GUERRA RUSSIA-UCRAINA: ZITTIRE LE ARMI, DARE VOCE AL NEGOZIATO

per Riccardo Aprea
Autore originale del testo: RICCARDO APREA

La guerra scatenata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin sta assumendo una piega che sembra irrimediabilmente condurre le due parti belligeranti ad uno scontro sempre più violento e definitivo, nel senso di affidare la sua fine alla classica logica vincitore/sconfitto, invece che ad un possibile accordo.

Si sta, in buona sostanza, andando incontro ad una endemizzazione del conflitto e ciò proprio quando appare evidente la sconfitta dell’originario progetto di Putin di annessione di fatto dell’Ucraina, attraverso un azzeramento dell’attuale dirigenza e la sua sostituzione con un governo fantocci, e la concentrazione delle forze militari nella regione del Donbas con l’evidente obiettivo, fallito quello massimo, di conseguire quello, minimo, dell’annessione della detta regione, sì da garantirsi attraverso il controllo del Mare d’Azov e quello del Mar Nero, già acquisito fin dal 2014 con l’annessione della Crimea, lo strategico accesso al Mediterraneo.

In questo scenario, nell’ambito del quale una convinta logica negoziale potrebbe sortire un qualche effetto positivo, sia, dal punto di vista immediato, sotto il profilo di un corposo cessate il fuoco, con il conseguente risparmio di tante vite umane, sia sotto il profilo della ricerca di una sistemazione geo-politica dell’area in questione, lo scontro, invece, sta aumentando di livello, con il conseguente carico di distruzione e morte. Senza dire, poi, che l’aumento dell’intensità del confronto armato rischia paurosamente di dare la stura all’uso di armi di morte sempre più sofisticate e sporche quali le armi chimiche, batteriologiche, al fosforo, a grappolo fino a quello dell’arma nucleare cd “tattica”. Quest’ultima, mai fino ad ora utilizzata in alcun conflitto, caratterizzata da un elevato livello di maneggevolezza, seppure nettamente meno potente della bomba nucleare classica, costituirebbe, ad ogni buon conto, un salto di qualità estremamente grave nella gestione della guerra sia, comunque, per il suo elevato livello distruttivo di natura anche radioattiva, sia per l’intrinseco portato di escalation verso una guerra nucleare vera e propria.

D’altro canto il quadro descritto sembra coerente con il concreto atteggiamento che sta assumendo la Nato, ergo, sostanzialmente, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che, con il notevole incremento del sostegno militare all’Ucraina (gli Stati Uniti hanno deciso un ulteriore stanziamento di 800 milioni di dollari in forniture militari), sta puntando non già sull’ipotesi del negoziato volto al conseguimento di un accordo che faccia “scoppiare” la pace, ma su una duplice ipotesi, militare e politica: militare, con la vittoria, sul campo di battaglia, dell’Ucraina e il totale respingimento, quindi, della Russia all’interno dei suoi confini; politica, se non proprio con il rovesciamento del regime di Putin, con un suo fortissimo ridimensionamento volto a ridurre le pretese della Russia di egemonia imperiale in una vasta area comprensiva di parte dell’Europa, costringendola ad un ben limitato ruolo di potenza regionale, prevalentemente rivolta all’area asiatica.

Se così stanno le cose, il rischio, come detto, di una endemizzazione del conflitto si fa sempre più consistente e con esso quello di un allargamento  del suo perimetro al di là del solo territorio ucraino.

Ciò che veramente manca per cercare di impedire una deriva del genere è un diverso ruolo dell’Unione Europea che non riesce ad esprimere un proprio punto di vista nella gestione della crisi con l’obiettivo di conseguire un immediato cessate il fuoco e l’avvio di un negoziato effettivo, realmente volto a cercare di raggiungere realisticamente un accordo di pace.

In questa ottica le difficoltà/ostacoli principali mi sembrano rappresentati essenzialmente da un lato dall’incapacità, o forse anche non volontà,  a tutt’oggi, dell’Unione Europea di smarcarsi dall’appiattimento sulla posizione americana per cercare di svolgere, pur al momento all’interno dell’alleanza atlantica, alla luce dell’oggettiva diversità dell’impatto della guerra nei suoi confronti rispetto agli Stati Uniti e ad altri Paesi Nato, un ruolo che potremmo definire, mutuando l’espressione da altro contesto della politica nazionale, di autonomia differenziata; dall’altro dall’assenza di una qualunque produzione di ipotesi di accordo da porre a base del negoziato.

