La guerra in Ucraina ha travolto le fondamenta stesse dell’architettura di sicurezza europea. Generando profondissima instabilità geopolitica, economica e sociale nel cuore dell’Europa. Facendo precipitare il globo nella più acuta e pericolosa crisi sicuritaria dai tempi della seconda guerra mondiale

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: John Florio (1)
Fonte: Limes
PENSIERI MOSSI DALL’AMBIZIONE. L’OCCIDENTE E LA GUERRA IN UCRAINA
1. L’allargamento della Nato, che avrebbe dovuto promuovere «stabilità e pace nell’intera regione» (1), si è concluso con un terremoto geopolitico che ha travolto le fondamenta stesse dell’architettura di sicurezza europea. Generando profondissima instabilità geopolitica, economica e sociale nel cuore dell’Europa. Facendo precipitare il globo nella più acuta e pericolosa crisi sicuritaria dai tempi della seconda guerra mondiale. Rigurgito d’imperialismo russo, vuole la vulgata. Catastrofica eterogenesi dei fini implicita nelle premesse messianiche della dottrina dell’allargamento democratico, variante clintoniana dell’idealismo wilsoniano, secondo una prospettiva più realista. Inevitabile esito di pensieri mossi dall’ambizione di estendere allo spazio post-sovietico – Russia inclusa – la Pax Americana, dando anche a questo pezzo di mondo «il futuro che merita». Alla radice, l’idea di plasmare un ordine mondiale democratico, rendendo il globo un arcipelago di democrazie in rivoluzione permanente intorno al sole di Washington, «nella straordinaria presunzione che un mondo simile sia non soltanto possibile, ma naturale» (2).
2. L’universalismo morale (ri)abbracciato dall’America come scopo e giustificazione della propria potenza dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, estendendo in indefinitum i confini dell’alleanza politico-militare che era nata per contenerla, si è così scontrato – ancora una volta – contro le immutabili leggi della geopolitica. Non prima però di aver fatto sbocciare i fiori del male dell’odio etnico ai confini d’Europa, fomentando particolarismi nazionalistici che si contendono manu militari la primogenitura sulle terre di frontiera (Ucraina) abitate da popolazioni slave. Con il plauso di Bruxelles e il sostegno più o meno convinto delle cancellerie europee, che soffiano sul fuoco del conflitto fornendo armi e addestrando 30 mila militari ucraini in nome del principio di autodeterminazione nazionale, mentre fino a ieri invocavano la cessione di sovranità, radice di ogni guerra, cantando in coro le virtù sovranazionali di «Leuropa», nata per superare tutti i nazionalismi. Per nulla preoccupati che tanta disinvoltura nel rinnegare il proprio credo possa suscitare qualche dubbio sulla sua reale consistenza. Al contrario, ansiosi di giustificare la guerra in nome dell’Europa e dei suoi valori, derubricando la contesa in termini di scontro tra autocrazie e democrazie. Come se l’Ucraina fosse una novella Atene, anziché una cleptocrazia anarchica dove, semmai, la guerra ha accelerato il processo di concentrazione del potere oligarchico (per estromissione di quello non allineato), in perfetta analogia con quanto accaduto in Russia dopo l’ascesa di Putin.
(3). Si compie così il trapasso dall’europeismo irenistico al fondamentalismo da crociata in nome dei valori assoluti (i nostri, ovviamente). E quando si tratta di valori supremi, Weber insegna, «nessun prezzo è troppo alto»: né il disordine mondiale né tantomeno il sacrificio – eroico quanto inutile – degli ucraini, immolati sull’altare della «guerra giusta» insieme alla pace e ai «condizionatori». La «brutale e ingiustificata invasione russa», secondo la formula ufficiale, diventa così la hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere: l’alibi per connotare la guerra di fosche tinte metafisiche, ovvero come scontro tra civiltà e barbarie anziché come banale conflitto di interessi. «I vecchi dèi risorgono dalle loro tombe e riprendono la loro antica battaglia, ma disincantati – e dobbiamo aggiungere oggi – con nuovi strumenti bellici, che non sono più armi convenzionali, bensì terrificanti mezzi di annientamento e metodi di sterminio» (3). E così, anziché aiutare ucraini e russi a ricomporre nell’alveo della diplomazia i loro confliggenti interessi, gli Stati Uniti e i loro corifei fomentano in modo interessato uno scontro all’ultimo sangue in nome della giustizia, «trasformando la nostra terra in un inferno, ma l’inferno in un paradiso di valori» (fiat iustitia, pereat mundus). Quella dei valori è infatti una tirannia che nasconde, più che svelare, le reali cause del conflitto in corso, ovvero il mondanissimo conflitto d’interessi che è la materia di cui è fatta la politica internazionale. Impedendo quindi di immaginare una sua soluzione che non sia l’annientamento o il collasso dell’avversario. Di fatto spingendo lo scontro lungo l’abissale sentiero – lastricato di assolutismi morali – che dopo le guerre di religione (1524-1697) e le due guerre civili europee (1914-1945) l’Europa aveva giurato a sé stessa di non voler ripercorrere: quello verso il nulla.
4. A poco vale ribattere, come fanno le anime belle dell’interventismo salottiero, che gli ucraini «lo vogliono». Ricorrere selettivamente al principio di autodeterminazione dei popoli (ovvero a quel principio che in generale non può valere per l’Italia, che deve rinunciare all’egoistico interesse nazionale, ma deve valere per l’Ucraina, anche se ovviamente non per le sue minoranze russe) suona più come circonvenzione d’incapace che come argomento a dimostrazione della bontà della causa (4). Anche fosse così, infatti, e tralasciando l’ovvia considerazione che lo stato di eccezione in vigore in Ucraina dal 24 febbraio ha ridotto al silenzio ogni voce dissidente rispetto alla martellante narrazione governativa (tutti i canali televisivi sono confluiti in un’unica piattaforma di «comunicazione strategica» gestita dall’esecutivo), sarebbe compito di noi occidentali tentare di spiegare agli amici ucraini (e ricordare a noi stessi) che le gioie della devastazione sono altezze che non vale la pena di sperimentare. Specie in nome dell’affermazione di un volere astratto e assoluto come quello di appartenere alla Nato a prescindere da ogni concreta considerazione strategica, oltre che di opportunità politica.
Negli scorsi anni nessuno ha pensato di ricordare alla giovane leadership ucraina quello che Hegel scriveva nei Lineamenti di filosofia del diritto: «Gli allori del puro volere sono foglie secche mai state verdi» (5). Nessuna comunità politica è incondizionata e gode in quanto tale di assoluta libertà di azione. Come gli individui, anche gli Stati patiscono una forma di heideggeriana gettatezza, gettati come sono sulla mappa geografica, in un contesto storico-geopolitico che non hanno scelto ma in cui si trovano di fatto a esistere e a progettarsi (6). Guai a quella comunità che, in preda a deliri di onnipotenza, pensasse di potersi astrarre da tali condizionamenti. Ovvero di poter trascendere la propria «storicità» sulle ali di cera della pura ambizione: così facendo essa condannerebbe sé stessa alla più tragica (e prevedibile) delle fini, come narra Tucidide a proposito dei Meli nella Guerra del Peloponneso. La stessa esperienza americana (e l’esito delle sconclusionate iniziative occidentali in Medio e Vicino Oriente) dimostra che, anche al culmine della potenza, per quei pochi che la raggiungono, la libertà d’azione, lungi dall’essere assoluta, deve misurarsi con vincoli geostorici che limitano di volta in volta l’orizzonte del politicamente possibile.
