Gianni Rivera
Roberto Baggio
BAGGIO Roberto: il poeta errante
Dai campetti di Caldogno comincia il viaggio del ragazzo timido dal sorriso tenero, capace di regalare momenti di calcio irripetibile ai tifosi di tutto il mondo. Perché Roberto Baggio è stato il campione di tutti e di nessuno, o forse di quella magia azzurra che l’ha accompagnato lungo un sentiero incantato
Caldogno è un piccolo paese alle porte di Vicenza. È stato fondato da Calderico Caldogno, consigliere militare di Federico Barbarossa. Diecimila abitanti, aria buona. Qui il 18 febbraio 1967 in via Marconi n° 3, alle ore 18.15, nasce Roberto Baggio. Il papà si chiama Florindo, la mamma Matilde. Sesto di otto fratelli: Gianna, Walter, Carla, Giorgio, Anna Maria, lui, Nadia, Eddy. Una grande e bella famiglia, molto sportiva. Il papà gioca qualche anno in una squadretta di calcio dilettanti, ma diventa ciclista. Florindo ama molto la bici.
Il più piccolo dei fratelli di Roberto si chiama Eddy in onore di Merckx. Ma non è l’unico nome «dedicato» a uomini dello sport: Walter si chiama come Speggiorin, attaccante del Vicenza. Giorgio è un omaggio a Chinaglia, centravanti della Lazio e della nazionale. E poi, lui, Roberto. Perché Roberto? Papà Florindo aveva due idoli: Boninsegna dell’Inter e Bettega della Juve. Quindi Roberto, come loro.
Roberto è un bambino esile e molto sensibile. Racconterà: «Piangevo quando sentivo passare le ambulanze». Un po timido, il giusto. Abbastanza testardo, un malato di calcio. Gioca con tutto quello che trova: palline da tennis, carta bagnata e poi indurita sul termosifone. Gioca nel corridoio della sua casa, fa gol da solo (nella porta aperta del bagno), urla e poi si fa la radiocronaca. Per i suoi amici e subito Robi. Ma anche «Guglielmo Tell», perché si allena a tirare le punizioni mirando i lampioni della strada. E 1 colpisce, inseguito poi dal maresciallo de carabinieri.
L’allenatore si chiama Zenere, è il fornaio del paese. Il vicepresidente è l’idraulico. Sul Campetto c’è una scritta a grandi caratteri: «Chi non si presenta non giocherà mai più». Roberto si presenta quasi sempre, gioca, si diverte e diverte tutti. E già un piccolo fenomeno. A Caldogno arrivano molti osservatori, lo prendono quelli del Vicenza. Nelle giovanili fa gol e assist: 120 partite, 110 reti.
Uno dei suoi primi maestri, Giulio Savoini, lo coccola: «Tu sei il mio Zico». Va in panchina, in serie C1, a 16 anni. L’11 giugno 1983, ultima di campionato, Vicenza-Piacenza 0-1. Entra nella ripresa al posto del centrocampista Carlo Perrone. Nella stagione successiva Bruno Giorgi lo inserisce in prima squadra. Incanta con la sua fantasia e i suoi tocchi «brasiliani». Lo chiamano nelle nazionali Under 16 e Juniores. Due campionati in C1. Nel primo solo sei presenze e un gol. Nel secondo, anno 1984, sempre con Giorgi, è titolare. Segna, dà spettacolo, è inseguito dagli operatori del calcio mercato.
Lo vuole la Samp di Mantovani, il presidente della Juve, Boniperti, lo sta per prendere. Ma s’inserisce il Conte Pontello della Fiorentina: ecco 2 miliardi e 700 milioni di lire. E fatta. Roberto ha 18 anni. II 3 maggio 1985 due giorni dopo la firma gioca a Rimini (allenato da Arrigo Sacchi), segna il gol del Vicenza, poi si fa male. E un infortunio molto grave: rottura del crociato e del menisco della gamba destra. Un trauma terribile, rischia di non giocare più. Lo operano in Francia, intervento delicatissimo del professor Bousquet, il chirurgo dei campioni.
Momento molto difficile, la Fiorentina lo aspetta. A Firenze trova amici e comprensione, conosce i campioni del mondo Antognoni e Oriali. Ma Roberto non gioca, ha pensieri neri e disperati. Il massaggiatore Pagni gli insegna a non avere fretta. Campionato 1986-87: primi sorrisi, primi gol. Debutta in serie A, contro la Samp di Roberto Mancini, magico numero 10. E il 21 settembre 1986. Sette giorni dopo, in allenamento, il ginocchio operato si spacca. Ancora in Francia, ancora operazioni. Altri tre mesi fermo, dolori e sconforto. Si riprende a fatica, rientra. Ma il destino è feroce: un’altra rottura, menisco. Torna in sala operatoria. Roberto ha solo vent anni, è disperato e pensa: è finita, smetto con il calcio. Lo assiste mamma Matilde.
Roberto racconterà: «La mamma era il mio angelo. Quanto mi e stata vicina, quanto mi ha aiutato. In ospedale, dopo le operazioni, stavo malissimo. Non potevo prendere antidolorifici e il dolore mi trapassava il cranio. Una volta mi sono girato verso di lei, che mi stava accanto, e le ho detto: “Mamma, sto malissimo. Se mi vuoi bene uccidimi perché io non ce la faccio più”. Lei mi accarezzava: “Non fare lo scemo, eh? Dai dai, tornerai come prima. Più bello e più forte».
Una mattina Roberto dice alla mamma: «Sì, torno e spacco tutto». Torna, ce la fa, gioca. Segna a Napoli, nella città di Maradona. Primo scudetto di Dieguito e primo gol di Roberto Baggio. Scrivono: «Una magica punizione, alla Maradona». Arriva la svolta, cambia tutto, la vita, il futuro, forse – scrivono – anche il destino. Roberto Baggio, con il suo calcio dal sorriso tenero e semplice, entra nel cuore della Fiorentina e dei tifosi di tutta Italia. Gli vogliono bene e lui ricambia con le sue meraviglie.
La Fiorentina lo porta in Nazionale, il primo gol contro l’Uruguay. Si sposa con Andreina, che conosce da sempre. «Avevamo 15 anni, abitava vicino a casa mia, veniva nella mia scuola. Andreina all’inizio ha fatto fatica ad accettare la mia fede nel buddismo. Venivamo da famiglie cattoliche. Non era facile capire, per lei. Poi, quando ha capito che la fede per me era importante, si è avvicinata e abbiamo pregato insieme. La fede mi ha aiutato molto nella mia carriera. L’allenamento spirituale al coraggio mi ha fatto sopportare il dolore. Avevo male, sempre male. Ma non importava. Sono stato male molti anni, ma sono andato in campo. Se avessi dovuto giocare soltanto quando stavo bene, con quella gamba, con quelle ginocchia, avrei fatto due, tre partite all’anno. E invece ho resistito, mi è andata bene. Molti miei amici sono stati più sfortunati e hanno smesso subito».
Roberto avanza con la sua classe, la sua poesia, è il sogno dei bambini. E dei grandi. Piace a tutti, va nella Juve che è stata di Sivori e Platini. Roberto lascia Firenze, ma l’amore per quella città e quei colori non finirà mai. Gli diranno: eppure te ne sei andato. Risposta: «Non me ne sono andato, mi hanno mandato via. Pontello aveva preso accordi con Agnelli, mi avevano venduto un anno prima. Quando Berlusconi provò ad acquistarmi, Agnelli gli rispose che poteva accordarsi su tutto, ma che Baggio era già bianconero…».
