“Grande è la confusione sotto il cielo”. Contributo alla discussione sul futuro di Liberi e Uguali

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Marco Rota
di Marco Rota – 25 maggio 2018
Da (aspirante) storico sono consapevole che le trasformazioni della società agiscono molto spesso in maniera carsica e sotterranea, procedendo a un livello che potremmo definire “molecolare”, tanto che agli osservatori più concentrati sull’analisi quotidiana tali mutamenti potrebbero apparire come piccole increspature di una superficie quasi immutabile. In questo senso, ogni sforzo di periodizzazione (ossia ogni tentativo di semplificare i processi utilizzando una data simbolica per la loro interpretazione) costituisce sotto molti aspetti un atto di violenza nei confronti di una realtà che ha invece caratteri complessi e molteplici. E’ dunque con qualche diffidenza che mi accingo ad utilizzare le elezioni come spartiacque simbolici di processi di scomposizione e ricomposizione sociale dotati, come detto, di elementi di complessità difficilmente riducibili.
Credo tuttavia che il voto del 4 marzo 2018 abbia per certi versi ribadito una lezione che era già racchiusa nel risultato elettorale del febbraio 2013: a causa dell’esaurimento di un ciclo economico e sociale pluridecennale, culminato con la crisi economica globale, sono venuti meno in maniera definitiva i presupposti che fondavano l’opzione politica del centrosinistra riformista di matrice ulivista.
Parallelamente al crollo fragoroso dei socialismi realizzati nei paesi dell’Europa orientale (e sull’onda della restaurazione neoliberale ben sintetizzata dalle politiche di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher) si era inarrestabilmente fatta strada l’idea che fosse iniziata un’epoca nuova che avrebbe condotto a un benessere diffuso e generalizzato, a patto che venissero assecondate le spinte “naturali” della globalizzazione capitalistica e che fossero interiorizzati i dogmi del pensiero unico neoliberale (cosa che avvenne per la quasi totalità delle organizzazioni politiche italiane ed europee, comprese quelle figlie della tradizione del movimento operaio).
Come è oramai evidente, dietro tale retorica si celava nient’altro che una vera e propria lotta di classe rovesciata, portata avanti dall’establishment economico ai danni della maggioranza delle persone. Una rivoluzione dall’alto avente come tratti salienti imponenti processi di finanziarizzazione, deregolamentazione e mercificazione, condotta all’insegna degli slogan “meno tasse, meno Stato, meno regole”. Lo scontro economico-sociale in atto è stato accompagnato da una battaglia di tipo culturale combattuta attraverso la costruzione di un paradigma morale (e di un universo simbolico) forgiato appositamente per questi tempi moderni, impastato di individualismo, di elogio dell’interesse privato come unico motore dell’agire sociale, e caratterizzato dalla promozione di un’etica dell’intraprendenza, del rischio e della flessibilità.
Oggigiorno, a tutti i livelli del dibattito, la convinzione che tale modello di sviluppo e di convivenza abbia caratteri immutabili e naturali mostra sempre di più la corda. La presa di coscienza che i processi economici di questi ultimi decenni non siano stati adeguatamente governati e la crisi di fiducia nei confronti delle spinte acritiche all’integrazione globale dei mercati (anche per quanto riguarda i caratteri che l’architettura istituzionale europea è venuta assumendo nel corso degli anni) costituiscono altrettanti fattori che portano a considerare esaurita la stagione del centrosinistra riformista, colpito parimenti anche dalla fine del berlusconismo inteso come fenomeno in grado di polarizzare il sistema politico.
Se le elezioni del 2013 avevano sancito la rottura del tradizionale schema bipolare che aveva caratterizzato la seconda repubblica italiana, il voto del 4 marzo ha, a mio giudizio, archiviato in maniera definitiva almeno due ipotesi politiche, non necessariamente alternative fra di loro ed entrambe rese anacronistiche dalla volontà di interpretare questa nuova fase adottando linguaggi, schemi e formule legati invece a un passato più o meno prossimo:
1-Anzitutto una prima opzione che si propone come nostalgica di una mitica età dell’oro pre-renziana. Tale ipotesi (non a caso animata da molti dei protagonisti della scena riformista degli ultimi decenni) punta semplicemente a mettere da parte la leadershipdi Matteo Renzi, considerando l’intera vicenda politica dell’ex enfant prodigecome una parentesi infelice, quasi come se uno spirito maligno si fosse insediato all’interno del Partito Democratico pervertendone la natura originaria.