5. Tali condizionamenti non sono una scelta ma una realtà, che si può ignorare solo a proprio rischio e pericolo. È questa realtà che la classe dirigente ucraina stenta a comprendere, incoraggiata al contrario dai suoi alleati a giustificare le proprie politiche (racchiuse nel motto prebellico di «irreversibilità dell’integrazione euroatlantica») in base a ragionamenti astratti e al ricorso (inconsapevole) alla weberiana etica dei princìpi assoluti. Perfino quando tali politiche portano il proprio popolo allo scontro frontale contro l’Orso russo (in violazione dell’etica della responsabilità). Eppure, in un contesto come quello internazionale, che fino a prova contraria rimane anarchico, la volontà di un paese è di per sé tanto legittima quanto quella del suo vicino. È proprio il confliggere delle volontà, ovvero degli interessi, a definire l’essenza della politica in generale.
La diplomazia moderna nasce in Europa dopo le guerre di religione per ridurre l’attrito tra volontà assolute e inconciliabili, che avevano dissanguato il continente nel tentativo di eliminarsi a vicenda. Riconoscendo la legittimità dell’esistenza di un’altra soggettività politica e la tolleranza di punti di vista diversi – ovvero accettando l’esistenza di una molteplicità di Stati (7).
6. È quindi fondamentale, per immaginare una possibile via d’uscita dal conflitto in corso, far emergere dalle cose stesse il sostanziale conflitto di interessi tra le parti in causa, al di là delle ideologie che lo mascherano o lo alimentano. Impresa possibile solo abbandonando ogni sterile approccio ideologico – per definizione unilaterale, poiché autocentrato sulla comprensione che chi lo propone ha di sé e del mondo. Futile giudicare la storia in base ai propri valori, nell’infantile presunzione che la proiezione delle proprie convinzioni possa kantianamente valere come principio di una legislazione universale – e così spiegare l’altrui modo di stare nel mondo e nella storia. Utile invece tentare di comprendere le cause degli eventi, guerre comprese, che accadono sempre per qualche motivo («il reale è razionale», e come tale mai «ingiustificato»). Essenziale, per liberarsi dagli schemi ideologici oggi dominanti, ribadire che l’uomo si innalza veramente al rango di animale (geo)politico solo quando è capace di misurarsi con la potenza del negativo, ovvero con l’altro da sé, cui del resto è costitutivamente consegnato e destinato: esercizio refrattario a ogni dialettico superamento o scioglimento dell’alterità nella pura identità (8). Problema, per chi tende a considerare l’altro come un sé stesso in potenza, ovvero illusione di alterità. L’esperienza, però, dimostra che la storia degli uomini e dei popoli è distillatrice di singolarità. Nelle «cose stesse» va dunque ricercato il bandolo del presente, la chiave ermeneutica per comprendere il cruciale passaggio storico che stiamo attraversando. Riavvolgendo il nastro all’alba del momento unipolare, all’inizio degli anni Novanta. Quando i consiglieri di Clinton si trovarono, loro malgrado, a dover aggiornare la politica del contenimento, archiviata causa implosione dell’impero del Male (9).
7. È noto che la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991 e la non rielezione di George H. W. Bush nel novembre dell’anno successivo avevano messo una pietra tombale sul progetto di un nuovo ordine internazionale fondato sulla cooperazione tra Usa e Urss. Progetto che Gorbačëv e Bush avevano delineato a Malta nel dicembre 1989 e poi discusso a Helsinki nel settembre 1990 mentre si concludeva il processo che avrebbe condotto alla riunificazione della Germania. Come disse all’epoca il presidente americano al suo omologo sovietico, «io voglio lavorare con te come equal partner nell’affrontare questo tema (del nuovo ordine internazionale n.d.a.). Voglio ritornare dal popolo americano domani notte per chiudere il libro della guerra fredda e offrirgli la visione di un nuovo ordine mondiale in cui noi coopereremo» (10). La ratio dell’intesa raggiunta a Helsinki – di cui Henry Kissinger fu il segreto ispiratore, con la sua proposta di una Jalta II (11) – si fondava «sullo scambio tra la rinuncia sovietica alle posizioni del passato con la modifica concordata delle regole del sistema internazionale», creando un nuovo ordine mondiale centrato sull’interesse nazionale, riconosciuto quale «fondamento della politica estera e della sicurezza di ogni Stato» (12). Coerente con i princìpi del nuovo ordine che intendeva plasmare con Gorbačëv, Bush fece del suo meglio per gestire «con moderazione e saggezza» (13) il predominio americano, evitando di sfruttare le difficoltà in cui versava l’Unione Sovietica nelle convulse fasi seguite al suo frettoloso e incauto tentativo di ristrutturazione interna.
8. È in questo contesto che si colloca la promessa fatta dagli americani a Gorbačëv per la prima volta alla fine del 1989, e più volte reiterata, che la Nato non si sarebbe allargata «neanche di un centimetro» (14). Come ricorda un testimone sovietico del primo colloquio, avvenuto poche settimane dopo il crollo del Muro di Berlino, tra il segretario di Stato Usa James Baker e il presidente Gorbačëv (e come confermato da altri resoconti americani oggi disponibili 15), gli Stati Uniti non solo erano pronti a garantire a Mosca che l’Alleanza Atlantica non si sarebbe allargata, ma «per conferire solide basi all’accordo» che avrebbe portato all’unificazione tedesca erano pronti anche «a fornire garanzie scritte in proposito e chiedevano solo di conoscere le richieste sovietiche» (16). In quel momento, benché il Muro fosse caduto, le strutture della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) erano ancora integre e l’Urss manteneva dispiegati in Germania Est oltre 350 mila militari: nessuno intendeva rischiare lo scontro.
Gli incontri successivi, a cominciare da quello di Mosca del febbraio del 1990, confermarono però a Baker (e a un incredulo Bush) che Gorbačëv e il suo ministro degli Esteri non intendevano chiedere alcuna garanzia formale: l’Unione Sovietica cedeva unilateralmente tutte le sue posizioni in Europa centrale in base al principio per cui «con gli amici non si mercanteggia» (secondo la testuale formula usata in quell’occasione dal ministro degli Esteri sovietico e futuro presidente della GeorgiaShevardnadze) (17). In nome di quello che chiamava «nuovo pensiero», «Gorbačëv aveva accettato senza sostanziali contropartite di rinunziare agli assetti europei ottenuti dall’Urss con la seconda guerra mondiale e rimasti immutati per tutta la guerra fredda» 18. Gorbačëv forse ignorava la lezione di Lord Palmerston (per cui «non abbiamo né alleati eterni né nemici eterni, ma solo eterni interessi, e il nostro dovere è perseguirli»), ma in ogni caso trascurò l’ovvia constatazione che gli amici di ieri possono facilmente diventare i nemici di domani, e viceversa (19).
