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di Luca Billi 23 aprile 2016
Oggi festeggiamo i libri, perché il 23 aprile 1616 – appena quattrocento anni fa – morivano William Shakespeare e Miguel de Cervantes. E’ solo un’apparente contraddizione festeggiare un avvenimento luttuoso, perché in fondo né Shakespeare né Cervantes sono davvero morti, ma continuano a vivere e noi, tutti noi, siamo in qualche modo debitori di quei due grandissimi; come siamo debitori di tanti altri immortali.
In questi giorni ho avuto l’opportunità di vedere due versioni molto diverse di Amleto. Una più “classica” – se mi passate il termine, perché Amleto è sempre classico – ossia l’allestimento che il National Theater di Londra ha fatto in queste settimane con un bravissimo Benedict Cumberbatch e Amleto a Gerusalemme, una sorta di saggio della scuola di teatro che Gabriele Vacis e Marco Paolini hanno organizzato dal 2008 in Palestina. Spero che abbiate l’occasione di vederli o rivederli anche voi. Si tratta ovviamente di due lavori molto diversi, nati con obiettivi diversi, ma è stato utile vederli a pochi giorni di distanza, perché rendono evidente non solo quanto Shakespeare sia grande – e non serviva un ulteriore dimostrazione, basta prendere appunto un libro – ma quanto quei testi ci raccontino, qui e ora. E’ stato particolarmente emozionante sentire il celeberrimo monologo di Amleto – To be or not to be – recitato nella sua lingua da un ragazzo palestinese. Evidentemente per un giovane uomo che da quando è nato si confronta con la morte, che vive in una situazione di conflitto, più o meno esasperato, ma pur sempre presente, per uno di una generazione su cui le storie dei padri pesano in maniera così angosciante, quelle parole hanno un valore così vivo, così drammaticamente cogente, che sembrano scritte apposta per lui. La rabbia di Amleto, la disperazione di Amleto, i dubbi di Amleto, ti appaiono allora in tutta la loro chiarezza: francamente credo di aver capito davvero quel monologo solo domenica scorsa – pur avendolo letto tante volte e averlo tante volte sentito recitare – quando quel ragazzo l’ha urlato a noi spettatori, ce l’ha gettato in faccia, chiedendoci in qualche modo di prendere posizione.
Mi era successa più o meno la stessa cosa qualche anno fa, quando vidi al cinema Cesare deve morire dei fratelli Taviani, il film che racconta la messa in scena del Giulio Cesare da parte di un gruppo di detenuti del carcere di Rebibbia. Per quegli uomini, alcuni dei quali avevano ucciso davvero, raccontare la storia di un omicidio, di un tradimento, di una vendetta, aveva certamente un valore pedagogico importante – e questo sarebbe bastato affinché quel progetto fosse significativo, fosse utile – ma quella rappresentazione serve a noi per capire meglio, in una luce assolutamente nuova, le parole di quel dramma.
Allora nel giorno in cui festeggiamo i libri, non limitiamoci a leggerli. Sarebbe già importante, ma con tutta evidenza non è sufficiente. Dovremmo anche impegnarci affinché possano essere letti, affinché tutti siano messi nelle condizioni di leggerli, indipendentemente dal luogo in cui sono nati, da dove e come sono vissuti, perché esperienze di formazione come quelle raccontate in Amleto a Gerusalemme e Cesare deve morire sono di fondamentale importanza per quelle donne e quegli uomini, quei giovani uomini e quelle giovani donne, ma poi per tutta la società. Festeggiare i libri ha un senso se le nostre azioni, la nostra politica. il nostro impegno, sono tesi a diffondere la cultura, a togliere gli ostacoli che ne limitano la diffusione, a sostenere l’educazione, in tutti gli ambiti. Altrimenti i libri sono destinati a rimanere oggetti che si caricano di polvere nelle case di pochi di noi che abbiamo la fortuna e l’opportunità di possederne. Ma i libri sono soprattutto le storie che raccontano, le idee che sono capaci di mettere in circolo, la libertà che si sprigiona dalle loro pagine. I libri siamo noi che li facciamo vivere e che – se ci riusciamo e quando ci riusciamo – li facciamo diventare leve di progresso. E di rivoluzione.
Vi chiedo di guardare pochi minuti di questo video – da 29:16 in particolare – perché c’è una piccola, ma incredibilmente complessa versione di Amleto, recitata da sette ragazzini e ragazzine di una scuola inglese. Dopo essersi alzati e aver detto che ciascuno di loro è uno dei personaggi del dramma, si stringono attorno al loro coetaneo che è Amleto e recitano insieme il monologo, che diventa in qualche modo un canto corale, assumendo un valore del tutto diverso e inedito. E’ un Amleto di quattro minuti, ma è un Amleto perfetto. Ormai ci sembra quasi impossibile che a scuola si possa anche insegnare qualcosa – parliamo di scuola per raccontare di tutto, tranne quello che dovrebbe fare – eppure a scuola si può imparare perfino ad amare Shakespeare. Quelle ragazzine e quei ragazzini, con le loro storie, sono Shakespeare. E, speriamo, un giorno non troppo lontano, anche Don Chisciotte.