di Alfredo Morganti – 8 marzo 2018
“La sinistra voleva cambiare il mondo ma i media hanno cambiato noi”. Lo ha detto Carlo Freccero. È il punto di vista di un uomo della comunicazione, tocca solo un aspetto della questione denominata ‘crisi della sinistra’, ma lo fa a ragion veduta. Ci sono altri aspetti soggettivi di questa crisi (i nostri errori, le strategie sbagliate, un certo distacco dalla società) e oggettivi (la restrizione dell’area e del bacino elettorale tradizionalmente di sinistra, il rapidissimo mutamento del mondo), ma dire che lo spazio è mutato, che sono mutati i registri, i format, le forme, la percezione dominante o i frame è corretto: eravamo abituati a ‘giocare’ ai comizi, ai discorsi in Parlamento, alle riunioni in sezione, alle diffusioni di un giornale che non c’è più, alle grandi manifestazioni di massa, mentre oggi ci ritroviamo a fare un videogioco, costretti nei social e ridotti a facce tv: siamo individui e figure sparse, esposte allo tsunami comunicativo, raggrumate in dichiarazioni di 10”, in battute tanto rapide quanto vuote, in immagini e post che si accavallano, in format che sono a forma di screen televisivo o display del pc, ben lontani dalla concretezza di una presenza nei quartieri, dalla mitologia del ‘gruppo dirigente’ che scriveva su Rinascita o si appalesava a Piazza San Giovanni in qualche grande rito. Ci sopravanzano quelli che dentro gli schermi ci sono nati, che sono faccine da sempre, la cui cultura è ‘compressa’ sin dalla nascita in un display, che twittano invece di argomentare e si espongono in immagini cool o photo opportunity.
Che fare? La domanda è la prima della politica, e torna spontanea. Ci abbiamo provato ad adattarci allo schermo, e siamo parsi un po’ goffi a dire il vero. Ma non è questo il punto. Le armi con cui combattere sono quelle che si trovano sul campo di battaglia, ché di solito sono anche le più letali. Non di sottrarsi al gioco si tratta (e come potremmo?) ma di recuperare uno spazio della politica più ampio di quello che la comunicazione oggi le ha assegnato. L’impressione (ma è più che un’impressione) è che la politica sia divenuta ancella della comunicazione, che dipenda dalle sue regole in toto, che i guru contino più di un dirigente o di un organo di partito. È questo a essere sbagliato. Le parti dovrebbero essere invertite. Mi chiedo però: è possibile che questo avvenga, che vi sia il ribaltone? Io credo che sia molto difficile, perché la comunicazione non è uno strumento neutrale , da usare magari con circospezione e con cautela, è piuttosto una tecnica che impone la propria natura. È successo anche con la politica, è stato questo il male. Il punto è che oggi il mezzo (i media, appunto, con le loro regole e la loro ‘autorità’) hanno preso il sopravvento sui fini (le ideologie, gli ideali, le scelte e le opinioni in lotta tra loro) e dettano le regole. Anzi, circoscrivono un mondo. Tutti lavorano a rendere più potenti i mezzi stessi, i loro linguaggi, la loro forza comunicativa, e quasi dimenticano i loro obiettivi, che diventano secondari, marginali rispetto alla necessita di potere, di fare, di ‘vincere’. Purchessia, con qualunque alleato, qualunque programma, qualunque posizionamento, patto o alleanza. Renzi e Berlusconi, insomma.
È questo che “appiattisce” tutto, almeno dal punto di vista delle forme attuali della lotta politica. È questo che toglie spazio alla politica-politica, e ne conferisce invece alla comunicazione-politica. È questo che mette da parte la sinistra, come forza di cambiamento, e mette al centro i conservatori, quelli che non perseguono fini, ma potenziano mezzi per vincere le proprie battaglie personali. Se fosse possibile, bisognerebbe anche tentare di ribaltare questo rapporto. Restituire alla politica autonomia e alla comunicazione assegnare il ruolo di ancella. Oppure, in alternativa, acconciarsi coerentemente, come temo sia già avvenuto, alle nuove regole. Consapevoli, con ciò, che il cambiamento di cui tutti parlano è solo una formula mediale, una parola chiave da utilizzare in uno spot, fermi restando gli attuali paradigmi, per i quali quel che accade dietro uno schermo è vero, mentre quel che appartiene alla vita è apparenza, marginalità, disvalore, e anzi non esiste proprio, se non come ‘storia’, narrazione, favola o sogno. Ribellarsi al destino insomma, oppure esprimere amor fati, questo il dilemma. È evidente che il mio è un ragionamento solo teorico o molto astratto. Ma considero un punto di forza anche solo affrontarlo con piena consapevolezza. Poi tutti, di nuovo, nel solito tran tran.