L’amministrazione Bush, compatibilmente con il quadro allora esistente, perseguì tuttavia con coerenza l’obiettivo di dare vita a un ordine internazionale cooperativo con l’Urss, benché proprio la crescente debolezza del governo sovietico lo rendesse ogni giorno meno plausibile. Prova ne è il viaggio che Bush compì a Kiev il 1° agosto 1991, dopo aver ribadito il giorno prima a Gorbačëv che il collasso dell’Urss non sarebbe stato «nell’interesse americano». In quell’occasione Bush delineò davanti al Soviet supremo dell’Ucraina (oggi sede della Verkhovna Rada, il parlamento) l’approccio statunitense, in un momento in cui il vento separatista soffiava sempre più forte su un’Unione Sovietica indebolita dall’erratica politica dei suoi vertici: «L’America sostiene chi nel centro e nelle repubbliche persegue la libertà, la democrazia, la libertà economica», ma non «coloro che cercano l’indipendenza per sostituire una tirannia lontana con un dispotismo locale». Richiamando la natura multietnica e federale degli Stati Uniti d’America, Bush spiegò che «libertà non è la stessa cosa che indipendenza: la libertà richiede tolleranza, un concetto incorporato nell’apertura, nella glasnost’». E precisò come per gli americani essa si riferisse alla possibilità di vivere «senza la paura dell’intrusione del governo». Quindi, in modo inequivocabile, chiarì che «gli americani non sosterranno coloro che promuovono un nazionalismo suicida basato sull’odio etnico». Bush terminò il discorso incoraggiando gli ucraini a dar seguito all’accordo raggiunto nell’aprile precedente tra il Cremlino e nove repubbliche eurasiatiche, tra cui l’Ucraina, per la creazione di un’Unione più decentrata. «Sosteniamo coloro che esplorano le frontiere della libertà. Ci uniremo a questi riformatori sulla via di ciò che chiamiamo – opportunamente – un nuovo ordine mondiale».
La destrutturazione del potere sovietico aveva però ormai raggiunto la fase terminale e un tale ordine non vide mai la luce. Il 24 agosto, approfittando della confusione seguita al fallito colpo di Stato a Mosca del 19 agosto, il Soviet supremo dell’Ucraina guidato da Leonid Kravčuk, che pochi giorni prima aveva applaudito in standing ovation le parole del presidente Bush (20), dichiarò l’indipendenza di Kiev (diventando successivamente il primo presidente dell’Ucraina indipendente). L’8 dicembre dello stesso anno i vertici (sovietici) di Russia, Ucraina e Bielorussia – l’Urss era ancora formalmente in vigore – si riunirono in segreto senza Gorbačëv in una foresta al confine tra Bielorussia e Polonia per cancellare l’Unione Sovietica dalla carta del mondo. La risoluzione approvata dai tre leader locali fu comunicata al presidente Gorbačëv e al paese come un ordine, proprio nel momento in cui una bozza di trattato per una Unione di Stati sovrani veniva discussa dai parlamenti (Soviet supremi) delle repubbliche. Il nazionalismo sostituiva il comunismo come ideologia ufficiale delle neo-repubbliche, diventando fonte di legittimazione della loro statualità, benché gli attori al vertice del potere fossero gli stessi apparatčik che fino al giorno prima avevano predicato l’ortodossia marxista-leninista.
9. La «catastrofe geopolitica» rappresentata per Mosca dalla dissoluzione dell’Urss coincideva per l’America con l’improvviso ingresso nel paradiso del potere. Era ingenuo pensare che il vuoto creato dal crollo dell’impero sovietico potesse rimanere terra di nessuno: il potere politico – come la natura – aborre il vuoto (21). «La nostra strategia deve ora concentrarsi sul prevenire l’emergere di qualsiasi futuro competitore globale», sentenziava la prima Defence Planning Guidance del Pentagono successiva al crollo dell’Urss (22). Com’era prevedibile, nonostante il dissolvimento del Patto di Varsavia e la fine della competizione bipolare gli Stati Uniti non manifestarono alcuna intenzione di perdere il monopolio nel campo della sicurezza euroatlantica esercitato attraverso la Nato. L’America entrava trionfante nel «momento unipolare» (23) con l’obiettivo di non vederne mai il tramonto. Anzi, nutriva fin dall’inizio l’intenzione di consolidare la propria posizione di «potere incontrastato». Come ricorda un autorevole interprete della Weltanschauung americana, «nella fine della guerra fredda (gli Stati Uniti, n.d.a.) non hanno visto l’occasione per tirare i remi in barca, bensì l’occasione per espandere la propria sfera di influenza, estendere in direzione della Russia l’alleanza da loro guidata, stabilendo nuove frontiere per i loro interessi» (24). Motivo per cui, sia detto di passaggio, le aspirazioni geopolitiche dell’Europa, per quanto timide e contradditorie, dovevano essere stroncate sul nascere («dobbiamo cercare di prevenire l’emergere di accordi di sicurezza esclusivamente europei che minerebbero la Nato, in particolare la struttura di comando integrata dell’Alleanza» (25), da sempre saldamente in mano statunitense).
Più profondamente, l’assenza di contendenti rendeva incontenibili le straordinarie ambizioni americane, inscritte nell’inossidabile, perché fondativa, convinzione del proprio eccezionalismo. «Nazione insostituibile» chiamata ad agire «per conto dell’umanità», l’America intravvide nella nuova realtà geopolitica l’occasione per realizzare la sua più profonda aspirazione: plasmare il «nuovo mondo» alla luce dei princìpi americani dell’ordine, trascendendo una volta per tutte l’equilibrio di potenza. Obiettivo che, nella visione clintoniana, comportava necessariamente l’allargamento della Nato, pilastro e strumento insostituibile dell’influenza americana in Europa (26). Non è un caso che alla ricerca di uno slogan efficace con cui – in mancanza di una chiara minaccia strategica – sostituire il concetto di «contenimento», Clinton finì per concepire la sua politica estera in termini di «allargamento democratico». L’amministrazione Clinton distillò dalla teoria della fine della storia l’idea che, una volta concluso il processo di integrazione economica e allargamento della democrazia (colmando il vacuum lasciato dall’implosione dell’Urss), l’egemonia più o meno consensuale conquistata dall’America durante la guerra fredda, allargata all’Europa centro-orientale, «sarebbe semplicemente assurta a sistema internazionale» (27).
10. Si radica in questo terreno concettuale l’obiettivo di espandere la Nato fino alle propaggini estreme dell’Eurasia: espansione che il dipartimento di Stato pianificò in dettaglio già nel settembre 1993, prevedendo entro il 2005 l’ingresso nell’Alleanza di Ucraina, Bielorussia e Russia (28). L’idea era quella di avvolgere lo spazio post-sovietico in una rete di democrazie («un’alleanza di democrazie di mercato» 29) che avrebbe impedito il risorgere della politica di potenza, creato una «vasta area di pace» sotto la naturale egemonia americana e realizzato il sogno di costruire un grande «impero della libertà» con Washington sua capitale. Pacificazione mediante liquidazione del sistema multipolare, ovvero unipolarismo mascherato da multilateralismo: giacché, come ricordava uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti, «gli imperi non hanno interesse a operare all’interno di un sistema internazionale, ma aspirano a essere il sistema internazionale. Gli imperi non hanno bisogno di un equilibrio di potere. Questa è la politica degli Stati Uniti nelle Americhe» (30). Ora lo era ufficialmente anche in Europa.
