Fonte: RICCARDO APREA
Le considerazioni di Massimiliano Smeriglio su Il Manifesto del 20/05/2020 “La sinistra è l’assenza da rimettere al centro del campo” mi sembrano particolarmente interessanti e largamente condivisibili.
Di fronte alla crisi epocale che stiamo attraversando, con una pandemia che ha ulteriormente aggravato i problemi della società contemporanea, caratterizzati dalla crescita esponenziale delle disuguaglianze sociali e da una crisi ambientale che, se si tergiversa sull’adozione di misure drastiche di inversione di tendenza, farà saltare, in tempi relativamente brevi, gli ormai fragilissimi equilibri del pianeta Terra fino a condurli ad un punto di non ritorno, giustamente Smeriglio pone il tema, decisivo, della“qualificazione del governo con idee di sinistra”.
“Perché è la sinistra – afferma – l’assenza, l’assente da rimettere al centro del campo”,precisando che “Quando parlo di sinistra parlo di cultura politica, di una visione del mondo, della necessità di leadership profetiche. E la visione del mondo è ciò che manca alle classi dirigenti del nostro Paese. Più che altrove. E se la pandemia ha distrutto il vecchio mondo ora servono parole nuove, biografie capaci di muoversi con una bussola su territorio sconosciuti. Ecologia, solidarietà, innovazione, Europa (perché presto in Europa si combatterà una battaglia senza esclusioni di colpi per la sua unità e indipendenza) i punti cardinali della bussola”
Occorrono, quindi, “pensieri lunghi”,“una idea di società fondata sulla giustizia sociale e il ritrovato protagonismo della sfera pubblica per contrastare l’avventurismo di classi dirigenti interessate solo alla loro auto conservazione”, la capacità di incidere profondamente nell’attività di governo, a partire da questo governo che c’è, qui e ora, qualificandola sui temi del “welfare, del reddito, del salario minimo, della conversione ecologica, della lotta al gender gap cresciuto con il lavoro a distanza, della centralità della conoscenza e della scuola pubblica”
Le considerazioni di Smeriglio, come detto, sono decisamente condivisibili e sicuramente un salto di qualità dell’azione di governo sulle tematiche da lui evidenziate, senza dubbio, significherebbe l’affermazione di politiche senz’altro qualificabili come “di sinistra”.
Pongo, tuttavia, un problema che, dal mio punto di vista, è effettivamente dirimente nell’avviare, alle nostre latitudini, in un’ottica di trasformazione profonda delle società contemporanee occidentali/europee lungo le linee avanzate da Smeriglio, e che è costituito dall’irrinunciabile obiettivo di aggredire il nocciolo duro proprio di sistemi sociali costruiti su un assetto capitalistico, già industriale, ora industriale-finanziario, e cioè l’esclusiva logica del profitto privato che muove scelte, comportamenti, alleanze delle forze che detengono le leve del potere economico-sociale.
Il punto cruciale, quindi, a mio parere, è come, quanto meno, ridurre fortemente tale logica, come accrescere nelle nostre società la logica dell’interesse pubblico, generale, della stragrande maggioranza dei cittadini/popolo.
Una politica di sinistra, pertanto di trasformazione profonda della/delle società verso i valori, coerentemente evocati da Smeriglio, della giustizia sociale, della riconversione ecologica, della centralità della conoscenza e della scuola pubblica e quant’altro, può reggersi unicamente sulla funzione, diciamo così, correttiva delle distorsioni capitalistiche, da assegnare all’intervento pubblico, massiccio quanto si vuole? Su, come dice Smeriglio, un nuovo protagonismo della sfera pubblica? O, pur così conseguendo sicuramente dei buoni risultati in termini di riduzione delle differenze sociali, sotto il profilo di una realmente estesa garanzia di opportunità di crescita, dell’accesso garantito ad una scuola e ad una sanità pubbliche di alto profilo, di una vasta e capillare rete di presidi sociali verso l’infanzia, l’assistenza domiciliare alla quarta età, la famiglia, di avvio di politiche volte a realizzare la transizione ecologia delle attività produttive, non occorra, per rendere tali conquiste durature nel tempo e non variabili dipendenti dalla logica del profitto individuale propria del sistema capitalistico, inserire dentro le viscere del sistema economico-produttivo, altre logiche, in competizione con quella, come una logica dell’interesse pubblico e una logica che potremmo definire dell’interesse privato sociale o privato collettivo.
Ecco, su questo fronte serve uno sforzo di analisi di alto profilo, perché si tratta di affondare il bisturi nel nell’assetto profondo del sistema , senza di che non si potrà riuscire a sciogliere quel nodo gordiano che chiamiamo “anticapitalismo”
Ci si riempie spesso la bocca di espressioni quali “anticapitalismo”, “superare il capitalismo, si fanno analisi che individuano le gravi responsabilità di questo sistema, di questo modo di organizzare una società e le sue attività produttive, ma nel concreto, mi pare, non emergono effettive proposte che si muovano nell’ottica, graduale quanto vogliamo, del suo superamento.
Ma che vuol dire, concretamente, oggi, superamento del capitalismo?