La sua cessione nell’anno del Mondiale di Italia ’90 scatena la rabbia dei tifosi viola: arresti, feriti, rabbia. Baggio è in ritiro a Coverciano con la Nazionale. L’atmosfera è elettrica, i tifosi contestano, il c.t. Azeglio Vicini fa chiudere il centro federale al pubblico. Robi cerca di concentrarsi solo sul Mondiale, convinto che arriverà il suo momento. C’è dualismo con Giannini, lui è un «dodicesimo di lusso». L’Italia gioca due partite, Robi non c’è. La gente e i critici lo invocano. Entra, in coppia con Schillaci, nella terza gara contro la Cecoslovacchia ed è subito spettacolo. Il 19 giugno 1990, a Roma, cominciano le Notti Magiche. Roberto segna uno dei suoi gol più belli.
Semifinale con l’Argentina: entra sull’1-1, sfiora un gol. Supplementari e rigori, Baggio segna, Donadoni e Serena sbagliano. Argentina in finale, Germania campione. Dopo l’estate e le notti azzurre, ecco la Juve di Gigi Maifredi, un tecnico giovane che promette calcio nuovo e spregiudicato. E, soprattutto, divertente. Baggio con il 10 di Michel Platini è l’uomo giusto. Ma c’è il Milan di Arrigo Sacchi con il suo gioco moderno ed esaltante. La Juve non decolla. In dicembre arriva la Fiorentina, Baggio è da poco papà, è nata Valentina. L’emozione e i ricordi viola lo bloccano. Molte polemiche. La Juve precipita in classifica. E poi c’è quella storia del rigore di Firenze. Roberto si rifiuta di batterlo e questo complica ancora di più i rapporti con i tifosi bianconeri. Qualche giornale scrive: «Baggio a Firenze era di Firenze. A Torino è di nessuno».
Quel rigore e quello slogan accompagnano per molti anni il suo percorso bianconero. La Juve richiama Giovanni Trapattoni. Costruisce una buona squadra, ma il Milan è travolgente. Roberto fatica, poi si sblocca, segna 18 volte e torna in Nazionale. Adesso il c.t. è Sacchi. Il Trapattoni-bis è un secondo posto. Il nuovo anno consacra Baggio: 4 gol all’Udinese, 3 al Foggia, doppiette a raffica. Stagione eccellente: 21 gol. Adesso è al centro di tutto. Conquista tifosi, Agnelli, coppa Uefa, il Pallone d’oro. Stagione ’93-94, un’altra buona annata, regala pezzi magici agli amanti del bel gioco. Esulta e poi festeggia l’arrivo di Mattia, il secondogenito, va in America con Sacchi ai mondiali. Un sogno e un incubo.
Roberto ha 27 anni, porta il codino, è Pallone d’oro, è titolare indiscusso della Nazionale. E concentratissimo e si prepara in segreto prima della partenza per gli Usa. Racconterà: «Non l’ho detto a nessuno, nemmeno a Sacchi». Il c.t. gli dice: «Roberto tu, per l’Italia, sei come Maradona per l’Argentina: fondamentale». Contro la Norvegia, il portiere Pagliuca è espulso e Sacchi fa entrare Marchegiani e toglie Robi. La reazione di Baggio è clamorosa, fa un gesto a Sacchi: «Questo è matto». Il Mondiale americano di Baggio è un tormento. Gianni Agnelli lo stuzzica da lontano: «Sembra un coniglio bagnato».
Robi reagisce e segna con Nigeria, Spagna e Bulgaria e porta in finale l’Italia con il Brasile. Pasadena, 17 luglio, ore 12.30, caldo torrido. Zero a zero, supplementari, rigori. Sbagliano Franco Baresi e Roberto Baggio, i due più bravi rigoristi italiani, e il Brasile è campione. Pazzesco! Baggio dirà: «Nella mia carriera ho sbagliato dei rigori, ma non li ho mai calciati alti. Quella è stata l’unica volta che mi e successo. Ed è difficile riuscire a spiegare perché è andato là. Non lo so. Però è successo, fine. Sognavo quel giorno da bambino. E un sogno che s’infrange, che si rompe sul più bello e diventa un incubo». Il suo maestro spirituale Daisaku Ikeda, l’aveva previsto: «Quel Mondiale lo vincerai o lo perderai all’ultimo secondo».
La stagione 1994-95 sarà la sua ultima in bianconero. C’è Marcello Lippi, Robi si fa male e va in panchina o in tribuna, avanza il giovanissimo Alessandro Del Piero. La Juve vince lo scudetto, grazie anche ai gol e agli assist di Baggio nella prima parte della stagione. Fa festa con la Juve, ma quella non è più la sua Juve. Finisce sul mercato, lo seguono in tanti, lui sceglie il Milan (che lo aveva cercato cinque anni prima). Spiega: «E’ il club che mi ha voluto di più e me lo ha fatto capire meglio». Il grande Milan di Capello vince, dopo una stagione di pausa, ancora lo scudetto. Per Fabio è il quarto in cinque anni, per Robi il secondo di fila con due squadre diverse. Una bella stagione, i tifosi rossoneri, subito in sintonia con il Divin Codino, lo eleggono giocatore dell’anno, anche se è spesso sostituito.
Il secondo anno rossonero è segnato da Oscar Washington Tabarez, uruguaiano. Tabarez fallisce, è esonerato. Al Milan torna Arrigo Sacchi. Va tutto male e Baggio soffre la panchina. A fine aprile 1997, Cesare Maldini lo riporta in Nazionale. A Napoli, Italia-Polonia, valida per le qualificazioni ai Mondiali 1998. Tre a zero: lui segna un gol splendido. Arrivi e partenze al Milan. Torna Capello, lascia Baggio. Per lui non c’è più spazio. Si arriva, anche con il Milan, alla separazione consensuale. In estate, un anno prima del Mondiale in Francia, Baggio sembra finito. Non è cosi.
La nuova destinazione, Bologna, lo riporta in corsa. Il suo obiettivo principale è sempre la Nazionale, forse la sua unica e vera maglia. Cesare Maldini lo richiama in azzurro. Bologna è un momento positivo e importante. I rapporti con l’allenatore Renzo Ulivieri non sono semplici, ma il bilancio personale di Baggio è strepitoso: 22 gol, il suo record in A. Prenota Francia ’98. Il c.t. Maldini è raggiante. Con un Baggio così… Dovrebbe essere lui il titolare. Ma c’è Del Piero (21 gol in campionato) che reclama una maglia. Il Mondiale francese è segnato dal dualismo Baggio-Del Piero. Ma è una nuova delusione. Roberto segna contro il Cile e l’Austria, sfiora il golden gol contro la Francia ai quarti. L’Italia esce ai rigori, battuta dai francesi.
E Baggio si rimette in viaggio. Nell’estate 98, dopo una sola stagione, lascia Bologna e torna a Milano, stavolta all’Inter. Due campionati nerazzurri tormentati da molti infortuni (Ronaldo su tutti) e dai troppi cambi di panchina (Simoni, Lucescu, Hodgson, Castellini, Lippi). Robi non riesce a dare il massimo. Da ricordare i due gol in Champions al Real Madrid campione d’Europa. Poi, altri buoni colpi, emozioni ma – soprattutto – scontri con Marcello Lippi.
Nell’estate 2000, Gino Corioni, presidente del Brescia, lo convince: «Vieni da noi». Baggio incontra Carlo Mazzone, un bellissimo rapporto di stima e amicizia. Sor Cadetto lascia Robi libero di inventare. E allora arrivano i gol in un Brescia che fa ruotare Toni, Di Biagio, Pirlo e Guardiola. Baggio si ritrova in testa alla classifica dei marcatori, con otto gol nelle prime nove giornate. Sogna il Mondiale con la Nazionale (c’è Trapattoni alla guida) in Corea e Giappone. Ma il destino lo ferma: cede il ginocchio sinistro. La riabilitazione è da record, ritorno in campo dopo 76 giorni, in tempo per segnare tre gol nelle ultime tre partite. Ma Trapattoni non lo può più aspettare.
