di Alfredo Morganti – 1o dicembre 2015
Le elezioni francesi sono un’ottima cartina al tornasole. È ormai diffusa, difatti, la convinzione che la scelta di votare FN non sia dipesa, in massima parte, da ragioni ideologiche o ideali, ma che, invece, sia il ‘profilo sociale’ del consenso quello che vada indagato per capire cosa sia effettivamente accaduto. Sappiamo che FN è da anni il primo partito tra gli operai. Oggi però lo è anche tra i giovani, con percentuali che raggiungono il 35% tra i 18-24enni e il 28% tra i 25-34enni (sono dati che raccolgo da Guido Caldiron sul ‘manifesto’ di oggi 10 dicembre). Tutti costoro (operai, giovani senza lavoro, spesso anche senza titolo di studio) sono una sorta di fronte del “rifiuto” (termine usato da Jean-Yves Camus, uno studioso, la cui riflessione è riportata sempre da Caldiron). Sono quelli che si contrappongo agli equilibri sociali che li vedono perdenti, sconfitti, ‘ultimi’, a cui la sinistra non offre risposte tangibili e di prospettiva. A cui la sinistra stenta a dare risposte, perché è stretta anch’essa, e irretita, dalla morsa ideologica di una crisi ampia, globale, marcata dagli effetti nefasti della globalizzazione sul tessuto sociale meno garantito.
Ragioni sociali, dunque, a cui la politica risponde soltanto col politicismo autoreferenziale, la comunicazione, il marketing. Oppure con le mance. Se esistesse un Renzi francese avrebbe già distribuito 80 euro come se piovesse. Ragioni sociali, che rendono davvero spuntata l’arma di chi pensa di garantire un indirizzo politico rivolgendosi soltanto a chi dalla globalizzazione è uscito vincente, o almeno tenta di pareggiare il durissimo conto. La spinta a destra nasce da qui, dalle ferite indotte da 20 anni almeno di politiche dissennate, che hanno squassato la coesione sociale, anzi, l’hanno individuata come proprio avversario (la società non esiste, appunto, secondo la Tatcher, e se esistesse meglio farla fuori). Oggi siamo quasi soltanto una sommatoria di individui, che tentano di risolvere da sé i propri problemi, mentre gli esecutivi sgretolano il terreno intorno alle figure sociali già deboli: attacco alla contrattazione collettiva, welfare gestito direttamente dalle aziende, sindacato alla berlina, politica delle mance a pioggia che accrescono le disuguaglianze, libertà di licenziamento, tagli alla sanità, scuola pubblica reinterpretata in termini aziendalisti e quantitativi. Individui soli, che rispondono con un rifiuto che li danneggia per primi.
Per accrescere la ricchezza esorbitante di pochi fortunati, in questi decenni, abbiamo impoverito agli estremi la società intorno. Per arricchire qualcuno, abbiamo tolto prospettiva a quasi tutti gli altri. La sinistra ha pensato prima di cavalcare l’onda, quindi è apparsa (e appare) incapace di affrontare le degenerazioni neoliberiste. E c’è una parte consistente di essa che ha scelto di rincorrere la destra, se non di fare tout court la destra (ma è come tagliare il ramo su cui si è seduti). Oggi sarebbe il caso, invece, di rifare la sinistra, sempre a ricordarsi com’era. Perché i casi sono due: o si spera che tutto il rifiuto divenga astensione incapace di incidere nella conformazione del sistema politico della rappresentanza, e allora impavidamente il problema è risolto nel peggiore dei modi. Oppure si chiamano a raccolta i perdenti, si parla, li si affronta per toglierli dalle grinfie della destra, della sua retorica, delle sue idee, e si offre a tutti finalmente una prospettiva, che sia più lunga e credibile di una semplice mancia elettorale. Non deve ripartire la crescita delle solite ricchezze, ma la crescita della ricchezza sociale. Che è proprio un’altra cosa.