11. La politica di estensione dell’egemonia americana «dall’Elba agli Urali» mediante allargamento dell’Alleanza Atlantica presupponeva, neanche troppo implicitamente, l’acquiescenza russa. Ma come avrebbe reagito la Russia al grand design che l’America di Clinton aveva concepito per l’ordine mondiale post-sovietico? Quando l’amministrazione americana iniziò a discutere i piani di allargamento della Nato, nell’estate del 1993, i funzionari del dipartimento di Stato che seguivano il dossier erano «in maggioranza contrari, temendo i suoi effetti sull’Alleanza e sulle relazioni Usa-Russia» (31). Era infatti condiviso il timore che un simile dinamismo sarebbe stato letto dai russi – sprofondati nell’impotenza ma eredi dell’impero zarista e di quello sovietico – per quello che era: «Una strategia per sfruttare la loro vulnerabilità e spostare la linea divisoria dell’Europa a est, isolandoli», come candidamente ammetterà nelle sue memorie M. Albright, segretario di Stato di Clinton dal 1997 al 2001 (32).
In un telegramma indirizzato al segretario di Stato Warren Christopher, risalente all’ottobre 1993, l’ambasciatore Usa a Mosca spiegò come la questione della Nato fosse «nevralgica» per i russi: «Temono di finire dalla parte sbagliata di una nuova divisione dell’Europa. Per quanto sfumata, se la Nato adottasse una politica che prevedesse l’espansione nell’Europa centrale e orientale (…) questa verrebbe universalmente interpretata a Mosca come diretta contro la Russia e unicamente contro la Russia – una forma di “neocontenimento”» (33). Nel 1997, alla vigilia del vertice Nato di Madrid che avrebbe schiuso l’ingresso nell’Alleanza di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, sarà lo stesso architetto della politica di contenimento dell’Unione Sovietica, George Kennan, ad ammonire dalle colonne del New York Times che «espandere la Nato sarebbe l’errore più fatale della politica americana nell’intero periodo successivo alla guerra fredda» (34). Da decano degli esperti di Russia in America, Kennan prevedeva che una tale decisione avrebbe «infiammato le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militaristiche nell’opinione pubblica russa, con un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia in Russia, riportando l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni Est-Ovest». Kennan si domandava: «Perché, con tutte le possibilità di speranza generate dalla fine della guerra fredda, le relazioni Est-Ovest dovrebbero concentrarsi sulla questione di chi dovrebbe essere alleato con chi, e quindi contro chi, in qualche fantasioso, imprevedibile e improbabile futuro conflitto militare?».
I documenti oggi consultabili dimostrano che la non espansione della Nato era il presupposto (ancora una volta fallace) dell’iniziativa politica di El’cin (35). Quando il neopresidente russo scoprì che, malgrado le pacche sulle spalle, l’America si preparava invece ad attuarla, i suoi appelli all’amico Clinton per fermarla si dimostrarono vani e disperati, come tentare di fermare il moto dei pianeti. In una lettera datata 15 settembre 1993, El’cin esprimeva a Clinton («dear Bill») il «disagio russo» di fronte all’ipotesi di espansione dell’Alleanza Atlantica, non nascondendo di preferire un «approccio diverso» (ovvero un «sistema di sicurezza paneuropeo basato sull’azione collettiva, non sull’appartenenza a un blocco»). Pur riconoscendo «il diritto sovrano di ciascuno Stato di decidere come garantire la propria sicurezza, incluso partecipando ad alleanze politico-militari», El’cin spiegava che «non solo l’opposizione, ma anche i circoli moderati (in Russia, n.d.a.) percepirebbero l’allargamento della Nato come una forma di neo-isolamento del nostro paese, antitetico alla sua naturale ammissione nello spazio euroatlantico». Ricordava quindi a Clinton la promessa fatta dal suo predecessore a Gorbačëv, ribadendo che «lo spirito del trattato sull’assetto finale relativo alla Germania firmato nel settembre 1990, specialmente le sue disposizioni che proibiscono il dispiegamento di truppe straniere sui territori orientali della Repubblica Federale Germania, preclude l’opzione di espandere la zona Nato a est» (36). Il 29 novembre 1994 El’cin reiterava a Clinton l’auspicio che fosse la Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa, non la Nato, l’architrave del sistema di sicurezza europea e ribadiva «di non riuscire assolutamente a comprendere le ragioni dell’avvio dei negoziati» per l’allargamento dell’Alleanza Atlantica, che «saranno interpretati, non solo in Russia, come l’inizio di una nuova divisione in Europa» 37. Pochi giorni più tardi, alla Conferenza di riesame dell’Osce a Budapest (dicembre 1994), El’cin si rivolse platealmente a Clinton chiedendogli: «Perché stai piantando i semi della sfiducia? L’Europa rischia di sprofondare in una pace fredda. (…) La storia dimostra che è una pericolosa illusione pensare che i destini dei continenti e della comunità mondiale in generale possano essere gestiti da una sola capitale» (38).
Nel 1994 era dunque chiaro a Washington che l’allargamento della Nato non sarebbe stato affatto accolto con acquiescenza da Mosca, ma anzi interpretato – correttamente – come la volontà di escludere la Russia dal sistema di sicurezza europeo, dunque come tradimento della promessa di cooperazione in nome della quale Gorbačëv aveva smantellato pezzo dopo pezzo l’Unione Sovietica (39). I tentativi (simbolici) di correggere l’impressione russa che l’obiettivo dell’allargamento della Nato fosse quello di paralizzare il potenziale strategico di Mosca, ad esempio con la creazione del Consiglio Nato-Russia nel 2002, erano destinati al fallimento, poiché gli Stati Uniti non avevano – né mai nutrirono – alcuna reale intenzione di lasciare che il Cremlino acquisisse un reale potere decisionale (o di veto) in seno all’Alleanza o al comando militare integrato, alterando gli equilibri interni alla Nato, «strumento della presenza americana in Europa» (Baker).
Se dunque l’alleanza strategica russo-americana immaginata da El’cin era una chimera, il grand design statunitense – creare una vasta area di pace e stabilità tramite l’allargamento della Nato – era contradditorio e in definitiva irrealizzabile se non a prezzo del conflitto, come dimostra l’esito ultimo di tale politica (la guerra in corso da oltre un anno nel cuore dell’Europa). Era ingenuo pensare che un grande paese con una profondità storica come la Russia, per quanto umiliato e offeso, potesse semplicemente autodestituirsi, rinunciando all’idea di avere una propria autonomia politica e strategica, al pari di una Polonia o Slovacchia qualsiasi. Esattamente quello che esigeva il disegno americano: l’incorporamento della Russia come appendice del blocco atlantico. Una prospettiva altrettanto irrealistica di quella di Mosca, la cui classe dirigente aveva immaginato di poter condividere lo scettro del potere mondiale con l’America in nome della buona volontà dimostrata nel porre fine alla guerra fredda.
Ma il cammino era ormai già tracciato. Gli americani sapevano bene che la Russia non avrebbe in ogni caso potuto fermare il processo, un concetto che Clinton fece arrivare forte e chiaro a El’cin durante il suo viaggio a Mosca nel 1995: «Non continuare a chiedermi di rallentare (il processo di allargamento, n.d.a.) o noi dovremo continuare a dirti no». El’cin ne divenne, a sue spese, ugualmente consapevole: l’impotenza in cui era sprofondato il suo paese, impoverito dalle privatizzazioni selvagge prescritte dal Washington Consensus e militarmente in disfacimento, limitava la sua protesta al flatus vocis, ma prefigurava già l’inevitabilità del conflitto che ne sarebbe derivato: «Non vedo altro che umiliazione per la Russia se procedi. (…) Perché vuoi fare questo? È una forma di accerchiamento se il blocco superstite della guerra fredda si espande fino ai confini della Russia. Molti russi provano un senso di paura. Cosa volete raggiungere con questo, se la Russia è vostro partner?. (…) Abbiamo bisogno di una nuova struttura per la sicurezza paneuropea, non delle vecchie strutture (…) non di creare blocchi. Per me accettare che i confini della Nato si espandano verso quelli della Russia costituirebbe un tradimento del popolo russo» (40).