La delusione è grande, ma Roberto decide di andare ancora avanti. Gioca altri due anni, taglia il traguardo dei 200 gol (poi saranno 205). Un’ultima passerella azzurra a Genova con la Spagna. Il 16 maggio 2004, a San Siro, la Scala del calcio, si conclude la luminosa carriera del violinista Baggio: la gente canta e balla per lui. E un grande abbraccio a uno dei campioni più amati. La Gazzetta titola: «Sei stato un mito, sei stato Baggio». Lucio Dalla, poeta e cantautore, dice: «A veder giocare Baggio ci si sente bambini… Baggio è l’impossibile che diventa possibile, una nevicata che scende giù da una porta aperta nel cielo».
Se ne va. L’anno dopo nasce Leonardo, il terzo figlio. Poi, dopo un lungo periodo di riflessione, torna. A Coverciano, dove ha vissuto una vita azzurra. Ha preso il posto di Azeglio Vicini, il suo commissario tecnico a Italia ‘90. Riparte dall’azzurro. Baggio è stato di tutti e di nessuno. O forse è stato solo una magia azzurra, come quella porta nel cielo.
Testo di Germano Bovolenta
Gigi Riva
Gianni Brera: “Per gli eroi autentici non si guasti il ricordo”
La notizia del grave incidente occorso a Luigi Riva mi è discesa nell’anima a tradimento, come un’amara colata di assenzio. Istintivamente ho riudito i lamenti di Lorca (“que no me dejas veerlo”) per il suo amico Ignacio riverso nell’arena. Egli stesso, con voce roca ma ferma, si è raccomandato che non ne facessimo un dramma. Era però Luis Riva l’atleta grande e famoso che aveva pudore di mostrarsi per una volta, debole come gli altri, lui che della vita ha il concetto tragico di chi ha dovuto forzare il destino.
Proprio io, tra i primi, l’avevo visto sbozzarsi a fatica da un ossuto traccagno del mio paese lombardo. Fasci di muscoli guizzavano imperiosi fuor dell’impianto rozzo e quasi greve. Non molti lo capirono e dovette emigrare. Lo fece bellissimo l’esercizio, peraltro scavandolo a vantaggio di prominenze decisamente michelangiolesche se non addirittura barocche. Nonché esaltarsi di questa nuova realtà della sua vita, egli era fatto cauto dal ricordo di troppe miserie vissute e sofferte a Leggiuno. Ancor oggi lo vedo sollevarsi da un bulicame confuso e informe di vittime predestinate alla fame e all’umiliazione. Si è ribellato come usano i romantici e gli eroi, troppo facilmente apparentati con quelli. Nel suo viso incavato erano scritti infiniti ricordi di dolore. Nessun pericolo ha mai potuto arrestarlo. Ha sempre considerato possibili le acrobazie più temerarie, tanto più temibili e pericolose in quanto più vicine all’arcigna durezza della terra.
Spiriti meschini hanno talora fraintese le sue prodezze attribuendole al caso. Altri hanno ignorato la virile bellezza dell’atleta rifugiandosi nel molle decadentismo degli esteti. Inconsciamente e no abbiamo lottato per lui in Italia con i ricordi non proprio estinti degli evirati cantori. Certo, i miaulii dei fighetti seducono più dell’urlo vibrato, non umiliano i deboli al paragone. Rombo di Tuono, io dissi un giorno per quasi incredulo entusiasmo, e trovai memoria di un re Brenno nel nostro etnos più antico. Anche Brenno, come lui, era comancino ma Luis non era mai nato nel nostro calcio, costituiva fenomeno nuovo nuovissimo, sicché qualcuno esitava, poco riconoscente, a indicarlo quale degno erede di Silvio Piola, lui pure di sangue lombardo.
Piola era giusto di piede rozzo come il suo: ben altro però li doveva rivelare alla grandezza sportiva: innanzi tutto il coraggio, poi la potenza atletica, l’impeto generoso, la quadrata rudezza del carattere. Quel tanto di più armonioso ed equilibrato che era nel gesto di Piola diventava in re Brenno squassante potenza, irruente immagine di aggressione e fors’anche di rapina. Le frustrazioni subite nell’infanzia gli impedivano ogni forma di prepotenza morale. Nessuno più di lui era disposto a capire gli umili. Pensandoci bene, nella sua fuga in Sardegna era improrogabile voglia di riscatto, direi di evasione nel sacrificio, e quindi fatalmente nel dolore.
Parlava di calcio come di un lavoro: non si e mai consentito il piacere di chiamarlo gioco: l’edonismo non era contemplato nella sua natura di ribelle che sapeva le umiliazioni dei vinti. Forse è subito piaciuto ai sardi perché anche loro sembrano mossi da un folle e talora persino torvo eroismo fuori del tempo. I sardi vedevano in lui il campione, l’eletto che doveva riscattarli di fronte a una storia matrigna. L’hanno benvoluto e adottato prima che lo assalisse la nostalgia. Divenuto in pochi anni uno dell’isola, si è sottratto quasi del tutto ai crudeli complessi d’un’infanzia troppo a lungo umiliata nell’indigenza.
Per quanto impegnato sulla parola a essere suo biografo, ho durato fatica a capire io stesso perché non lo allettasse un ritorno in Lombardia. Gli offrivano ingenti ricchezze e ovviamente onori tifo amicizie importanti. Preferiva rifugiarsi in casa di pescatori cagliaritani. Scopriva gli agi come glieli andava offrendo la natura, ancora per poco autentica in Sardegna. Vederlo stritolare e succhiare chele di aragosta era un godimento che sapeva fors’anche di vendetta. I suoi amici sardi annuivano ridendo con i loro antichi visi di berberi. Senza saperlo, certo, si sentivano uniti dal sangue. Berberi erano anche i leponti che avevano popolato i laghi lombardi: da noi, in Italia, venivano chiamati liguri; ma tornare in Lombardia lo spaventava troppi fantasmi sgradevoli, ancora, sotto il suo cielo.
Quando ho conosciuto Riva, ho quasi subito intuito il suo drammatico destino e puerilmente mi sono sforzato di esaltarlo nel favoloso. Re Brenno è diventato Rombo di Tuono perché l’iperbole si addiceva ai suoi prodigi di atleta. Considerando lavoro, dunque sofferenza, il gioco del calcio, mai si e lagnato del proprio dolore fisico.
Due volte ha offerto quel che aveva di più necessario nel suo mestiere (per mera auto?ironia precisavano i suoi agiografi che aveva dato due gambe alla patria pedatoria). Ora parole grosse non vorrei dirne, esattamente come piace a lui: però non esistono nello sport altri esempi di dedizione pagata a cosi caro prezzo. Ed è sempre risorto obbedendo a una volontà che doveva anche dare sgomento ai troppi pusilli italiani. Non basta dire che l’aiutava l’agonismo a evadere dal suo difficile passato di privazioni. In effetti eravamo in presenza dell’eroe. Non commuovi un pastore accennando a gesti solamente vezzosi; non incanti a parole il vecchio incallito uomo di sport.
In Italia, dove tanto scarseggia, sul coraggio si preferirebbe scivolare con discrezione di comodo. Nossignori, che dobbiamo distinguere l’uomo dal piccolo barlafuso imbroglione, l’atleta che conosce il sacrificio generoso dal furbo fregnoncino capace di fingere e infinocchiare! Certi spettacoli di calcio, in Italia, rasentano il fescennino burlesco, talché si potrebbe dire che a nobilitarli sia soltanto la ferocia dei meno bravi, il loro disperato e impietoso “struggle for life”.
Ma quando Rombo di Tuono distendeva le sue poderose falcate, nessun gesto poteva mai scadere a parodia agonistica. La qualità del suo lavoro appariva rozza soltanto agli incompetenti. In realtà la esaltava uno slancio irresistibile, un tempo raffinatissimo, un senso dell’impatto quale pochi possedevano al mondo. Ho visto io Sivori strizzare gli occhietti furbi e consolare lo smargiasso che era in lui garantendo che con quelle botte si sarebbe squinternate le gambe: Rombo di Tuono esplodeva saette cogliendo al volo dal limite i lunghi traversoni di Domenghini e altri dall’ala: colpito in pieno collo, il pallone schiattava letteralmente fra i pali.
