di Alfredo Morganti – 23 aprile 2018
Non me la sento stavolta di mettere la croce indosso a Michele Serra, per quanto lo abbia criticato spesso negli ultimi anni e sia stato, per me, una delusione progressiva. Non me la sento, perché è macroscopicamente vero che esistono i subalterni e gli sfruttati. E che questa condizione, in assenza di un lavoro politico, culturale, che spesso svolgevano anche i partiti, i sindacati, le associazioni, ingenera spesso ignoranza, aggressività, rabbia mal contenuta. Se così non fosse, perché l’esistenza della sinistra, allora? Ed è pure vero che c’è una scuola di classe, dove i più disagiati e subalterni, in linea di massima, tendono a frequentare scuole tecniche e commerciali (sempre che decidano di andare alle scuole superiori), spesso con collocazione periferica, a differenza di chi, con una famiglia più ‘salda’ (e genitori autorevoli) a fianco nonostante il disagio sociale, opta per i licei. Ovviamente non è una giudizio determinante, sconta una dovuta flessibilità applicativa. Ma questo è. Certo, se le scuole superiori avessero una base comune, un biennio iniziale almeno, se i percorsi scolastici non divaricassero subito a 14 anni, ora staremmo a raccontare almeno in parte un’altra storia. Ma non è così. La scuola italiana tende a riprodurre le differenze sociali, e a tenere fuori (o di lato) i figli più disagiati socialmente. I più subalterni tra tutti.
Serra ha anche ragione sul populismo. Fenomeno di destra, senza se e senza ma. Perché ‘salva’ il popolo per quel che è, lo assume a parametro fondante come se esso personificasse la ragione, come se i fenomeni di subalternità culturali e lo ‘sfruttamento’ fossero un’invenzione, come se esistesse davvero un popolo puro e ‘indifferenziato’ da conservare di contro a un establishment a sua volta granitico. Una ‘essenza’ del popolo. E non, invece, una classe operaia, un sottoproletariato, dei ceti intermedi, dei ‘tecnici’, dei disoccupati, degli studenti, dei commercianti, dei giovani senza istruzione che nemmeno cercano lavoro. La parola ‘popolo’ oggi funziona come richiamo esemplificativo, ideologico, ‘comunicativo’, narrativo, come strumento di egemonia. Un modo per colorare di nero le vacche più di quanto esse già non siano. Ma il populismo è di destra (e conservatore) anche perché ritiene che fra Capo e Popolo non debba esistere nulla, e che i corpi intermedi debbano essere cancellati come inutile e pericolosa zavorra. Perché magari questi ‘corpi’ sono establishment anch’essi. Un Capo indiscutibile e un Popolo ‘sacro’: ecco a cosa si riduce la dialettica politica populista, coi media a fare da canto e controcanto assieme nella lotta per il ‘consenso’ ormai ridotta a marketing e storytelling. La disintermediazione nasce per accorciare la distanza tra i due estremi (il leader che sta su e il popolo che sta giù), per impedire una ‘mediazione’ simbolica e culturale normalmente svolta da partiti e corpi intermedi, quali ‘ponti’ tra base popolare-sociale e istituzioni dello Stato. Gli stessi ‘corpi’ a cui spetterebbe anche un compito di ‘educazione’ e di formazione extraistituzionale, nell’intento di agevolare la trasformazione dei subalterni in donne e uomini dotati di un personale profilo culturale e simbolico. Serra ricorda le 150 ore, e anch’io le ricordo. In assenza di queste intermediazioni, spetta alla sola famiglia, un’istituzione oggi allo sbando, il compito di ‘plasmare’ la ‘forma’ dei propri membri più giovani, agevolandone la crescita e la maturità. Ma questo non avviene con successo sempre. In special modo tra le classi popolari. La riproduzione tende, dunque, ad affermarsi. I subalterni restano tali, e molti, in questo clima, si spingono a esibire schemi mentali pericolosi e rabbia scomposta contro i più deboli.
Vivo in una borgata da quando sono nato, ormai molti decenni fa. E posso garantirvi che qui il mondo non è quello pastorale che si immagina dai social. Qui gran parte del ‘popolo’, in buona parte, non attende altro che di essere agganciato dal populista di turno (sia esso Berlusconi, o Salvini, o qualche 5stelle, oppure lo stesso Renzi coi suoi bonus), e ha tanta rabbia informe in corpo da poter sviluppare una ‘rivolta’ intera, altro che il ‘bullismo’. Ma assieme è pronto a vivere subalternamente ogni pastiche culturale che la TV o i media in genere sono pronti a riversargli indosso come sedativo. L’egemonia non è un’azione aggressiva, ma l’opera lenta per la quale modelli culturali preconfezionati si impossessano di menti e culture prive di altre difese. È il caso per cui i pensionati al minimo votano Berlusconi, oppure le casalinghe si appassionano alla vita dei personaggi tv. E, certo, la crisi della sinistra non aiuta. Nelle borgate c’è un sottoproletariato culturale che spaventerebbe molti di voi che non lo vivete da vicino quotidianamente. Io mi sono ‘salvato’ (letteralmente), perché la mia famiglia catto-comunista mi ha preso per la collottola e mi ha insegnato il valore dello studio, della lotta e della solidarietà. Con grande tempra e autorevolezza morale. Lo stesso ha fatto il partito, che faceva il porta a porta e stava nei mercati, nelle osterie, in piazza, distribuiva l’Unità e parlava anche con la delinquenza locale e col sottoproletariato dedito per lo più di calcio e ai banconi del bar.
Ma tanti come me sono finiti in carcere, sono morti per overdose, fanno lavori precari, hanno visto le loro famiglie spezzate, sono depressi, sono ignoranti, non immaginano nemmeno cosa significhi la parola ‘liberazione’, magari la scambiano per un gratta e vinci azzeccato. La ‘forza’ per molti subalterni diventa tutto, in mancanza di una capacità di ‘mediare’, e la si misura sul più debole (il professore anziano, una donna, il ragazzino gracile o più disagiato) in termini darwiniani. E poi la si riprende coi cellulari, e la si mostra a tutti per esibirla sui media, per certificarne l’esistenza. Quanti di voi, che vivete in quartieri semicentrali, residenziali, avete una buona occupazione e buoni studi, e che usate i social per scrivere e commentare, e non per postare immagini dozzinali, sareste disposti a fare i conti de visu con questa realtà sociale drammatica, come una volta faceva il PCI (e non solo)? Quanti ‘salvati’, oggi sarebbero disposti a fare davvero i conti con i socialmente ‘sommersi’, invece di limitarsi a rivendicare la propria meritoria ‘salvezza’ a onta dell’appartenenza sociale? È questa la domanda di base che dobbiamo anche porci, è questa la domanda della politica, ben oltre occasionale la polemica con Michele Serra.