La sensazione è che su questo specifico punto, manchi proprio un pensiero, un’idea, una possibile proposta  che tenga colto della storia dell’Ucraina, dei rapporti fra Ucraina e Russia durante il periodo della loro comune appartenenza alla Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, di come si sono determinati alcuni confini.

In proposito, sia a livello sia dei ceti di governo dei Paesi dell’UE, sia a livello delle forze politiche dei vari Paesi, sembra regnare il buio più totale, circostanza di una gravità notevole che tradisce un atteggiamento di totale sottovalutazione della gravità della guerra, degli effetti negativi che da essa inevitabilmente discenderanno nelle relazioni internazionali, senza dire, naturalmente, degli effetti distruttivi di vite umane, dei luoghi della vita associata, dell’ambiente.

L’unica voce che si è, a tutt’oggi, levata su tale così cruciale argomento non è quella di una forza politica, ma di un professore, il Prof. Alessandro Orsini, appunto, che ha proposto che l’Ucraina dovrebbe accettare di rinunciare alla Crimea e alla regione del Donbas, e di rimanere neutrale tra gli Stati Uniti e la Russia, non richiedendo, pertanto, l’adesione alla NATO, motivando tale posizione con l’asimmetricità delle forze in campo, con la necessità di venire incontro ad una ritenuta legittima richiesta della Federazione Russa di sicurezza rispetto all’estensione sempre più a Est della Nato, in spregio ad accordo intercorso fra Stati Uniti e Gorbaciov nel 1991 in seguito al dissolvimento del patto di Varsavia, e con la necessità, altresì, di evitare un sempre più devastante bagno di sangue fra la inerme popolazione ucraina.

Su questo punto, sulla necessità di arricchire di un qualche contenuto, la spinta proveniente, per quanto riguarda il contesto italiano, dal variegato mondo che si colloca alla sinistra del PD, oltre che da tutta l’area pacifista, occorre senza dubbio fare un passo avanti, assumendosi la responsabilità di una proposta da avanzare al governo italiano perché a sua volta se ne faccia promotore in sede UE, almeno nell’ottica di favorire il concreto avvio di un negoziato e così provare, realmente, di passare dalla  vacua petizione di principio di un negoziato fantasma alla concretezza di un negoziato possibile.

Il primo scoglio è quello della Crimea. Dal 1774, anno conclusivo della guerra russo-turco con la vittoria della Russia, questa regione, caratterizzata nei secoli precedenti da una storia complessa fatta di dominazione romano/bizantina, occupazione barbarica (Goti e Unni), occupazione dei Tatari (popolazione di origine turca), dominazione veneziana e poi genovese,  è divenuta formalmente uno stato indipendente, ma di fatto è entrata nella sfera di influenza della Russia (V. https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_Crimea) fino ad esserne, successivamente, ufficialmente annessa il 8.1.1784.

Da allora, in buona sostanza, la Crimea è sempre rimasta all’interno dell’Impero russo fino ad essere costituita nel 1921, in seguito ai rivolgimenti anche istituzionali e costituzionali connessi alla Rivoluzione del 1917, in seno alla  RSSF Russa-Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, la più grande delle 15 repubbliche componenti l’URSS, in forma di Repubblica autonoma Socialista Sovietica di Crimea. Fino a quando nel 1954, per commemorare il 300º anniversario del trattato di Perejaslav col quale la Riva sinistra ucraina, cioè il territorio ucraino a oriente del fiume Dnipro, scelse di unirsi alla Russia, l’allora segretario del Partito Comunista Sovietico, Nikita Chrusev, su decreto del Praesidium del Soviet Supremo dell’URSS, trasferì alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina –RSSU- la sovranità sull’oblast′ di Crimea (V. https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_Crimea). Decisione osteggiata da gran parte della popolazione di origine russa e a base delle note tensioni fra Russia e Ucraina del 2014, conclusesi con l’annessione di quest’ultima nella Federazione russa.

Il secondo scoglio è quello del Donbas (regione del fiume Don) la cui storia significativa è molto più recente, risalendo alla sollevazione nel 1918 contro il controllo zarista, dando vita nel febbraio 1918 alla Repubblica Sovietica del Donec-Krivoj Rog, che, tuttavia, non incontrò il favore del partito bolscevico, tanto che il 10 marzo del 1919 fu ufficialmente unita all’Ucraina (V. https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_del_Donbass). Si tratta di una regione che, dopo la caduta dell’URSS, ha vissuto forti tensioni interne fra parte della popolazione di orientamento filo-russo e parte, invece, di orientamento filo-occidentale fino alla proclamazione nel 2014 della Repubblica del Lugansk e di quella di Doneck, sempre, comunque, all’interno di un contesto di forti tensioni sociali, scontri fra forze filo-governative e forze secessioniste.