Incompreso da tutti che non l’avessero già visto e conosciuto in Sardegna, Rombo di Tuono perdette un mondiale che per altri portò anche vergogna. Gli invidi abatini lo ignorarono il giorno della prova decisiva per averlo forse capito fin troppo. Al ritorno da Durham s’impose per nostro totale scorno di spregiatori gabbati e resipiscenti. Come un antico eroe, ebbe finalmente l’apoteosi per fatiche non indegne ? disi mi ? della leggenda erculea: batte il vento Scirocco, maligno figlio di Eolo, africano di nascita, molle persuasore delle nostre secolari fiacche mediterranee: supero l’ambigua ninfa Paura, costante abitatrice dei nostri cieli; cavalco le nuvole per discenderne come un eroe (Lohengrin genannt) di miti un po’ meno labili dei nostri…
Nessuno sa la disperata impotenza dell’atleta che il mite clima delle sirene avvolge e deprime; nessuno la maledetta fifa che ti rode mentre con viso altero o distaccato compi l’innaturale e traumatica funzione del volo: se l’anima esiste, si abbotta come uno stinco percosso con la punta d’uno scarpone. Non basta: per Rombo di Tuono si trovò compiutamente italiana, anzi campione!, una terra che non lo era mai stata se non nel sacrificio cruento, nei ripetuti massacri della guerra. Gli inviti al ritorno non ebbero più eco se non nel suo dispetto di isolano per elezione. Visse giornate radiose e altre persino umilianti. Il suo destino tragico ne annullava le gioie proprio nei giorni riservati ai trionfi.
In Messico lo colse l’atroce stanchezza di anni vissuti nell’esaltazione ma soprattutto nel sacrificio. L’altura ne spossava i muscoli troppo forti. Un amore cercato per sopravvivere alle fatiche del campionato già vinto finì di intristirne gli umori. Soltanto nel finale ebbe modo di riscattarsi. E quando fu di ritorno senti magnificare altri che non ne aveva i meriti. Guarì della stanchezza e della passione di donna applicandosi con l’orgoglio del campione ormai consacrato. Perdette quota con la società che aveva preteso troppo da lui e dall’isola. Ebbe una nuova frattura. Seppe rinascere. Ebbe uno strappo nella gamba d’appoggio, la destra, quando si annunciarono i nuovi mondiali. Naufragò con gli altri e praticamente chiuse.
Tentò di rinascere un’ennesima volta e il miracolo pareva già riuscito ancora. L’ha poi stroncato il destino. “No me dejas veerlo”, implorava Garcia per Ignacio riverso nel suo sangue. Io vorrei solo che degli eroi autentici non si guastasse mai il ricordo.
L’uomo Riva è un serio esempio per tutti. Il giocatore chiamato Rombo di Tuono è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi. Ne può discendere solo per prodigio: purtroppo la giovinezza, che ai prodigi dispone e prepara, ahi, giovinezza è spenta.
Gianni Brera
Paolo Maldini
Il difensore più completo del calcio italiano. Sulla terza linea del Milan ha ricoperto tutti i ruoli, cominciando sulla fascia destra, consacrandosi su quella sinistra e quindi diventando un regista di reparto al centro. Detiene il record di presenze nel Milan (902), in Serie A (647) e nelle competizioni Uefa per club ( 174). In carriera ha vestito solo la casacca milanista: Liedholm lo ha fatto esordire il 20 gennaio 1985 e ha chiuso al termine della stagione 2008-09. Ha vinto 26 trofei, fra cui 7 scudetti e 5 Coppe Campioni/Champions League. Con Gento condivide il record di otto finali del massimo trofeo continentale.
Andrea Pirlo
Franco Baresi
Marco Tardelli
Giacinto Facchetti
FACCHETTI Giacinto: vita serena di un capitano
Universalmente riconosciuto pedina fondamentale nella storia del calcio e, ancor più, esempio di qualità morali e fair-play
Figlio di un ferroviere, vive la sua infanzia prendendo a calci un pallone nell’oratorio della città natale. Ragazzo di encomiabile bontà, incarna alla perfezione i valori di una intera generazione, quella cresciuta all’indomani del secondo conflitto mondiale, che nell’umiltà e nei piccoli sacrifici della quotidianità trova la spinta per ‘arrivare’. E Giacinto ‘arriva’ presto, molto presto…
Sono passati ormai più di quarant’anni dal giorno in cui Helenio Herrera, guardando una prova non soddisfacente di un terzino, disse: “Questo ragazzo sarà una colonna fondamentale della mia Inter“. Lo spilungone bergamasco, nato il 18 luglio 1942, era al suo esordio assoluto in serie A, (21 maggio 1961, Roma-Inter 0-2). Non aveva convinto troppo, ma quella profezia si rivelò abbastanza azzeccata, e una volta inserito nel meccanismo d’orologio che erano i nerazzurri, vide pentirsi i critici.
Alla Trevigliese dei suoi esordi Giacinto Facchetti non era terzino, bensì attaccante, ma una volta arrivato in nerazzurro il Mago lo piazzò in difesa. Il dono della sua antica posizione, lo scatto, era l’arma in più che cercava: un terzino diventato all’improvviso ala, avanzando alla porta rivale.
Inatteso goleador oltre che forte nei recuperi, Facchetti si fece un nome prestissimo nella compagine bausciá ed iscrisse il proprio nome in tutte le prodezze degli anni di oro della Grande Inter.
Senza paura di sbagliarsi, chiunque poteva dire che per il laterale sinistro c’era un Prima e un Dopo Facchetti. Infatti, la sua ascesa fu presa in considerazione presto per il nuovo Commissario Tecnico Edmondo Fabbri, che lo chiama per le qualificazioni della della Coppa Europea di Nazioni il 27 marzo 1963 contro la Turchia ad Istanbul (vince Italia per 1-0) Per il primo gol deve aspettare 20 mesi, sbloccando il risultato al primo minuto (!) della gara ad eliminazione con la Finlandia, finita 6-1 per gli azzurri.
La annata 1963 é speciale Con 49 punti, 4 di vantaggio sulla Juventus – vendicando la situazione del 1961 – 19 vittorie, 11 pareggi e 4 sconfitte, 56 gol fatti e 20 subiti, l’Inter vince lo scudetto ed arriva l’anno successivo in Coppa Campioni, trovandosi di fronte il Real Madrid e battendolo con due gol di Mazzola ed uno di Milani. Dopo batte anche l’Independiente di Avellaneda in tripla finale (0-1, 2-0, 1-0 a Madrid) ed é il primato interista ad opporsi alla prima Coppa Campioni milanista: campioni del mondo. Il terzino bergamasco riceve lodi in tutte le lingue, ma c’e perplessità rispetto al suo impiego in un ruolo difensivo, dove la velocità viene dosata in ben altra maniera.
La mobilità che Fabbri si auspicava dei suoi terzini in Nazionale, e che Facchetti aveva, non arrivò, principalmente perché i primi due anni in maglia azzurra non significarono per lui la grande svolta che molti si aspettavano, il Club Italia che rinverdirebbe i fasti con una Nazionale interamente italiana. Tanto più che durante il 1965 l’Inter continuava a vincere ancora, rinnovando il titolo nazionale dopo la Pasqua di Sangue con il Bologna dell’anno scorso, continentale contro il Benfica, e mondiale ancora sull’Independiente, stavolta in doppia finale (3-0, 0-0). Tre lunghezze sul Milan, 54 punti, 22 vittorie, 10 pareggi e due sconfitte, 68 gol fatti 29 subiti, questi i numeri del campionato. Si ripeterà di nuovo nel 1966 con 50 gol, 20 vittorie, 10 pareggi e 4 sconfitte, 70 gol fatti e 28 subiti s’incorona campione di nuovo.