12. Le vicende che ha conosciuto l’Ucraina dal 1991 a oggi non possono essere comprese se non all’interno del Grande Gioco di cui abbiamo sommariamente indicato i termini e definito la scacchiera. Ogni tentativo di separare l’aggressione russa dal contesto geopolitico in cui si inserisce, o di spiegarla insistendo su aspetti marginali e parziali, come la volontà di autodeterminazione degli ucraini, significa «isolare la crisi ucraina dalla complessità geostrategica in cui essa ha preso origine e dove si è sviluppata e, quindi, mistificarne capziosamente la portata storica e politica» (41). La parabola geopolitica ucraina, dalle vertigini dell’indipendenza agli abissi della guerra, è stata condizionata fin dall’inizio da direttrici in larga parte «esterne» al paese, comparendo nei piani americani di allargamento della Nato sin dal 1993, pur essendo l’Ucraina geostoricamente prossima alla Russia, di cui per secoli aveva fatto organicamente parte (prima sotto l’impero zarista, poi sotto quello sovietico). Fin dalla sua indipendenza, dunque, essa è stata un campo attraversato da fortissime tensioni geopolitiche, che hanno inciso profondamente sulle sue dinamiche interne. Che da ultimo hanno portato alla guerra scoppiata il 24 febbraio 2022, esito finale della maturazione dello scontro geopolitico tra America e Russia. Di cui l’Ucraina, «terra di frontiera», è diventata per volontà dell’Occidente – e complicità della classe dirigente locale – «terreno di scontro».
La guerra è plastica rappresentazione dell’effetto destabilizzante della geopolitica americana di «allargamento democratico» sull’architettura di sicurezza europea. Analogamente alla Germania guglielmina dopo il congedo di Bismarck, la ricerca di sicurezza assoluta dell’Occidente dopo il 1991 attraverso l’espansione della Nato ha prodotto in Russia la minaccia di insicurezza assoluta, scatenando processi distruttivi dell’ordine, della stabilità e in definitiva della pace. Esattamente il contrario di quello che si voleva ottenere con l’allargamento democratico, uno slogan che nasconde un vuoto intellettuale speculare al provincialismo politico di cui è espressione. Una pace durevole, come quella che avrebbe potuto vedere la luce dopo la dissoluzione (e quindi la sconfitta) dell’Urss, avrebbe infatti richiesto che la potenza vincitrice tenesse in conto gli interessi fondamentali dello sconfitto: ciò fu fatto a Vienna nel 1814-15 con la Francia, ma non a Parigi nel 1919 con la Germania (un errore che generazioni di europei dissero di non voler mai più ripetere) (42). Solo così sarebbe stato possibile trasformare il sistema internazionale emerso dalla fine della guerra fredda in autentico ordine internazionale («world order»), concetto che implica stabilità e presuppone equilibrio, ovvero la legittimità che solo gli Stati che interagiscono sullo scacchiere internazionale possono riconoscergli (o negargli). Ma affinché possa darsi consenso sulla legittimità dell’ordine esistente, riducendo l’attrito tra confliggenti volontà statuali, è necessario che siano riconosciuti (e presi in dovuta considerazione) gli interessi fondamentali (o «minimi») dei principali poli del sistema, in un delicato equilibrio tra potere e legittimità.
Complice la smisurata hybris derivante dalla «certezza dell’assoluta superiorità dei princìpi e degli ideali fondativi degli Stati Uniti rispetto (…) a quelli delle nazioni e dei governi di tutta la storia» ( 43), la potenza vincitrice dalla guerra fredda – l’America – non ha saputo distillare dallo straordinario potere consegnatole dall’implosione dell’Urss un ordine legittimo, ma solo una visione autocentrata e unilaterale, incurante di ogni considerazione geopolitica e priva di coscienza storica. L’America non è stata capace così di riconoscere alla Russia quello che riconosce a sé stessa: il diritto di tutelare la propria sicurezza nazionale, come orgogliosamente rivendicato dalla dottrina Monroe («considereremo pericoloso per la nostra pace e la nostra sicurezza ogni tentativo di estendere i loro sistemi (delle potenze europee, n.d.a.) a qualsiasi area del nostro emisfero»). Al contrario, Washington ha esteso la propria alleanza politico-militare ai paesi del dissolto impero sovietico in nome di un impossibile approccio unipolare all’ordine, privo com’è di profondità storica, con l’esplicito intento di rimuovere alla radice ogni possibilità che la Russia esprimesse un ruolo autonomo nel sistema internazionale. Impedendo (anche a costo di farla saltare in aria) ogni «pericolosa» integrazione di Mosca all’interno di un sistema di relazioni non conflittuali con i paesi europei, Germania in primis, nel timore che ciò potesse favorire l’agglomerarsi di un polo di potenza geoeconomico con proiezione eurasiatica, tale da minacciare l’egemonia assoluta americana sull’Europa, provincia più pregiata dell’impero.
Impiegando tattiche brutalmente realiste in nome di un disegno profondamento idealistico, in un rovesciamento dialettico connaturato all’intrinseca aggressività di una politica estera che annulla la differenza tra interessi e valori (44), la teoria dell’allargamento democratico si è inevitabilmente tradotta in crescenti e sempre più invasive pressioni americane sulla classe dirigente ucraina perché scivolasse verso la Nato, recidendo una volta per tutte i suoi legami politici, economici e culturali con la Russia. Pressioni culminate nel 2014 con la destituzione di Janukovyč, reo di perseguire una politica «multivettoriale», tesa a soddisfare con una buona dose di spregiudicatezza e opportunismo (ma anche di pragmatismo) tanto le aspettative dell’Occidente quanto quelle russe, mantenendo l’Ucraina in un sistema di «alleanze sovrapposte» (con Bruxelles e Mosca contemporaneamente) (45). Nel tentativo di estrarre il maggior vantaggio possibile per il proprio paese (46) e preservare la pacifica convivenza tra le molte anime della «nazione» ucraina, coacervo di lingue, storie e culture eterogenee. Motivo per cui ogni tentativo di presentare la guerra in corso come una guerra di liberazione e autodeterminazione nazionale dalle romantiche tinte risorgimentali dimentica, inter alia, che non esiste una identità ucraina omogenea, essendo l’Ucraina il contrario di uno Stato nazionale nel senso classico del termine, più vicina com’è a un’espressione geografica à la Metternich che a una comunità di lingua, tradizioni e cultura à la Fichte. Come ammoniva profeticamente Kissinger nel 2014, «qualsiasi tentativo dell’Ucraina cattolica e di lingua ucraina di dominare l’altra Ucraina ortodossa e russofona condurrà necessariamente alla guerra civile e alla fine dell’unità nazionale» (47).
