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GRANDI E INUTILI – di ANTONIO FRASCHILLA – ed. EINAUDI
recensione di Gabriele Borghese
“Non c’è angolo del Belpaese che non abbia il suo monumento alla bruttezza, all’inutile, all’incompiuto. Praticamente non esiste in Italia un comune in cui non sia presente un’opera rimasta a metà oppure abbandonata, come vedrete”. Il lato inutile e dannoso delle grandi opere è al centro dell’ultimo libro di Antonio Fraschilla “Grandi e inutili” (Ed. Einaudi, 2015, p. 200, 17€). Giornalista collaboratore del quotidiano la Repubblica, Fraschilla è autore di diverse inchieste sugli sprechi della politica e della pubblica amministrazione. Il libro parte da un assunto preliminare: l’incompiuto ha sempre fatto parte della storia dell’arte e dell’architettura, non è in sé un problema, a patto però che non siano i cittadini a pagarne le spese. E’ incompiuto il gruppo di sei statue di Michelangelo – i “Prigioni” – così come sono incompiuti il Duomo di Siena e il monastero dei benedettini di Catania. Il tema del libro non ha a che fare con questi storici quanto nobili fallimenti: “L’incompiuto che narriamo in questo volume ci dà piuttosto la sensazione di un degrado profondo che a volte ha a che fare, senza voler esagerare, con la violenza”. L’elenco delle grandi opere italiane è infinito in un duplice senso, sia perché parliamo di un grande numero di opere incomplete, ma anche perché un registro preciso che enumera queste opere non è mai stato stilato definitivamente. I casi stessi di cui si occupa Fraschilla non figurano ufficialmente nel conteggio ministeriale. Scrive infatti l’autore: “Nell’elenco molto parziale in possesso del Ministero ce ne sono poco meno di mille che […] pesano per 4 miliardi di euro. Ma la cifra dello spreco che raccontiamo in questo volume è di almeno 10 miliardi di euro, considerato che nell’elenco ministeriale non compaiono le opere incompiute del G8 della Maddalena, delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, dei Mondiali di nuoto del 2008, delle Universiadi siciliane del 1997 e nemmeno grandissime incompiute, impossibili da non vedere, come il mega centro turistico di Baia di Campi in Puglia”. Una cifra enorme che basterebbe a finanziare la cassa integrazione per due anni a tutti gli operai che lavorano in aziende in difficoltà. Il libro è articolato in quattro sezioni: la prima dedicata alle opere messe a punto in occasione di grandi eventi; la seconda si sofferma sui casi in cui i progetti delle opere incompiute sono stati firmati da grandi architetti (ad es. il Teatro di Sciacca in Sicilia o l’aeroporto di Perugia); nella terza si tratta delle grandi infrastrutture; nella quarta si descrive di come sono state mal gestite le opere pubbliche nei piccoli centri cittadini.
Il capitolo conclusivo del libro analizza i danni e rischi per la salute dei cittadini che si vengono a creare quando opere importanti non giungono a compimento, specialmente quando queste devono essere costruite per porre un argine al dissesto idrogeologico.
Il problema delle grandi opere non è dunque misurabile solo in base allo spreco in termini economici, in quanto si aggiunge, come sottolinea l’autore, “l’inquinamento ambientale, la rovina di paesaggi stupendi che potevano fare la fortuna di un territorio e che sono stati devastati. Nessuno ripagherà gli abitanti delle Madonie, in Sicilia, per la colata di cemento tra due valli arrivata in nome di una diga mai completata. Nessuno ripagherà gli abitanti di Tor Vergata per quel campo di terra e ferro sovrastato da una vela che si staglia nel cielo, inutile. Agli abitanti della Maddalena chi restituirà la baia incontaminata?”.
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leggi un estratto dal libro (da www.einaudi.it)
Prefazione
«Io credo che un popolo assuefatto a trovar sempre avantidi sé il bello sia piú intelligente di un popolo immerso nellabarbarie, e in conseguenza credo che una Galleria aperta almedesimo possa essere una scuola che col tempo lo avvezzi a stimar quello che vale e a preferirlo alla goffaggine». Cosíalla fine del Settecento scriveva il direttore della Galleria degli Uffizi Giuseppe Bencivenni Pelli. Senza addentrarsi in questioni che hanno piú a che fare con il rapporto tra la bellezza e la verità, la bellezza e la conoscenza, la bellezza e Dio, queste parole meglio di altre mi hanno accompagnato nel viaggio tra quelle che forse sono le piú grandi brutture delnostro Paese: le opere incompiute oppure inutili che stanno lí a deturpare paesaggi mozzafiato e periferie che già abbondano di cemento. Opere che in alcuni casi da sessant’anni epiú sono in eterna costruzione e nel frattempo rubano pezzetti di cielo a chi in questi luoghi cresce e vive.
