Fonte: facebook
di Alfredo Morganti 10 novembre 2014
I popoli
Che la globalizzazione non sia affatto la fine dei confini lo abbiamo già detto altrove. Che i confini, anzi, ritornino, stabilendo gerarchie, diseguaglianze, differenze, disparità è prepotentemente sotto gli occhi di tutti. Quando il Muro, ‘il’ confine cadde, si disse ‘è la fine della storia’. Oggi Gorbaciov insiste invece a dire: ritorna la guerra fredda. La cortina. Ancora un confine. Ma la storia è sempre un confine di confini, una differenza di differenze: ecco perché assumerne la ‘fine’ è fare ideologia (anche se è vero che una certa storia finisce, ed altre si propongono: anche la storia, in fondo, è storia di storie). Dico di più: non si sono mai visti confini più saldi dell’attuale. Micro confini, persino: la Catalogna, l’Ucraina, la Scozia, lo spettro della Padania. Territori e piccole patrie che chiedono riconoscimento identitario, legittimazione, status. Più che la fine della storia, direi il tragico presupporsi di ‘microstorie’, micro identità, micro sporgenze geografiche. Una ‘frammentazione’ che lascia intravedere una contraddizione spaventosa tra i grandi imperi cinesi, indiani, americani, l’immensità russa e il sentore di comunità chiusa, persino reazionaria che pare volersi affermare soprattutto in certi angoli d’Europa.
Oggi la politica è piccola perché si occupa sempre più di micro confini, quasi di ristretti casi individuali. È portavoce di interessi, non li oltrepassa, nemmeno accenna a farlo. È calcolo, invece che passionalità. È realismo spicciolo, quotidiano, invece che alta idealità o realismo di grande respiro. Una cosa minima, talmente minima che i confini non si vedono quasi nemmeno più, al limite sono questi ultimi che ‘vedono’ lei e si impongono sulla politica restringendone ancor più il respiro. In termini di linguaggio, la caduta è verticale. Molta dialettologia e poca lingua nazionale. Pure la comunicazione ne risente, e sembra inseguire solo le piccole rivincite personali, i duelli verbali, le ambizioni del leader, il cortissimo respiro, le tattiche belligeranti dettate dalle agenzie, dalle battute di 10 secondi, dagli spot. Come se tutta la realtà fosse di colpo cancellata in nome di uno spin ben riuscito. Quasi che lo scopo fosse proprio cancellare la realtà. Siamo al punto che i comunicatori sono la categoria più nutrita al servizio di un Capo. Non economisti, consiglieri giuridici, sociologi. Ma blogger, hashtaggisti, corsari delle agenzie, troll, gestori di pagine face book, ‘mipiacisti’, energumeni del web.
Ecco. Cosa diventa il ‘potere’ alla luce di questo scenario? È ancora sovranità? È ancora autorità? È ancora legge? E dunque lotta, difesa di un confine o conquista di un altro? È ancora avanzare, arretrare, ha ancora un corpo? Oppure non è più nulla, ma solo uno spettro, un linguaggio anacronistico che nasconde meccanismi di controllo e di decisione che pochi conoscono davvero? Il cui funzionamento si trasmette in codice dall’uno all’altro? Come tutte le cose, il potere tende a trasformarsi ma mai a perdersi. Oggi, in parallelo al restringimento dei confini topologici, anche il potere sembra più piccolino, circoscritto, ristretto in ambiti limitati. Ciò, nonostante la potenza della comunicazione ce lo getti in faccia ogni minuto della giornata attraverso lo specchio dei media. Ce lo renda grande e familiare. E invece non è così. Perché cresce la comunicazione ma decresce la visibilità del potere, che si annida in cenacoli ristretti, si rintana in piccole stanze, mostra una sua ‘microfisica’. La comunicazione è popolare, ma il potere sempre meno. Produce ancora confini e differenze, ma si tratta solo dei SUOI confini. Si circoscrive in piccoli ma segreti spazi sacri. Quelli in cui ci si vede tre a tre. In cui si fa cenacolo. Ci si riconosce e si ammicca vicendevolmente. Dove lo status c’è, e si mostra. E allora, la grande politica, quando sarà, dovrà rompere questi margini, ridare voce, spazio, tempo a chi oggi è sovrastato dal linguaggio e dagli annunci, e quasi non conosce le decisioni vere, ma solo degli sconsiderati riflessi.
Per questo la grande politica attende i popoli, ancor più dei leader. Non gli abitanti delle piccole patrie, ma i popoli, nella loro vastità.