Un punto di apparente equilibrio raggiunto con gli accordi di Minsk, sottoscritti nel settembre 2014 dal Gruppo di Contatto Trilaterale sull’Ucraina, composto da rappresentanti di Ucraina, Russia e OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), è fallito per il sostanziale loro mancato rispetto.

Lo scenario descritto, sia per quanto concerne la Crimea che il Donbas, si presenta oggettivamente complesso e costituisce la riprova di quali gravi danni possano essere provocati dall’adozione del tutto autoritaria e centralistica di decisioni circa la collocazione di pezzi di territori, e quindi, dei popoli lì residenti, all’interno di una o di tal’altra repubblica, al venir meno di quel collante unificante, nel nostro caso rappresentato dal ruolo direttivo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Al venir meno dell’URSS, infatti, ha fatto immediatamente seguito l’emersione di quelle tensioni fra etnie diverse, sopite solo grazie al precedente forte controllo centralizzato.

E’ all’interno di tale scenario, tuttavia, che deve guadagnare spazio l’iniziativa politico-diplomatica, che deve, quindi, prendere corpo un negoziato vero che tenga effettivamente conto degli interessi e delle culture delle differenti popolazioni, immaginando fattibili soluzioni di vita associata.

Più che, come propone il Prof. Orsini, una secca rinuncia da parte dell’Ucraina alla Crimea e al Donbas, che come tale sembrerebbe accreditare come pagante l’uso della forza nella forma adottata dell’invasione territoriale e, quindi, della violazione dei confini nazionali, si potrebbe ipotizzare la costituzione di un’area regionale, dalla Crimea al Donbas, amministrata congiuntamente da un’autorità russo-ucraina, sulla base di un accordo sottoposto al controllo delle Nazioni Unite, la cui effettività venga garantita dalla presenza per un  certo numero di anni, sul territorio, dei caschi blu. Accordo che, fra l’altro, dovrebbe prevedere il pieno utilizzo, vuoi da parte ucraina, che da parte russa, delle vie di accesso al Mar d’Azov e al Mar Nero.

Al termine di un congruo periodo (10-15 anni), tale comunque da far ritenere che gli odi, i risentimenti causati dalle morti e dalle distruzioni della guerra, siano sufficientemente sopiti, sottoporre alla consultazione popolare, sempre sotto il controllo di regolarità dell’ONU, il futuro istituzionale della regione, dall’autonomia totale dall’Ucraina e dalla Russia, all’adesione ad una delle due, fermo, comunque, il rispetto pieno dei diritti delle minoranze.  

Naturalmente, si tratta solo di un’idea, di un’ipotesi fra le possibili, il cui senso, tuttavia, è quello di assumere l’iniziativa, ormai di primaria importanza, per conseguire il cessate il fuoco e l’avvio di un tavolo negoziale che possa effettivamente condurre ad un accordo di pace.

Certo è che non si possono lasciare “parlare” solo le armi. E’ ora di zittirle!

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La vicenda della guerra russo-ucraina sta evidenziando quanto ormai anacronistico sia l’assetto dell’ONU che con il diritto di veto consentito a ciascuno dei 5 membri del Consiglio di Sicurezza, riflette ancora pedissequamente gli equilibri, ormai abbondantemente superarti, emersi dalla seconda guerra mondiale.

Occorre trarre spunto dalla tragica esperienza di questa guerra per avviare una campagna di profonda riforma dell’ONU che, da un lato, tenga conto dell’emersione di nuove potenze statali, di nuove relazioni tra stati, di nuove sfere di influenza, dall’altro ponga in essere congrui meccanismi di pesi e contrappesi tali da contenere le mire espansionistiche di stati indotti, dalla loro potenza e influenza, a piegare alla loro volontà le politiche di altri stati.

E, da ultimo, ma non certo per importanza,  occorre che l’ONU venga investito del compito di promuovere il disarmo totale quanto meno delle armi nucleari, fino all’ultima testata, sì da salvaguardare l’integrità del Pianeta e consentire che la vita non cessi.

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