Il trovarsi davanti a opere abbandonate crea un sentimento comune che forse è l’esatto contrario di quel sentimento del bello che sta alla base della filosofia dell’arte: «Dove non è affatto campata per aria l’idea che quel che io sento, quel che io provo, lo debbano provare tutti», scrive il docente di estetica Sergio Givone riferendosi all’esperienza del bello.
Ma cosa ha in comune l’Italia delle opere inutili oppure rimaste a metà (stimolate da ragioni diverse, talune fondate, altre ingiustificate)? Il senso del brutto. Un’antiestetica che «colpisce» lo spettatore-cittadino. Questo mio viaggio per l’Italia del brutto e incompiuto disegna una grande mappa dell’antiestetica, dalle Alpi piemontesi a Enna. Quintali di orrore che hanno alimentato anche il male della corruzione, dell’anti-Stato e, perché no, lo scarso senso civico che contraddistingue purtroppo buona parte del Paese rispetto ad altre realtà europee. Per questo scempio in pochissimi hanno pagato: pochissimi tra quelli che hanno voluto le opere inutili, quelli che le hanno progettate male, quelli che le dovevano completare e invece le hanno lasciate a metà.
Disegnando la mappa delle incompiute mi sono spesso domandato cosa accade a un bambino che cresce in una periferia di opere abbozzate e abbandonate a marcire, – se il paesaggio, l’ambiente, l’architettura hanno un’influenza sul comportamento delle persone, – dalla Valle d’Aosta che non riesce a ristrutturare il trenino storico delle miniere di Cogne, e dunque lo distrugge, fino alla profonda Sicilia della miriade d’impianti incompiuti, dighe, ospedali, teatri, piscine. «I paesaggi danno forma alle nostre vite, formano il nostro carattere, definiscono la nostra condizione umana e se sei attento acuisci la tua sensibilità nei loro confronti, scopri che hanno storie da raccontare e che sono molto piú che semplici luoghi», scrive il regista Wim Wenders.
Il mio è anche un viaggio nel malessere che pervade lo Stato, le istituzioni, la classe dirigente del nostro Paese dal dopoguerra a oggi. Anni che hanno lasciato dietro di loro una devastazione come mai era accaduto in Italia. Non c’è angolo del Belpaese che non abbia il suo monumento alla bruttezza, all’inutile, all’incompiuto. Praticamente non esiste in Italia un comune in cui non sia presente un’opera rimasta a metà oppure abbandonata, come vedrete.
Nella storia della letteratura, dell’architettura e dell’arte vi sono diversi esempi di incompiuto, ma che hanno in sé un’idea talmente potente da donare comunque qualcosa a chi vi si imbatte. Nell’arte, famosi sono gli incompiuti di Michelangelo Buonarroti: i Prigioni, ad esempio, sculture che sembrano librarsi dal blocco di marmo con una forza sovrumana e che erano destinati alla tomba di Giulio II di San Pietro in Vincoli, anche questa una incompiuta che ha segnato la storia dell’arte. Nell’architettura come non ricordare il grande Duomo di Siena, che doveva fare dell’attuale edificio, uno splendore gotico e del primo Rinascimento, un «semplice» transetto della grande chiesa che i senesi sognavano di erigere. Nel Sud, come non citare il monastero dei benedettini di Catania, con le sue possenti colonne rimaste a metà, ma che testimoniano la ricchezza settecentesca dell’Ordine: non è un caso che qui Federico De Roberto immaginò la trama del suo romanzo piú famoso, I vicerè. Nella letteratura le belle incompiute sono tante, da Gogol con Le anime morte a Kafka con America.