Con la sostituzione della classe dirigente del paese orchestrata da Washington («fuck the Eu!» dirà la vice di Kerry, Victoria Nuland, intercettata mentre stabilisce al telefono la composizione del nuovo governo post-Janukovyč 48) e con la trasformazione della Russia in avversario fisso, il sistema europeo perse nel 2014 il suo ultimo elemento di flessibilità, irrigidendo lo scontro in Europa tra due blocchi frontalmente contrapposti (49). Trasformando l’«identità» ucraina in principio di alterità e contrapposizione, anziché di tolleranza e apertura (come aveva suggerito Bush nel 1991) (50). E avviando così il processo di disintegrazione del paese, con le proclamazioni di indipendenza delle regioni orientali e della Crimea, annessa poi alla Russia, e la guerra civile tra ucraini filorussi e ucraini filo-occidentali, costata secondo i dati delle Nazioni Unite oltre 14 mila morti tra 2014 e 2021 (51). All’epoca Kissinger ammonì (Washington, prima che Kiev) che «se il destino dell’Ucraina è sopravvivere e prosperare, essa non può diventare l’avamposto militare dell’uno o dell’altro schieramento, ma deve invece trasformarsi in un ponte capace di unire, e non in un fossato creato per dividere. (…) Considerare l’Ucraina come parte del confronto Est-Ovest, spingendola a far parte della Nato, equivarrebbe ad affossare per decenni ogni prospettiva d’integrare la Russia e l’Occidente, e in particolare la Russia e l’Europa, in un sistema di cooperazione internazionale». Parole nel vuoto, avrebbe detto Adolf Loos, poiché l’intensità delle pressioni americane non si è fermata, anzi è cresciuta appellandosi pateticamente e irresponsabilmente al principio della «porta aperta», anche di fronte all’evidente rafforzamento della postura geopolitica della Russia di Putin, decisa ad arrestare la parabola verso l’irrilevanza strategica a cui Washington immaginava di poterla unilateralmente relegare. Rendendo non solo prevedibile, ma inevitabile il conflitto, largamente previsto da autorevoli politologi americani, tra cui lo stesso Kissinger (2014), Mearsheimer (2014) e Merry (2017).
13. Di fronte alla sorda insensibilità dell’Occidente per le ragioni della geopolitica, la classe dirigente russa ha reagito nel 2022 attaccando militarmente l’Ucraina, considerando tale azione extrema ratio per fermare un processo geopolitico ritenuto esiziale per la propria sopravvivenza e per il ruolo della Russia. Riaffermando disperatamente nell’attacco una vivacità storica che, pur nei limiti emersi durante la campagna militare ucraina, ha comunque ribaltato una passività geopolitica che aveva preservato per inerzia il mito della sua superpotenza. Potendo comunque disporre di risorse umane e militari imparagonabili a quelle ucraine, rendendo tutt’altro che scritto l’esito del conflitto, nonostante l’ininterrotta fornitura di armi da parte dalla Nato e dagli «alleati».
L’Occidente, ancora una volta, sperimenta così le contraddizioni che scaturiscono dalla sistematica disapplicazione delle regole elementari della geopolitica, di cui l’America non pratica la grammatica e di cui gli europei hanno dimenticato la prassi. Ma una strategia che si traduce inesorabilmente in azioni inconcludenti e contradditorie rispetto ai propri stessi presupposti appare alla lunga destinata a scalfire, e in prospettiva a sgretolare, la scintillante teca dell’egemonia. È difficile, del resto, mantenere la convinzione della superiorità dei propri valori, sui quali poggia l’identità di una collettività come di un individuo, se la loro attuazione produce conseguenze che li contraddicono, traducendosi sistematicamente nel proprio opposto (pace in guerra, stabilità in disordine, prosperità in miseria), rivelandosi meri slogan propagandistici.
Gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero ricordare che «ogni regno diviso contro sé stesso va in rovina, e ogni città o casa divisa contro sé stessa non potrà reggere». L’Europa (o impero europeo dell’America) non si riduce all’Occidente inteso come un granitico blocco identitario. Al contrario, l’Europa è un continuum culturale, storico e geografico che racchiude una molteplicità di identità, lingue e tradizioni (motivo per cui non esiste un demos europeo o l’europeitas 52); identità riconducibili, a un elevato livello di astrazione, a tre elementi fondamentali: neolatino, germanico e slavo, che a loro volta si riflettono nelle tre grandi espressioni evolutive del cristianesimo: cattolica, protestante e ortodossa (53). Il tentativo della potenza americana di isolare e sradicare la Russia da questo prodigioso mondo storico-culturale, di cui fanno parte anche l’Ucraina e la sua complessa identità etnico-culturale (specchio perfetto del multiforme tessuto culturale del nostro continente), potrà forse impedire il risorgere di un’autentica autocoscienza e potenza europea, ma è destinato inesorabilmente a indebolire l’Occidente proprio nel momento in cui esso è chiamato a misurarsi con l’ascesa di potenze culturalmente e storicamente «estranee» – a differenza della Russia – alla società internazionale europea. L’applicazione di un modo astratto di esercitare il potere sulla storia è il tarlo che corrode da dentro l’egemonia americana, generando divisione e disordine al posto della stabilità e della pace, povertà anziché prosperità.
Prima però che la guerra in corso trascenda i limiti di un confitto per (semi)procura fra superpotenze, generando conseguenze irreversibili per l’Europa, le élite degli Stati Uniti e dell’Ue dovrebbero avere il coraggio di fare i conti con le cause «strutturali» del conflitto, tentando di porvi rimedio, invece di procedere allegramente verso l’abisso in nome del diritto e di assolutismi morali: esercizio stucchevole da parte di chi rappresenta un’alleanza di Stati non certo esenti da sanguinose e controverse (in molti casi fallimentari) iniziative militari (Kosovo, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, solo per citare le più recenti). La demonizzazione a oltranza della Russia – oltre a non essere una politica, ma l’alibi per non averne una – non porrà fine alla guerra, ma la aggraverà. Il conflitto in Europa dimostra che la geopolitica (e dunque la necessità della coesistenza tra entità statuali e culturali diverse) non è una scelta: è una realtà che i leader occidentali possono ignorare solo a spese dei loro popoli. La questione ucraina dovrebbe trovare soluzione fuori dall’astrattezza giuridica dell’autodeterminazione, spesso strumento del divide et impera (vedi alla voce Mitteleuropa) più che espressione di genuino amore per i popoli. Ricordando agli ucraini che l’ordine internazionale – ovvero la stabilità e la pace – sono la condizione stessa per il perseguimento di tutti gli altri valori: «Se non è garantito un livello minimo di sicurezza, gli scopi della giustizia politica, sociale ed economica non possono avere alcun significato» ( 54). Motivo per cui l’ordine (e la sua ricerca) nella politica mondiale non solo è degno di valore, ma è «prioritario» rispetto ad altri scopi, come quello della «giustizia» o dell’autodeterminazione, con buona pace delle anime belle (e vuote) che propugnano l’etica dell’irresponsabilità.