Provo a dire la mia. Significa ridurre all’interno del mondo produttivo il potere della proprietà, del padrone nelle sue forme moderne (non più il “bauscia”, il padrone delle ferriere) e come si fa questo?
Io vedo una linea orizzontale, di sistema economico complessivo, e una verticale che riguarda le singole aziende.
Quella orizzontale, ad esempio, è l’estensione massiccia della forma cooperativa, nel senso di cooperativa di produzione, di fabbrica di proprietà dei produttori, di fabbrica, quindi, in cui cambia la natura della proprietà, da individuale (nelle forme moderne delle varie individualità proprietarie di una azienda) a collettiva dei soci-lavoratori-proprietari (non quindi statale).
Si sono affermate negli ultimi anni nel nostro Paese realtà produttive gestite, appunto, sotto la forma cooperativa, frutto dell’acquisizione da parte dei lavoratori dipendenti di aziende in crisi, cadute nella dinamica fallimentare, delle dette aziende, utilizzando il loro tfr.
La proprietà collettiva, oltre a aggredire il nodo dello sfruttamento da plusvalore (questo tema: l’appropriazione da parte della proprietà aziendale del plus-valore prodotto dai dipendenti, sembra non interessare più all’interno della sinistra), introduce nel sistema economico-sociale un interesse ben diverso da quello della proprietà individuale, in quanto molto più disponibile a sostenere scelte economiche e economico-aziendali ben più in sintonia sia con l’interesse dei lavoratori-proprietari, sia con interessi di tipo pubblico, nel senso di interessi che coinvolgono la collettività in generale o le tante collettività-comunità territorialmente diffuse.
Quella verticale riguarda il governo delle aziende caratterizzato dalla classica logica proprietaria. In questo campo direi che occorrerebbe cimentarsi con riforme che introducano nel loro governo un significativo peso della volontà della forza lavoro.
Si tratta di un tema di cui in Italia si è spesso discusso, ma sostanzialmente avversato dalle forze sindacali nel timore che un tale sistema possa di fatto irretire i lavoratori, il sindacato, in un governo fittizio dell’azienda e, quindi, risolversi in una sostanziale violazione della autonomia dei lavoratori.
Si tratta di timori sicuramente da non sottovalutare, tuttavia si pone il problema, molto concreto, di introdurre nel governo delle aziende un punto di vista diverso da quello padronale, che possa far sentire tutto il suo peso nelle scelte aziendali e nel loro impatto, non solo sulla vita concreta dei lavoratori in azienda, ma anche sulle ricadute che le scelte di una azienda hanno, come detto prima, sull’interesse pubblico, sull’interesse della collettività in generale e delle tante collettività-comunità territorialmente diffuse.
Non basta un governo dell’economia dall’alto, non basta la lotta sindacale per cercare di contrastare scelte aziendali, diciamo così, egoistiche, occorre una ramificazione dentro le aziende di interessi, di punti vista diversi (diciamo anche antagonisti) rispetto a quelli squisitamente proprietari.
Come si vede si pone, in modo ineludibile, in un’ottica anticapitalistica di sinistra e che non bisogna certo vergognarsi di definire di tipo socialista (aggettivo che nella sinistra italiana sembra scomparso), il tema della proprietà privata, il cosiddetto “terribile diritto”
Si tratta di un tema da affrontare di petto, altrimenti non se ne esce!
Occorre rivisitarlo, ridefinirlo all’interno di nuovi, più limitati confini. La proprietà privata, il suo accumulo eccessivo (appunto, quand’è che è eccessivo l’accumulo di proprietà privata?), genera il mostro dell’interesse privato che si contrappone nettamente all’interesse pubblico, all’interesse della collettività, all’interesse pubblico alla salvaguardia dell’ambiente, del clima, del pianeta, della vitta su questo pianeta Terra.
Non si scappa! Questo è un punto cruciale che, nell’ottica dei profondi necessari cambiamenti di tipo strutturale, necessari per elevare considerevolmente la qualità della vita di chi è oggi ai margini della società, di chi ha redditi bassissimi pur disponendo di un lavoro a tempo pieno, per superare, sicuramente gradualmente, ma superare, la crisi ambientale che attanaglia l’umanità intera, non può assolutamente essere eluso.
Smeriglio conclude le sue considerazioni affermando che “La questione non è il partito ma uno spazio di discussione, dentro e fuori il parlamento. Che trova nel manifesto il luogo naturale di coagulo. Contribuire all’azione del governo, protagonisti di provvedimenti capaci di combattere le straordinarie diseguaglianze del nostro Paese. Ma serve un po’ di coraggio. Si tratta di dare forza a quello che siamo. Renderci riconoscibili, persino utili”
Io non so se non sussista anche una questione di partito, all’interno della sinistra, tenderei, diversamente da lui, a dire, al contrario, che invece c’è; tuttavia essa è indubbiamente connessa con la qualità e la profondità dell’analisi e delle proposte per incidere nel profondo dell’assetto economico-sociale, con quei pensieri lunghiche vogliono provare a sostanziare concrete politiche volte alla fuoriuscita dalla logica schiettamente capitalistica, senza quindi limitarsi, essenzialmente, alle pur giuste logiche anti-distorsive dell’intervento pubblico.