Nel Inter c’era un altro fattore negativo, oltre ai trionfi: la novità della sua posizione lo fa soffrire una strana dualità con Sandro Mazzola, se uno dei due non segna, si comincia a parlare di crisi. Come se non bastasse questo tormentone, i rapporti tra lui e Fabbri si incrinano. Scoppia tutto dopo un amichevole, giá ottenuti i biglietti per i mondiali inglesi del 1966. Uno 0-0 con la Francia che sollevò le ire dei tifosi proprio come un 0-0 a Varsavia undici mesi prima. Era il momento propizio per far sí che il gruppo interista – emarginato come bloc-co dalla nazionale di Fabbri e sentendosi bacchettato dall’allenatore – passasse proprio allora al contrattacco. Il CT sosteneva di non poter trapiantare un modulo senza il giocatore cardine – Suarez – e i giocatori (Corso e Facchetti in primis) si lagnavano delle scelte del tecnico romagnolo.
“Il vero calcio italiano é quello dell’Inter e non quello della Nazionale italiana”, apre i fuochi alla stampa francese un – a dir poco – insoddisfatto Facchetti, che spiega non aver realizzato reti, sua specialità cardine “perché il signor Fabbri ci proibisce andare avanti. Lui vuole solo pareggiare, e con i soli pareggi non arriveremmo da nessuna parte in Inghilterra”. Profetiche parole. “Giacinto Magno”, come lo chiamò Brera, ebbe dura vita ai mondiali inglesi, specialmente di fronte al russo Cislenko, l’ala che segnó la rete della vittoria dell’Urss, e non meno contro i coreani. Si macchia cosí della caduta sportiva piú vergognosa del calcio italiano, ma anche questa volta risorge. Dopo la Corea, é fatto capitano a soli 24 anni e riprende con la solita forza la strada.
Mentre l’Inter nel 1967 andava incontro a Mantova e falliva a conquistare una storica tripletta, Facchetti avanzava verso la gloria mondiale. E se qualcuno prima dubitava del suo ruolo, e parlava di crisi e della cosiddetta “alimentazione di guerra”, presto dovette ricredersi. La rivincita giungerà sotto forma della prima e sin qui unica Coppa Europea di Nazioni vinta dall’Italia (1968).
Una Coppa segnata dall’ azzardo, una semifinale giocata sul lancio della monetina che Facchetti stesso scelse. Capitano nel bene e nel male, dunque, è tra i giocatori di rilievo ad aver giocato in tutte e tre le Nazionali: Giovanile, B (1 partita ognuna) e naturalmente A.
In Messico, nel 1970, sembrava la volta buona per mettersi in mostra. Smarrito all’inizio come la maggioranza degli azzurri per l’altitudine, la pressione e il caldo, via via il suo gioco andò migliorando, e anche se la finalissima lo vide con il solito “animus pugnandi”, finì con un 4-1 sfavorevole agli azzurri, ma con l’orgoglio rifatto. Tra i tanti della Corea che volevano rivincita, Facchetti fu uno che agli occhi di tutti cresce e rinasce.
Anni dopo ricorderà questa altalena: “Mi volevano condannare allo ergastolo quando ci sconfisse la Corea ai Mondiali d’Inghilterra, e quattro anni dopo, quando vincemmo sulla Germania per 4 a 3 in Messico, raggiungendo la finale con i brasiliani, la polizia dovette fare un operazione di sicurezza per evitare che i tifosi prendessero mia moglie ci portassimo in trionfo. Comunque, fra dei tanti difetti, il calcio é una delle poche cose che all’estero fanno parlar bene degli italiani“.
Nella metà degli anni Settanta, Facchetti chiede a Luisito Suarez – diventato allenatore dell’Inter – di provare a fargli fare il libero. Lo spagnolo resta convinto delle qualità del suo antico compagno: un libero mobile, plastico, un po’ troppo “cavalleresco” per i suoi gusti ma infine un grande libero. In questa veste riconquista il posto di diritto e, incredibilmente, ritorna in Nazionale per arrivare al suo quarto mondiale.
Qui arriva la tragedia. Giocando per l’Inter Facchetti s’infortuna e, stringendo i denti, torna, anche se non in piena forma. Quando Bearzot chiama i 22 per andare in Argentina, in un atto di grande sincerità sportiva, il capitano gli fa sapere di non stare nella forma migliore e chiede al tecnico di scegliere un altro al posto suo. Andò ugualmente, l’Italia arrivò quarta e per lui fu la prima volta da dirigente accompagnatore. Il 16 novembre 1977, con 94 partite da capitano azzurro, Facchetti lascia la Nazionale con questo record. Record che fu superato in seguito solo da Zoff, Paolo Maldini e Cannavaro.
L’addio al calcio comunque arriva il 7 maggio 1978, vincendo 2-1 sul Foggia: nel arco della pulitissima carriera era stato espulso una volta sola. Dopo esser divenuto rappresentante all’estero per l’Inter, divenne Vicepresidente dell’Atalanta, per poi tornare dai nerazzurri di Milano durante la presidenza di Massimo Moratti col il ruolo di Direttore Generale. Divenne Vicepresidente dopo la morte di Giuseppe Prisco e, infine, Presidente il 19 gennaio 2004, dopo le dimissioni di Massimo Moratti. Malato di tumore al pancreas, Facchetti si è spento a Milano il 4 settembre 2006.
Tarcisio Burnich
Questo giovanotto taciturno e perennemente accigliato, che aveva contribuito allo scudetto della Juve con 13 presenze niente male, suscita l’interesse della grande Inter di Moratti Allodi e H.H., e così come velocemente era calato dal Nord al Sud, altrettanto velocemente risale dal Sud al Nord. E approda alla corte nerazzurra per far coppia con uno spilungone biondo e simpatico, tale Giacinto Facchetti, da Treviglio di Bergamo, un tipo che parla poco come lui, ma gioca molto. E i due si integrano a meraviglia, Tarcisio si becca la punta più appuntita della squadra avversaria, gli mette il bavaglio e lo manda subito a cuccia, mentre Giacintone svolazza a tutto campo per segnare i primi gol italiani di un difensore di ruolo…
Nasce così una delle coppie di terzini più famose di tutto il nostro calcio, qualcosa come Rosetta e Calligaris, Monzeglio e Allemandi, Ballarin e Maroso, Fagotto e Ricci, Magnini–Cervato e via ricordando. Tarcisio, fra il lusco e il brusco, vince altri quattro scudetti (dopo quello fugacemente conquistato a Torino con la maglietta della Juve), vince un paio di Coppe dei Campioni, gioca qualcosa come 66 partite in Nazionale, segna due gol, uno dei quali resta consegnato alla storia della Coppa Rimet. Eh, già, perché si tratta del gol del momentaneo due a due all’Azteca, in quella girandola stordente di reti e di emozioni che fu il 4 a 3 fra l’Italia e la Germania Ovest, Burgnich ci mise lo zampone anche lui, una fulminea proiezione offensiva (lui, che non avanzava mai, mastino tenace da area di rigore) un tocco e Maier dovette inchinarsi…
Poi anche l’Inter fa la sua brava fesseria, nel 1974. L’età non più verde (35) e i dubbi sulla sua ripresa fisica dopo un infortunio convincono i nerazzurri a cederlo. In effetti sembra proprio avviato sul viale del tramonto, tanto più che si sente quasi appagato da tanti anni disputati ad alto livello, pieni di successi. Vinicio però lo vuole a tutti i costi: gli serve un libero esperto per applicare al meglio la tattica del fuorigioco, novità assoluta per il Napoli. Accetta con entusiasmo e sente che può dare ancora qualcosa al calcio. Burgnich disputa una stagione straordinaria: 36 anni 30 partite su 30! Determinante risulta la sua esperienza in quel meraviglioso Napoli del 1974-1975, che si classificò 2°. L’anno dopo vince l’ultimo trofeo vacante nella sua già ricca bacheca; la Coppa Italia. Gioca la sua ultima partita il 22/5/1977 contro la Fiorentina arrivando a sfiorare le 500 presenze in serie A (alla fine saranno 494).