L’incompiuto che narriamo in questo volume ci dà piuttosto la sensazione di un degrado profondo che a volte ha a che fare, senza voler esagerare, con la violenza. Non a caso nel mio tragitto da Nord a Sud ho ascoltato tanti cittadini che si sono trovati a vivere accanto a incompiute: sindaci, membri di comitati civici, architetti, che nel descrivere i loro sentimenti utilizzano spesso la parola «violenza». Come il sindaco della Maddalena che definisce la sua comunità «illusa prima e poi violentata da uno Stato che le ha promesso sviluppo e le ha lasciato le macerie di un G8 mai svoltosi in Sardegna». Ma allo stesso tempo, come accade spesso di fronte ad atti violenti e a pubbliche ingiustizie, le comunità si muovono, scendono in strada cercando di fare qualcosa.
Ed ecco che in questo percorso sono decine le storie di chi si è rimboccato le maniche e ha cercato di far «vivere le macerie». Come i volontari di Pragelato per gli impianti abbandonati delle Olimpiadi di Torino o gli architetti che si sono impegnati e si impegnano per restituire alle comunità teatri, giardini, impianti sportivi, come ad esempio nel progetto del rammendo delle periferie lanciato da Renzo Piano e che coinvolge il quartiere Librino di Catania. Storie positive di comunità che non hanno accettato di subire passivamente le scelte calate dall’alto.
Nel nostro viaggio emerge infine un altro aspetto, questo sí irrimediabile: lo spreco. Le opere rimaste a metà non si contano e nemmeno il ministero delle Infrastrutture, che da due anni ha avviato un grande censimento, riesce a contarle tutte e ad avere un quadro chiaro della devastazione compiuta negli anni. Nell’elenco molto parziale e incompleto in possesso del ministero ce ne sono poco meno di mille che, tra somme spese e da spendere per cercare di renderle un minimo fruibili, pesano per 4 miliardi di euro. Ma la cifra dello spreco che raccontiamo in questo volume è molto superiore, almeno 10 miliardi di euro, considerato che nell’elenco ministeriale non compaiono, tra le altre, le opere incompiute del G8 della Maddalena, delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, dei Mondiali di nuoto del 2008, delle Universiadi siciliane del 1997 e nemmeno grandissime incompiute, impossibili da non vedere, come il mega centro turistico di Baia di Campi in Puglia.
Dieci miliardi di euro è una cifra enorme: da sola vale la manovra di Renzi che ha dato 80 euro in piú al mese ai ceti medi o la cassa integrazione per due anni a tutti gli operai che lavorano in aziende in difficoltà. Ma forse, anche in questo caso, si tratta di una cifra per difetto. Confindustria stima un valore per le opere incompiute in Italia e per i grandi cantieri pari al 2 per cento del Pil, il che significherebbe quasi 20 miliardi di euro. In realtà qualsiasi cifra non renderebbe giustizia. Quanto vale in termini economici il danno subito dalle comunità che vivono attorno a queste brutture? Che valore ha il «non servizio» reso da queste infrastrutture? Le opere incomplete sulla prevenzione del dissesto idrogeologico, che raccontiamo ampiamente, quante vite potevano salvare? La vita può avere un valore quantificabile?
Attraversando l’Italia ho provato a far sentire almeno il peso di questo valore incalcolabile, entrando nel cuore di uno scandalo italiano che, come vedrete, non lascia senza colpe alcun pezzo della classe dirigente del nostro Paese degli ultimi sessant’anni: politici, imprenditori, professionisti, docenti universitari, magistrati che non perseguono i colpevoli, cittadini troppo silenti. Tutti attori di un’Italia che sembra essersi rotta al suo interno, nella sua anima civica che dovrebbe sorreggerla. Le leggi sugli appalti sono pessime, almeno questo sostengono imprese e lavoratori nella conclusione di questo nostro cammino, e tutti chiedono che con coraggio questi mostri di cemento – disseminati come i denti del drago di Cadmo in tutta la Penisola – vengano abbattuti. E invece lo Stato – chi dovrebbe servirlo e chi dovrebbe riceverne servizi – subisce silente la violenza dell’inutile e dell’incompiuto. Tutti noi siamo coinvolti in questo scempio. Nessuno è assolto.
Ma quali sono le grandi incompiute d’Italia? Quali storie portano con sé? Chi le ha volute e chi le ha abbandonate? Dove e perché sono state costruite dighe rimaste a secco, ospedali mai aperti, aeroporti per pochi intimi, strade che finiscono nel nulla, ponti impossibili da attraversare? Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, regione dopo regione, ecco i simboli di cemento e incuria che deturpano il nostro Paese.