Proseguendo sulla via della contrapposizione ideologica e dell’escalation militare, il risultato non potrà che condurre l’Europa nell’abisso in cui la sua classe dirigente ripeteva di non voler mai più precipitare, edificando «l’Europa unita» per creare la pace, salvo poi fare la guerra in nome dell’idea di nazione. A quali latitudini l’attuale conflitto ci condurrà, dunque, dipenderà anche dalla lungimiranza e dalla saggezza delle classi dirigenti europee, posto che sappiano dimostrarsi capaci di discostarsi dalla semplificazione ideologica sulla quale si fonda l’attuale strategia di dominio unipolare a stelle e strisce. Un’Europa appiattita sull’interpretazione solipsistica dell’egemonia americana e accecata dal conformismo ideologico rappresenterebbe il rovesciamento di una delle etimologie del suo stesso nome: essere «terra dall’ampio sguardo». Come scriveva Otto Hintze in un saggio del 1916, «non vogliamo la desolante supremazia mondiale di un popolo, ma una convivenza piena di vita di popoli e Stati liberi. (…) L’ideale che ci prospettiamo per il futuro è un sistema di potenze mondiali che si riconoscono e si rispettano vicendevolmente, come facevano prima le grandi potenze del concerto europeo» (55).
Note:
1) John Florio – pseudonimo di ?
1. «NATO’s ongoing enlargement process poses no threat to any country. It is aimed at promoting stability and cooperation, at building a Europe whole and free, united in peace, democracy, and common values», Nato.int, 6/7/2022.
2. D. Polansky, L’impero che non c’è. Geopolitica degli Stati Uniti d’America, Milano 2005, Guerini e Associati, p. 219.
3. C. Schmitt, La tirannia dei valori, Milano 2008, Adelphi, p. 51. Le sconclusionate avventure occidentali in Medio e Vicino Oriente, che hanno lasciato dietro di sé distruzione e morte, non certo stabilità e pace, né tantomeno giustizia e democrazia, dovrebbero averci messo in guardia dai pericoli di applicare alla geopolitica categorie morali assolute.
4. Il principio di autodeterminazione dei popoli è un concetto limite, che va maneggiato con cura. Imposto semplicisticamente da Wilson all’Europa dopo la prima guerra mondiale, esso ha destabilizzato il continente, smembrando imperi multietnici ed evocando le devastanti forze che avrebbero condotto alla seconda guerra mondiale.
5. Cfr. G.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari 1999, Laterza, § 124 (aggiunta), p. 320.
6. La massima greca (Strabone) secondo cui «la geografia è un destino», motivo per cui la storia non si può fare a tavolino, coglie dunque un aspetto del vero. Per dirla con Napoleone, «la storia di un popolo risiede nella sua geografia». Cfr. T. Marshall, Prisoners of Geography: Ten Maps That Tell You Everything You Need to Know About Global Politics, New York 2016, Scribner.
7. Questa in nuce l’acquisizione fondamentale emersa dalla pace di Vestfalia e lo scopo della ricerca dell’equilibrio di potere, il cui fine primario è anzitutto la preservazione del sistema di Stati, garantendo la coesistenza di entità sovrane.
8. Sforzo cui è esentato chi, ricorrendo al potere semplificatorio dell’ideologia, si assolve dall’esercizio del logos (ovvero dalla fatica del concetto).
9. J.M. Goldgeier, «A complex man with a simple idea», in M. Kimmage, M. Rojansky (a cura di), A Kennan for our times: Revisiting America’s Greatest 20th Century Diplomat in the 21st Century, Kennan Institute, Washington 2009, Wilson Center, p. 28.
10. G.H.W. Bush, B. Scowcroft, A World Transformed, Vintage, 1999, citato in A. de’ Robertis, «La Nato e la sfida della Russia», Quaderni del Dipartimento di Scienze Politiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, n. 8/2015, p. 66.
11. H. Kissinger, «Reversing Yalta», The Washington Post, 16/4/1989.
12. Cfr. A. de’ Robertis, «La Nato e la sfida della Russia», Quaderni del Dipartimento di Scienze Politiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, n. 8/2015, p. 67.
13. H. Kissinger, Ordine Mondiale, Milano 2015, Mondadori 2015. Si veda ad esempio cosa disse Baker a Gorbačëv durante il loro incontro a Mosca nel febbraio del 1990: «Neither the President nor I intend to extract any unilateral advantages from the processes that are taking place».
14. «If we maintain a presence in a Germany that is a part of NATO, there would be no extension of NATO’s jurisdiction for forces of NATO one inch to the east». Così si legge, inter alia, nel Memorandum della conversazione tra Gorbačëv e Baker del 9 febbraio del 1990, recentemente declassificato dal dipartimento di Stato Usa: Memorandum of conversation between Mikhail Gorbachev and James Baker in Moscow, February 9, 1990. Analoga formulazione si legge nella trascrizione sovietica dello stesso incontro: bit.ly/3lxSLmA
15. Il 12 dicembre 2017 il National Security Archive presso la George Washington University ha declassificato e pubblicato 30 documenti statunitensi, sovietici, tedeschi, britannici e francesi che rivelano le assicurazioni relative alla sicurezza sovietica e al non allargamento a est della Nato fornite dai leader occidentali a Gorbačëv (e altri funzionari sovietici) durante il processo di unificazione tedesca, tra il 1990 e il 1991, bit.ly/2N7t2KO
16. A. Puškov, Da Gorbačëv a Putin. Geopolitica della Russia, Milano 2022, Sandro Teti Editore, p. 36.
17. Ivi, p. 37. Benché del commento del ministro sovietico, che assistette all’incontro, non vi sia traccia nei documenti disponibili , si può comunque notare dalle trascrizioni americane e sovietiche (si prenda ad esempio quella del 9 febbraio 1990) come le risposte di Gorbačëv alle reiterate proposte di Baker di non espansione della Nato siano per lo più sbrigative e superficiali («Condivido la tua linea di pensiero», «L’approccio che hai delineato è altamente plausibile»), senza mai ribattere alludendo alla stipula di qualche forma di garanzia o accordo scritto.
18. A de’ Robertis, «Il ruolo di stabilizzazione della Nato dai Balcani ai confini dell’Europa», in M. De leonardis , G. Pastori (a cura di), Le nuove sfide per la forza militare e la diplomazia. Il ruolo della Nato, Milano 2014, Monguzzi, pp. 168-70.
19. Avrebbe dovuto sapere che, fra Stati, i rapporti di forza contano molto più delle dichiarazioni di principio e che compiere passi unilaterali in favore dell’avversario in nome delle buone intenzioni può far guadagnare riconoscimenti morali e perfino simpatie personali, ma a costo di far scivolare il proprio paese nella spirale dell’impotenza.
20. La registrazione del discorso è disponibile all’indirizzo: bit.ly/3Xq1Nzh
21. La violazione sistematica della grammatica della potenza era stata la cifra della parabola politica di Gorbačëv, che aveva condotto l’Unione Sovietica sulla tragica strada dell’auto-toglimento non dialettico.
22. 1992 Defence Planning Guidance, Department of Defense for Fiscal Year 1994-1999, 16/4/1992, p. 15.
23. C. Krauthammer, «The Unipolar Moment», Foreign Affairs, vol. 70, n. 1, 1990-91, pp. 23-33.
24. R. Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Milano 2008, Mondadori, p. 97. «La storia dell’America, al di là di ogni mito isolazionista, è una storia di espansione territoriale e di influenza tutt’altro che inconsapevoli. L’ambizione a svolgere un ruolo da protagonista sulla scena mondiale è profondamente radicata nel carattere americano», ibidem.
25. Cfr. 1992 Defence Planning Guidance, cit.
26. Per usare le parole di Baker: «The mechanism by which we have a US military presence in Europe is NATO. If you abolish NATO, there will be no more US presence», Memorandum of conversation between Mikhail Gorbachev and James Baker in Moscow, cit., p. 6.