In Nazionale, “Mondino” Fabbri lo fa esordire in nazionale A il 10/11/1963 nel match di ritorno valevole per gli ottavi di finale della Coppa Europa contro l’U.R.S.S. del mitico “Ragno nero” Lev Jascin (per la cronaca finì 1-1 con Italia, ahimè, eliminata). Indossa per ben 66 volte la maglia azzurra chiudendo la sua epopea infortunandosi, causa uno strappo, durante Polonia-Italia 2-1 del 23/6/1974, gara che sancì l’eliminazione dai mondiali nella Coppa del mondo 1974.
Terminata la carriera, Tarcisio torna al Nord, destinazione Coverciano, supercorso per allenatori diretto da Allodi. Guadagna il suo bravo diploma Da qui una carriera che si dipana tra Bologna, Como, Foggia, Lucchese, Cremonese, Genoa e Vicenza senza tuttavia picchi di gloria come avrebbe senz’altro meritato.
Chi è, dunque, Tarcisio Burgnich? Un uomo tutto d’un pezzo, gran lavoratore, taciturno ma niente affatto musone, onesto come usava ai tempi andati, innamorato del calcio, dal quale ha avuto tutto, ma al quale molto ha dato. E’ sua, e di un altro furlan, Ezio Pascutti, una delle foto più famose degli ultimi vent’anni (vedi sotto): quel volo a due per colpire di testa il pallone. Arrivò… primo Ezio e fu gol, un gol strepitoso, memorabile, eternato dall’estro fortunato di un fotoreporter abile e svelto come i due campioni.
A chi gli chiese cosa ne pensasse di quel famoso gol, lui, tutto serio e compunto, rispose: «Eh, sì, Pascutti me l’ha fatta. Pensa: io avevo capito che il cross sarebbe piovuto dalle nostre parti e siccome Ezio lo conosco bene, mi sono buttato in tuffo prima di lui, per anticiparlo. Sono in volo e intravvedo un fulmine che mi sfreccia… sotto, sento lo splash della pelata di Ezio che incoccia il cuoio del pallone, gol. Ero scattato per primo, sono arrivato secondo… Un gol così poteva segnarlo soltanto un campione come Ezio. In fondo, mi ha fatto perfino piacere che gli sia riuscita una prodezza del genere».
Burgnich, da giocatore, era fatto così. Inesorabile nei controllo dell’uomo, leale e cavalleresco nel riconoscere le piccole sconfitte che in una partita doveva, fatalmente, conoscere anche un asso come lui.
Nel Napoli, al primo anno, non fu possibile, perché il libero era Zurlini: lento, comportava dei rischi. Ma con l’arrivo di Burgnich, impiegato in linea con i difensori, applicammo la zona totale».
Gianni Brera, italianista di ferro, di mettere Burgnich al suo posto e di giocare come cercano tutti in questa valle di lacrime, stretti a difesa e larghi in attacco»
«Con la Lazio» spiegava, cioè col successivo e suo ultimo approdo di grido, «non fu possibile, perché avevo Wilson che giocava venti-trenta metri dietro a tutti. Se si allunga la squadra, è un suicidio fare questo tipo di gioco.
La nostra difesa reggeva alla meglio, non proprio male se debbo dirlo: ma al 31′ Szarmach ha spintonato fallosamente Burgnich oltre il fondo: nel cadere, il caro vecchio Taras Bulba si è distorto il ginocchio sinistro: ha dunque dovuto uscire: e al suo posto è entrato Wilson, così riducendo automaticamente del 50 per cento la possibilità, ancora esistente, di rabberciare la squadra.
Wilson è un bravo guaglione, ma porta le lenti a contatto. Le palle alte volanti non le vede se non all’ultimo istante. Non deve neppure avere avuto il sospetto che il cross di Szymanowski al 38′ fosse da gol: si è visto scattare fulmineo Szarmach e incornare, lasciando surplace Morini, e spedire imparabilmente nell’angolino alla sinistra di Zoff, del tutto incolpevole.
10) Gaetano Scirea
Eccellente libero dalla classe innata, Gaetano Scirea è ricordato anche come uomo corretto fuori e dentro il campo. Nel 1974, dopo due stagioni nelle fila dell’Atalanta, passa alla Juventus, dove giocherà fino al 1988, quando si ritira. Con la squadra torinese vive stagioni intense e ricche di successi: sette scudetti, due Coppe Italia, una Coppa delle Coppe (1983-84), una Coppa UEFA (1976-77), una Coppa dei Campioni (1984-85), una Supercoppa Europea (1985) e una Coppa Intercontinentale (1 985). Il 30 dicembre 1975 esordisce in Nazionale nell’amichevole Italia-Grecia (3-2). Giocherà in azzurro 78 partite, realizzando due gol, partecipa a tre Mondiali, protagonista in quello vinto in Spagna 1982 e quelli in Argentina 1978 e Messico 1986.
Gianluigi Buffon
Dino Zoff
Francesco Totti
Alessandro Mazzola
Giancarlo Antognoni
Stilisticamente ineccepibile, durante il Mondiale del 1982, Giancarlo Antognoni disputa una partita memorabile contro il Brasile. Vive, però, episodi sfortunati e proprio a causa di un infortunio deve rinunciare alla partita della vittoria contro la Germania Ovest. Nato il 1° aprile 1954 a Marsciano (PG), a 18 anni esordisce in serie A con la Fiorentina, dove giocherà per gran parte della sua carriera. Nei 15 anni in viola gioca 411 partite e segna 72 reti. Debutta con l’Italia sotto il c.t. Bernardini il 20 novembre 1974 in Olanda-Italia 3-1
Roberto Boninsegna
Boninsegna è stato capace di catalizzare su di sé l’attenzione di intere schiere di difensori che lo hanno vissuto come un autentico incubo da area di rigore. Un attaccante in grado di segnare da tutte le posizioni e in tutte le maniere e che ha segnato la storia di tre grandi squadre: il Cagliari grande con Gigi Riva), l’Inter e infine la Juventus.
Paolo Rossi
Paolo Pablito Rossi, campione del Mondo e capocannoniere di Spagna ’82 con 6 reti, contempla quel finimondo e – misteri dell’animo umano – si scopre triste:
Bruno Conti
E’ stato il più forte calciatore ai mondiali del 1982 di tutto il torneo. Un gatto con il gomitolo…. “uno dei massimi giocolieri prodotti dal nostro calcio” (Gianni Brera)
Alessandro Del Piero
20) Alessandro Nesta
Angelo Domenghini
La solitudine dell’ala destra, «è tratta dalla poesia su Angelo Domenghini che tutte le persone della mia generazione ricorderanno col suo stile in fondo così poco raffinato. Il suo essere sghembo, il suo essere molto approssimativo ha catturato tutti i tifosi»:
[…] Don Chisciotte disciplinato
e generoso, spuntato compasso
che mima un cerchio, spesso incarnasti
la solitudine dell’ala destra,
collocazione estetica
e ansia al margine
Giacomo Bulgarelli
Gianni Mura, la Repubblica, 15/2/2009, 15 febbraio 2009
UN UOMO CHE MERITAVA IL SILENZIO DI TUTTI
Giacomo Bulgarelli non era solo una bandiera, anche se l´immagine è giusta. Non è giusto, secondo me, che il minuto di silenzio si faccia soltanto dove gioca il Bologna, perché Bulgarelli era un fiore raro per il nostro calcio e apparteneva idealmente a tutto il nostro calcio che aveva il dovere di ricordarlo senza sviolinate ma con un semplice minuto di silenzio. Arrivo a capire il ragionamento che possono aver fatto in Lega o in Federazione: perché lui sì e Tizio o Caio no? Non è mai facile parlare dei morti, ma la risposta è questa: perché lui sì. Perché, fino a che ha giocato, ha incarnato il professionista bravo con i piedi e anche con la testa. Molto bravo coi piedi, iniziò da attaccante e chiuse da libero. Da centrocampista fu il meno abatino degli abatini, tanto per tornare sul marchio breriano. Un giocatore completo. Non volle mai muoversi da Bologna e non fu l´unico della sua generazione di nati in guerra. Lo spirito di appartenenza contava più degli ingaggi, e ci si sbrigava da soli, senza procuratori. Si cresceva più in fretta. La buona educazione nei rapporti con tutti […]
Mancini
Piero Vierchowod
Cristian Vieri
Gianluca Vialli
Bergomi
Ferrara
Cannavaro
30) Franco Causio
Cabrini
Andrea Barzagli
“A me l’unico che piace davvero è Barzagli. Mi ricorda i nostri tempi, è un bel difensore all’antica. Non è velocissimo, ma compensa col mestiere e l’attenzione. Bonucci è più bravo tecnicamente, ma gli piace specchiarsi e ogni tanto fa quelle che ai miei tempi si chiamavano maldinate. Non me ne voglia il buon Cesare. Chiellini non mi piace: eccessivo sia quando le dà che quando le prende, troppi interventi in scivolata, generoso, non discuto…” (Tarcisio Burgnich)
Cesare Maldini
Rosato
Roberto Donadoni
Gioca per 12 campionati consecutivi in rossonero, vincendo cinque scudetti, tre Coppe Campioni e due Intercontinentali da protagonista, per tornare poi a fare la riserva di lusso, e vincere ancora.
