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di Luca Billi 1 settembre 2018
Tra le diverse cose stupide lette e ascoltate nei giorni immediatamente successivi al disastro di Genova c’è stata certamente questa frase: come mai i ponti moderni crollano, mentre sono ancora in piedi quelli costruiti dai romani? Da nessuna parte noi usiamo dei ponti romani per attraversare un fiume. I pochissimi ponti dell’epoca romana che ancora esistono – e resistono – non vengono utilizzati da molto tempo, spesso da centinaia di anni, perché sono stati progressivamente sostituiti da opere costruite nei secoli successivi. Le costruzioni degli antichi – come quelle dei moderni – sono destinate a crollare, prima o poi: l’eternità non è di questo mondo.
E infatti le nostre città cambiano continuamente, perché le costruzioni crollano o devono essere demolite e al loro posto ne sorgono di nuove, che avranno lo stesso inesorabile destino. Gli antichi – proprio come i moderni – si sbagliavano a progettare oppure costruivano male. Anzi progettavano e costruivano – per ovvie ragioni – peggio dei moderni.
Avete mai notato che la basilica di san Pietro a Roma non ha il campanile? A dire la verità avrebbe dovuto averne due, bellissimi, a destra e a sinistra della facciata, progettati da Gian Lorenzo Bernini. I lavori vennero iniziati, ma mai finiti, perché quando la torre a sud stava per essere completata e fu issata la pesante campana, si svilupparono alla sua base delle crepe molto profonde, che rischiavano di danneggiare anche la facciata. Era colpa del progetto, come sostenevano i nemici di Bernini – tra cui il rivale Borromini, che avrebbe voluto avere quell’incarico così prestigioso – o la torre era stata costruita male e poteva essere sistemata, come diceva l’architetto? La commissione d’inchiesta disse che si trattava di un errore di costruzione, ma per ordine del papa, che non amava l’artista e soprattutto il suo predecessore che lo aveva scelto, la torre sud fu abbattuta – a spese del Bernini, tra le altre cose – e il cantiere di quella nord, appena cominciata, rapidamente chiuso.
La chiesa di san Giuseppe dei falegnami, costruita più o meno in quegli stessi anni in cui Bernini tentava l’impresa dei campanili, può subire dei crolli, visto anche che fu progettata da artigiani meno bravi e probabilmente costruita da operai meno specializzati di quelli impiegati dalla fabbrica di san Pietro. Riconoscere che un vecchio edificio può subire danni, accettare che sarà destinato prima o poi a essere distrutto, non significa però stare a guardare senza fare nulla, aspettando che crolli definitivamente.
Quella chiesa – abbiamo saputo ieri, quando il soffitto è crollato – è di proprietà del Vicariato di Roma, che ne ha anche la “custodia”, mentre allo stato, attraverso la Soprintendenza ai beni archeologici, tocca la “tutela”. Forse bisognerebbe mettersi d’accordo su cosa significhino esattamente queste parole, ossia dove finisce la custodia e comincia la tutela. Ci è parso di aver capito che la custodia consista nell’aprire la chiesa, si immagina dietro compenso, alle coppie di sposi che lì vogliono celebrare il loro giorno più bello, mentre la tutela consista nel fare i lavori di restauro. Qui mi pare ci sia un problema, perché se io cittadino pago per conservare quel monumento devo avere il diritto di entrarci e non dovrebbe esserci un privato che decide chi ci entra e chi no e soprattutto che ci guadagna da queste entrate. E inoltre mi pare che i lavori di restauro non siano stati molto efficaci.
Inoltre quella chiesa è costruita sopra il carcere mamertino, il più antico di Roma, dove furono imprigionati nemici, come Giugurta e Vercingetorige, oppositori politici, come Caio Gracco e i compagni di Catilina, e i primi diffusori del cristianesimo, tra cui – secondo la tradizione – Pietro e Paolo. Questo monumento – la cui struttura è ovviamente legata a quella della chiesa costruita sopra – è sotto la competenza del Parco del Colosseo, un ente diverso, per quanto sempre dipendente dal Ministero, dalla Soprintendenza.
Forse questo sistema di tutele e custodie andrebbe un po’ semplificato. Perché quell’edificio – carcere e chiesa – è a tutti gli effetti una parte di una delle aree archeologiche più significative del mondo, ossia il foro romano, la “piazza” della più importante città del mondo antico.
E allora dobbiamo fare delle scelte. Mi rendo conto che è difficile stilare un elenco, ma ci sono luoghi a cui la collettività non può assolutamente rinunciare, che ha il dovere di preservare a qualsiasi costo. Tra l’altro – a differenza dei tempi di Bernini e Borromini, per non parlare di quelli ancora precedenti – ora ci sono le tecnologie per salvare i monumenti ben oltre il loro naturale periodo di deperimento. E questo lavoro deve essere a carico della collettività, ciascuno di noi deve pagare per salvare il foro romano, come Pompei, per permettere alle generazioni che verranno tra qualche secolo di continuare a sentirsi parte di una storia.
A dispetto del significato etimologico di questo nome noi dovremmo cominciare a considerare l’archeologia come una scienza che si occupa del futuro.