27. J.L. Gaddis, Surprise, Security, and the American Experience, Cambridge MA 2004, Harvard University Press, p. 77.
28. Memo declassificato del dipartimento di Stato Usa, «Strategy for NATO’s Expansion and Transformation», 7/9/1993, bit.ly/3Z0XRWX
29. «Il nostro scopo primario deve essere espandere e rafforzare la comunità mondiale delle democrazie basate sul mercato», «Confronting the Challenges of a Broader World», discorso di Clinton all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, New York, 27/9/1993, in Department of State Dispatch, IV, 39, 27/9/1997.
30. Cfr. D. Polansky, op. cit.; S. Wertheim, Tomorrow, the World: The Birth of U.S. Global Supremacy, Cambridge MA 2020, Harvard University Press.
31. J,M. Goldgeier, «The U.S. Decision to Enlarge NATO», Brookings Review, Summer 1999, p. 19.
32. M. Albright, Madam Secretary: A Memoir, New York City 2005, Miramax p. 324.
33. Your October 21-23 visit to Moscow – Key foreign policy issues, U.S. Department of State, 20/10/1993, p. 4, bit.ly/3xdusg8. Nelle sue memorie, Christopher affermerà più tardi che El’cin fraintese – «forse perché ubriaco» – che lo strumento della Partnership per la Pace (un programma di cooperazione militare concepito nell’ottobre del 1993 come compromesso risultante dalle divergenze tra il Pentagono e l’amministrazione Clinton su come rispondere alle richieste dei paesi del Centro e dell’Est Europa di aderire all’Alleanza) non era alternativo, ma precursore dell’espansione della Nato, come Clinton confermerà ai leader di Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria e Slovacchia in occasione del suo viaggio a Praga, nel gennaio del 1994 («The question is no longer whether Nato will take on new members, but when and how»).
34. G.F. Kennan, «A Fateful Error», The New York Times, 5/2/1997. Naturalmente, ricordava, «i russi non avrebbero altra scelta che accettare l’espansione come un fatto militare compiuto». E come tale essi infatti lo inquadrarono, benché il loro dissenso non avesse allora la forza per impedirne l’accadimento.
35. Tanto che durante il suo incontro con i sostenitori di El’cin, prima delle elezioni russe del giugno 1991, il segretario generale della Nato, Manfred Wörner, dovette assicurare che non sarebbe avvenuta alcuna espansione dell’Alleanza. Cfr. NATO Expansion: What Yeltsin Heard, National Security Archive.
36. Lettera del 15 settembre del presidente El’cin al presidente Clinton, corsivo nostro.
37. Lettera del presidente El’cin al presidente Clinton, 29/11/1994.
38. «Yeltsin Says NATO Is Trying to Split Continent Again», The New York Times, 6/12/1994.
39. Fr. December 21 1994 – NAC: Guidance for Discussion of the Vice President’s Visit to Russia, U.S. Department of State, bit.ly/3lkjL8K. Dai documenti declassificati russi degli anni Novanta, inclusi quelli delle sessioni a porte chiuse della Duma, si evince come le ragioni russe dell’opposizione all’espansione della Nato vertessero su tre preoccupazioni fondamentali: che l’espansione minacciasse la sicurezza russa; che minasse l’ideale di una sicurezza europea inclusiva; e infine che tracciasse una nuova linea divisoria in Europa.
40. Summary report on One-on-One meeting between Presidents Clinton and Yeltsin, Kremlin, May 10, 1995.
41. E. Di Rienzo, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale, Soveria Mannelli 2015, Rubbettino, p. 18.
42. M. De Leonardis, «Da Erodoto a Kissinger: l’eredità della storia e il peso della geopolitica», p. 15, in G. Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Roma 2021, Carocci.
43. R. Kagan, op. cit., p. 98.
44. L’aggressività è intrinseca alla struttura tetico-ponente del valore (sostenere un valore vuol dire farlo valere, cioè imporlo, dando vita a una guerra tra visioni del mondo che travolge, per definizione, ogni valore).
45. Politica racchiusa nella battuta «Vogliamo andare verso l’Ovest, ma il modo migliore di farlo è con il gas dell’Est». All’Onu, nel settembre del 2013, Janukovyč ribadì che le «aspirazioni europeiste dell’Ucraina sono il pilastro dello sviluppo del nostro paese» insistendo però sulla prospettiva trilaterale dei rapporti tra Ucraina, Ue e Russia. «L’Ucraina è un ponte tra Russia e Ue, ed è molto importante assicurare che questo ponte rimanga saldo e affidabile. Il dialogo tra Ucraina, Russia e Ue sulle questioni commerciali è possibile nel prossimo futuro», «Between two stools: Ukraine says EU trade deal certain, Russia – led union also an option», Reuters, 25/9/2013.
46. G. Colonna, Ucraina tra Russia e Occidente. Un’identità contesa, Milano 2022, Edilibri, p. 84.
47. L’Ucraina (che nella sua configurazione unitaria ha cessato di esistere il 24 febbraio 2022) è notoriamente una terra dalla storia complessa, in cui convivono popolazioni vissute per secoli (dal XVIII secolo fino al 1918) sotto l’impero austro-ungarico (Leopoli e la Galizia) e altre sotto gli zar (le regioni orientali, meridionali, la Crimea e Kiev). Cfr. H. Kissinger, «To settle the Ukraine crisis, start at the end», The Washington Post, 5/3/2014.
48. «Leaked audio reveals embarrassing U.S. exchange on Ukraine, EU», Reuters, 7/2/2014. Victoria Nuland è la moglie di Robert Kagan, teorico neocon che ha teorizzato il destino manifesto degli Usa a espandersi nel mondo.
49. E. Di Rienzo, op. cit., p. 31. Internamente, infatti, la classe dirigente post-Majdan si dedicava internamente a una spensierata opera di pulizia culturale e linguistica, perseguendo oltre all’obiettivo di ingresso nella Nato (che Zelens’kyj nel 2019 inserì in costituzione, nonostante l’ampia opposizione popolare), quello di una forzata politica di omogeneizzazione (vietando quindi l’uso e l’insegnamento del russo nelle scuole). Una politica che alla vigilia della guerra aveva portato la popolarità di Zelens’kyj, eletto per ricucire i rapporti con la Russia, ai minimi storici.
50. Ibidem.
51. H. Kissinger, «To settle the Ukraine crisis», cit.; J. Mearsheimer, «Why the Ukraine Crisis Is the West’s Fault», Foreign Affairs, settembre-ottobre 2014; R. Merry, «The Demonization of Putin by American Intelligentsia», The National Interest, settembre-ottobre 2017.
52. J. Florio, «L’ombra di un sogno. Perché l’europeismo è antieuropeo» Limes, «Il muro portante», n. 10/2019.
53. Cfr. l’eccellente studio di G. Colonna, op. cit., in particolare pp. 125-133.
54. H. Bull, «La società anarchica. L’ordine nella politica mondiale», Vita e Pensiero, 2005, p. 114.
55. O. Hintze, Deutschland und der Weltkrieg, Leipzig-Berlin 1916, Teubner, cit. in D. Groh, La Russia e l’autocoscienza d’Europa. Saggio sulla storia intellettuale d’Europa, Torino 1980, Einaudi, p. 382.
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