Chiellini
Antonio Iuliano
Giuseppe Pacileo definì il rapporto fra Juliano e i Napoletani: “i Napoletani lo stimano e lo rispettano ma non lo amano”. Ma tant’è il popolo Napoletano ha sempre amato maggiormente i personaggi estrosi, il più delle volte fumosi, rispetto a quelli concreti e meno divertenti.
Antonio Ghirelli disse di lui: Juliano fa parte di quella razza di Napoletani atipici ai quali fa difetto la fantasia e la genialità, ma solo perché fanno della serietà, della lealtà e del senso del sacrificio il loro stile di vita; è per questo che ha avuto e continuerà ad avere sempre tutta la mia stima.
Con Ciro Ferrara, “Totonno” è stato il più grande calciatore Napoletano di tutti i tempi.
Ha giocato nel Napoli dal 1962 al 1978 per un totale di 379 partite e ha concluso la carriera con un ultimo anno a Bologna.
«Uno che mi piaceva moltissimo era Antonio Juliano, Totonno. Un tipo tosto, persona autentica, con un temperamento da condottiero. Giocava un calcio concreto, senza concedere spazio alla teatralità. Un “napoletano atipico”, lo hanno definito, perché era il contrario dello stereotipo partenopeo.» (Dino Zoff, Dura solo un attimo, la gloria)
Nel 1965 il Napoli acquista due fuoriclasse: Omar Sivori e Josè Altafini. Juliano però non si lasciò intimorire dal confronto con simili fuoriclasse e nel 1966 esordisce in nazionale ed è convocato fra i ventidue che parteciperanno all’infausto Mondiale Inglese del 1966.
Frattanto il Napoli calcio vive 3 stagioni di alta classifica. Nel ’66 si classifica 3°; nel ’67 4°; nel ’68 2°, benchè ad 11 punti dal Milan tricolore di Gianni Rivera. Ormai ”Totonno” è diventato il simbolo degli Azzurri, nonostante la presenza di mostri sacri come Altafini e Sivori, tanto da stuzzicare la fantasia di Nereo Rocco, tecnico del Milan, che vorrebbe affiancarlo a Gianni Rivera per costituire una coppia di mezze ali da sogno.
L’attuale Presidente della Federcalcio, Franco Carraro, allora a capo della società Rossonera arriva ad offrire la bellezza di 800 milioni per acquistarlo (siamo nel 1968 ).
Sempre nel 1968 l’Italia si laurea Campione d’Europa e Iuliano gioca in diverse partite.
Nel 1970 è convocato per il suo secondo Mondiale (Messico 1970), rimanendo sempre fra le riserve sino al ’75 minuto della finalissima contro il Brasile, anticipando di qualche minuto l’ingresso di Gianni Rivera destinato al suscitare violentissime polemiche.
Dopo Mexico ’70 i partenopei competono a lungo per il titolo con il Milan e l’Inter (che vinse) e dopo alcune stagioni di tranquilla mediocrità, ritorna ai vertici con l’allenatore Luis Vinicio.
Gianni Brera così definiva il Napoli di Vinicio: “il suo gioco si fonda sulla regia di Juliano, al quale i devoti gregari portano palla con assoluta diligenza. Il Capitano Azzurro fornisce, anche se a flebile ritmo, prestazioni stupende”. Dotato di grande temperamento, di finissima tecnica e di un naturale senso della posizione Juliano è stato per più di 10 anni il cardine della manovra Azzurra. Riusciva a disimpegnarsi con egual bravura sia in fase propositiva che in fase di contenimento.
Giocando alla Vinicio-Olandese Juliano e c. arrivano 3° nel 1974 e 2° nel 1975. “Totonno”, nel frattempo, viene convocato per il suo terzo Mondiale. Un traguardo che neanche Ciro Ferrara ha raggiunto. La sua ultima partita “Tricolore” (la 18ª) avviene nel tempio dei nuovi profeti del gol, gli Olandesi guidati da Johan Crudff in una in una gara valida per le qualificazioni per la Coppa Europea persa dall’Italia per 3-1.
Romeo Benetti
Giancarlo De Sisti
40) Ciro Immobile
De Rossi
Claudio Sala
“Poeta del gol”. Così lo definì Giampaolo Ormezzano. Claudio Sala è stato uno degli ultimi interpreti del calcio fatto di poesia e fantasia; di dribbling e di gesta atletiche mirabolanti. Alle sue sue fughe sulla fascia sono legati i gol dei “Gemelli del gol” del Torino campione d’Italia nella stagione 1975-76 e vice-campione l’anno successivo nel torneo perso contro i “cugini” della Juve per un solo punto in classifica.
Enrico Albertosi
Armando Picchi
Gabriele Oriali
Walter Zenga
“Uomo Ragno” o “Deltaplano”, come lo definisce Gianni Brera con uno dei suoi soprannomi geniali, perfetto per celebrare la vocazione alla platealità coniugata con l’efficacia degli interventi. Dotato di grandissima classe, perfetto tra i pali, bravo, anche se non bravissimo, nelle uscite, non brillante nel fronteggiare i calci di rigore, era comunque in possesso di un repertorio tecnico tra i più completi.
Roberto Pruzzo
Attaccante dotato di ottime capacità realizzative, ha esordito nel Genoa. Nella Roma ha vinto tre volte la classifica dei cannonieri del Campionato (1980-81, 1981-82, 1985-86).
«Non ho avuto maestri, ho sempre e solo giocato nel campetto della chiesa di Crocefieschi. Ho giocato nel primo campo vero, se così si può chiamare, che avevo già 15 anni a Vobbia, nel torneo dei bar». Pruzzo
«Ma io a Roma, nei primi anni, non ho avuto niente facile… Io dovevo andare al Milan e mi sono ritrovato a cercar casa a Roma. Grandi problemi d’ ambientamento, una fatica terribile, nessuno riusciva a trovarmi casa. A Falcao l’hanno trovata in quattro giorni. Ma è pure giusto, io capisco la differenze! Falcao ha permesso alla Roma il salto di qualità, è un fuoriclasse… Solo che io per risaltare meglio nel ruolo, avrei bisogno d’un Rivera. E di Rivera non ne esistono più. Io nel Genoa ho giocato alcune partite con l’ultimo Corso e mi sentivo già in paradiso. Peccato che non ho potuto mai giocare con Rivera. ecco: nella Roma, se fosse possibile un altro straniero, ci vedrei bene esclusivamente Maradona» Pruzzo
Antonio Di Natale
Uno dei migliori attaccanti della sua generazione, è annoverato tra i più prolifici goleador della storia del calcio italiano, è il sesto realizzatore di sempre del campionato di serie A con 209 gol e il giocatore che ha segnato più gol nella suddetta competizione nel decennio 2010-2019 con 125 reti. Ha inoltre vinto per due stagioni consecutive la classifica cannonieri della Serie A.
