sta caratterizzando un mondo nel quale forse non vorrei stare”. In un certo senso Diamanti l’ha detto, ha detto che Renzi incarna uno stile, fa il giovane e il giovanile ma non è circondato da un contesto adeguato. Non so se ha ragione, non credo. Spero di no, almeno, perché il suo punto di vista è sconfortante, anche se forse pensato per fare da stimolo a un Paese pigro, avvitato su stanchi riti ingessati, su privilegi acquisiti, su rassegnazioni inestirpabili, su tabù inviolabili.
Sarebbe giusto allora vedere anche aprirsi davvero un dibattito disincantato e non radicalizzato sul tema dei modelli culturali che coesistono e competono in questo scorcio di Italia del 2014, tra retorica insolente e severità un po’ “dismissing”. Secondo me vale la pena parlarne, mentre con la matita mettiamo una spunta, cittadini e opinionisti, a tutte le cose promesse e realizzate dal premier attuale, dopo decenni in cui, al massimo, passavamo il tempo a temperarla, quella matita.