Fonte: facebook
di Alfredo Morganti – 26 settembre 2014
“Questo non è il momento del compromesso, è il tempo del coraggio”. Lo ha detto Renzi a New York, mostrando la propria inflessibilità verso chi nel PD gli chiedeva (e gli chiede) di confrontare le proposte e trovare un punto di sintesi sul jobs act. Fatemelo dire: questa dissociazione tra ‘compromesso’ e ‘coraggio’ non è che sia così ovvia. Non è vero che il ‘compromesso’ sia sempre degli ignavi e la decisione unilaterale, cieca e sorda, sia degli arditi. Anzi. Non è che dicendo ‘noi tireremo diritti’, si appare perciò più temerari nei confronti di chi, invece, cerca un’intesa più avanzata (non al ribasso, ma più avanzata, più efficace). Ricordo a Renzi che la formula del compromesso (storico, per di più) la lanciò 40 anni fa un uomo, un leader (non mediatico) di cui pure lui si è fatto scudo in campagna elettorale, intimando a tutti che prima di parlare di Berlinguer “ci si doveva sciacquare la bocca” (bruttissima immagine peraltro, non berlingueriana già nello stile). Quell’uomo, dinanzi a una crisi storica incipiente, a un mondo spaccato in due sfere di influenza, al rischio di guerre termonucleari, a un Paese ancora arretrato, al golpe cileno (che colpì il tentativo di avviare una transizione al socialismo nella democrazia e nel consenso), ai primi segnali di terrorismo, alla tremenda consapevolezza che per cambiare l’Italia servivano le forze popolari, tutte le forze popolari, ed era persino controproducente approfondire i solchi che già le dividevano, quell’uomo, con quella proposta di compromesso rivolta a mondi distanti dal suo, fece quanto di più nobile, visionario, coraggioso possa fare un leader politico. Che non è giocare sulle divisioni, ma investire sull’unità.
Oggi, sentire che il compromesso viene assimilato alla viltà mi fa ribollire, lo ammetto. Ritenere che sia più coraggioso quello che spacca impudentemente, rottama, ‘piccona’ si disse nel 1992, e invece più timoroso, imbelle chi mette in campo (pubblicamente!) tutte le armi dell’intelligenza, della persuasione, del dialogo per rendere migliore una proposta, più efficace e meno demagogica, è una sciocchezza colossale. Quasi una panzana deliberata. Sappiamo tutti che la politica si fa coi compromessi più avanzati, non con le petizioni di principio. Sappiamo tutti che è meglio una discussione pubblica, alla ricerca di soluzioni, piuttosto che mostrare sfacciatamente il grugno in tv. D’altronde cos’è il Patto del Nazareno se non un compromesso (pochissimo avanzato, certo, pochissimo storico, anzi a cortissimo raggio, solo con finalità di potere)? La leadership di Renzi nasce da accordi di questo tenore, non ne è esente. Nessun politico italiano è cinico e realista quanto il toscano. Eppure, se dall’interno del ‘suo’ partito e del ‘suo’ mondo nasce una richiesta di confronto e di accordo, lui la rifiuta ‘coraggiosamente’, tira diritto, dice: costi quel che costi. È il segno che non ha imparato nulla (sempre che avesse voluto imparare) dalla lezione di Enrico Berlinguer, di cui pure si è sollevato a paladino elettorale. Che pure ha eletto a simbolo. Nessuna meraviglia. Sono pronto a scommettere che qualche tempo fa ancora pensava che il segretario del PCI fosse soltanto un ‘comunista’. Un grigio burocrate al soldo di Mosca. Sai quelli che mangiano i bambini? La storia dei cosacchi in piazza San Pietro? I comunisti, no? Quelli!