Idolo dei tifosi dell’Udinese. Attaccante longevo dotato di grande velocità e ottima tecnica individuale, ha giocato come esterno d’attacco per buona parte della carriera, per poi dalla stagione 2009-2010 iniziare a ricoprire una posizione più centrale e nel ruolo di centravanti ha aumentato di molto il numero di reti realizzate rispetto agli anni precedenti.
Ezio Pascutti
Il gol nel sangue. Ezio Pascutti ce l’aveva – ha segnato in campionato 130 reti senza rigori, ma non gli è bastato, non gli è bastato per farsi ricordare come lui desiderava, come ogni calciatore sogna. Un attaccante efficace come pochi altri sotto rete, coraggioso, combattivo, sgusciante al quale è stata disegnata addosso la fama di “cattivo”.
50) Gianfranco Zola
Ancelotti
Roberto Bettega
Da “Enciclopedia dello Sport – I grandi bomber Italiani” 1988 – Garioni e Ghisi
Alla proverbiale abilità nel gioco di testa (…) il numero undici juventino unisce un senso del gioco eccezionale: è sempre al posto giusto nel momento giusto (…) Nessuno è completo come Bettega(…)
Roberto Bettega è stato uno dei più grandi giocatori juventini di tutti i tempi e uno degli elementi più vincenti (…)
Il suo genio calcistico è immenso (…) una grande intelligenza. Bettega in maglia azzurra, come nella Juve, diventa subito leader(..).
Gianni Agnelli: “E’ stato un autentico campione in campo e fuori, per anni l’uomo guida della nostra squadra”.
Da “Forza Azzurri” 1978 – Gianni Brera
…il più intelligente ed eclettico del mazzo quel Roberto Bettega…
Da “Come fare gol” 1987 – Josè Altafini
Questo formidabile campione è Roberto Bettega, uno dei più intelligenti calciatori con i quali io abbia mai giocato (…)
Formidabile nel gioco di testa, dotato di una visione di gioco da autentico cervellone,
Bettega sapeva difendere il pallone in modo straordinario (…) Credo che la sua
percentuale di palloni sprecati sia una delle più basse mai registrate. Come uomo-gol
Bettega aveva tutto: colpo di testa, tiro, dribbling, astuzia (…)
Si infortunò qualche mese prima del Mundial di Spagna (…) altrimenti sarebbe diventato campione del mondo anche lui. E state certi che l’avrebbe meritato ampiamente, come e più di tanti altri che erano a Madrid.
Bruno Giordano
“Il più bravo in assoluto con il quale ho giocato è stato Careca. Ma tra gli italiani non c’è dubbio, Bruno Giordano: il più sudamericano tra quelli che sono nati nel vostro meraviglioso Paese”. Diego Armando Maradona
Inzaghi
Toni
Graziani
Paolo Pulici
Paolino Pulici il più forte calciatore del Torino degli anni ’70: “per le sue doti acrobatiche, per il modo di giocare negli ultimi venti metri.” Claudio Sala
Signori
Zambrotta
60) Altobelli
Montella
Tassotti
Peruzzi
Costacurta
Fra i più longevi calciatori rossoneri della storia, cresciuto nelle giovanili, nel 1987 Sacchi lo inserisce in pianta stabile nella rosa della prima squadra dopo il prestito al Monza in C1: ci rimarrà per vent’anni consecutivi, vincendo 7 scudetti, 5 Coppe Campioni/Champions League e 2 Coppe Intercontinentali.
Manfredonia
Claudio Gentile
Marchisio
Mario Corso
Gianni Brera per lui coniò non un soprannome ma addirittura una frase, “il participio passato del verbo correre”, ironizzando sull’indole del fuoriclasse, che spesso si concedeva pause di riflessione per ripigliare fiato
E’stato Mandrake, ma anche il “participio passato del verbo correre”. E’ stato un giocatore incedibile nonostante finisse ogni estate al primo posto nelle liste di cessione, è stato considerato un genio ed un lavativo, il tormento e l’estasi di una generazione di tifosi nerazzurri, il prototipo degli “atipici”. E stato forse il giocatore che più marcatamente di qualunque altro ha usato un solo piede, ma in maniera così meravigliosa che il Commissario Tecnico di Israele, dopo una partita delle qualificazioni ai Mondiali del Cile, arrivò a dire “siamo stati sconfitti dal piede sinistro di Dio”.
il capolavoro della sua carriera è la stagione 1970-71 quando, partito Suarez, Corso prende in mano l’Inter, diventandone dopo tanti anni finalmente l’indiscusso “regista” e con una stagione straordinaria per qualità e continuità la trascina ad una incredibile rimonta sul Milan partita da -7 e conclusa con la conquista dell’undicesimo scudetto nerazzurro.
“Corso era anche un atleta, lento, ma fisicamente duro. Non riteneva di aver bisogno di correre, ma non era facile spostarlo. Guardate le fotografie dell’epoca, vedrete muscoli da mezzofondista. Dicevano che era atipico ed era quello il primo errore. Non si è atipici se si giocano più di cinquecento partite in serie A e si segnano 104 reti. Un umorale forse, come Platini, ma non un atipico. Corso era un trequartista puro, ruolo che allora non c’era, stava nascendo dalle parti di Rivera ma non era capito”, Mario Sconcerti.
Gilardino
70) Ferri
Nicola Berti
Berti è ancora ricordato e amato dai tifosi interisti come pochi altri. Le ragioni sono sicuramente riconducibili al suo modo di essere scanzonato: era sopranominato cavallo pazzo. Ma di fatto Berti è stato un ottimo giocatore, capace di essere protagonista per un decennio con indosso la maglia nerazzurra.
Salvadore
Fulvio Collovati
Mauro Bellugi
Morini
Bertini
Pagliuca
Dossena
Salvatore Bagni
Panucci
80) Cera
Ambrosini
Romano Fogli
Mediano che correva a tutto campo con grandi doti tecniche, che compensavano un fisico abbastanza esile. Possedeva un elegante tocco di palla e una rara sapienza tattica. A Bologna verrà ricordato per sempre come l’uomo scudetto dei rossoblu, uno dei perni della squadra che Fulvio Bernardini guidò al tricolore. Nella partita “unica” dello spareggio con la grande Inter nella storica serata del 7 giugno 1964, segnò la prima rete (leggermente deviata da Facchetti) con una punizione maligna e rasoterra da fuori area. Passò al Milan da vecchiotto, ma contribuì alla vittoria nella coppa dei Campioni 1969. Un calciatore di grande personalità e correttezza.
Toldo
Quagliarella
Giuseppe Savoldi
Nela
Gattuso
Janich
Giacomo Losi
90) De Agostini
Favalli
Fabio Cudicini
Dario Hubner: il bomber operaio
“A 16 anni facevo il fabbro – dirà in un’intervista a ‘gianlucadimarzio.com’ –. Quello sì che era un lavoro vero. Poi ho fatto il calciatore ed è stato semplicemente la cosa che mi piaceva fare”.
Ha stabilito un record non battibile: essere l’unico giocatore capace di far goal in Italia dalla Prima Categoria alla Serie A.
“Hubner è tra i primi 3-4 attaccanti d’Italia da 10 anni ha la cattiveria del grande goleador, si muove da vero centravanti” Fabio Capello
Zaccarelli
Agostino Di Bartolomei
Giannini
Pierino Fanna
Giuseppe Bruscolotti
Moreno Mannini