Nella sua furia restauratrice (per molti aspetti perfettamente speculare a quella rottamatrice, avendo entrambe al proprio cuore una nuda lotta di potere), tale opzione evita accuratamente di considerare come il renzismo costituisca uno dei possibili e perfettamente coerenti approdi di quella traiettoria iniziata con la fondazione del Partito Democratico: partito, ricordiamolo, nato sotto la stella del riformismo neoliberale, culturalmente subalterno a tale visione della realtà sociale (basti pensare alla fascinazione per alcune parole d’ordine come merito,flessibilità, stabilità e responsabilità), fautore di una torsione esecutiva dei meccanismi istituzionali e di sistemi elettorali maggioritari distorsivi della rappresentanza, difensore e garante dello status quo economico e sociale (seppur nel nome di un vago interclassismo).
Esponenti più o meno illustri di tale opzione sono stati i vari nostalgici del prodismo, una buona fetta dei salotti buoni del giornalismo prono all’establishment (il cosiddetto “partito di Repubblica” su tutti), alcuni esponenti del Partito Democratico, e anche una parte di coloro che hanno aderito a Liberi e Uguali, considerata alla stregua di una zattera di salvataggio da utilizzare per traghettare il maggior numero di dirigenti alpha in Parlamento e fungere da sponda esterna per una nuova scalata al Pd (di segno questa volta antirenziano).
2-Parimenti sconfitta è stata inoltre l’opzione (anch’essa ben rappresentata all’interno di Liberi e Uguali, ma non solo) che mirava a proporre ad un elettorato sempre più stanco e disilluso la vera e autentica Sinistra con la S maiuscola, proponendone l’ennesima pallida e astratta versione in stile museo di storia naturale.
Un’ipotesi che non solo non tiene conto dell’ormai scarsa funzionalità della dicotomia destra-sinistra come strumento di interpretazione della realtà politico-elettorale, ma soprattutto evita di considerare come ormai agli occhi di una parte delle persone (in particolar modo fra le frange meno politicizzate in senso tradizionale) la Sinistra costituisca un significante, nel migliore dei casi logoro e vuoto, e nel peggiore dei casi del tutto negativo, a causa del segno antipopolare di molte delle riforme realizzate negli ultimi decenni.Perfettamente esemplificative di questa riproposizione manierista e scolastica della Sinistra sono, per esempio:
-La declinazione della questione immigrazione esclusivamente in chiave umanitaria e di civiltà, dalla quale deriva una complessiva incapacità di controbattere con forza al sorgere di un senso comune xenofobo, securitario e contrassegnato dalla mancanza di empatia verso le sofferenze altrui. Allo stato attuale, l’accento posto in maniera pressoché esclusiva sulla cittadinanza civile (sulla cui importanza non vorrei essere frainteso) risulta tuttavia incapace di immaginare quali potenti veicoli di cittadinanza possano essere, per esempio, l’istituto di un salario minimo di categoria oppure la lotta serrata per lo smantellamento dei diversi meccanismi che spingono verso il basso i diritti dei lavoratori (i contratti cosiddetti “rumeni” per esempio), integrando tali rivendicazioni in una visione maggiormente organica ed efficace del fenomeno migratorio, così da contrastare alla radice le narrazioni che puntano a mettere gli uni contro gli altri i lavoratori sulla base dell’appartenenza etnica.
-O ancora, porre come elemento centrale della propria battaglia riguardo le politiche del lavoro la reintroduzione dell’articolo 18: tale rivendicazione (malgrado rappresenti una posizione del tutto legittima e condivisibile) si configura tuttavia come una battaglia esclusivamente di tipo difensivo e restaurativo, priva della spinta propulsiva e della forza che invece avrebbe una proposta maggiormente organica, orientata oltre che al ripristino di alcune delle garanzie che negli anni sono state cancellate, a disegnare un assetto complessivo di tutele che coinvolga anche fasce di lavoratori precedentemente escluse.
Venendo alla discussione sul futuro di Liberi e Uguali, personalmente credo che affrettarsi a costruire un partito unico senza prima aver esplicitato, discusso e sciolto alcuni nodi politici determinati dalle diverse sensibilità che hanno dato vita al cartello elettorale sarebbe un errore. Dio solo sa quanto i militanti sul territorio avrebbero bisogno di una comunità politica strutturata e che “funzioni”: con cariche stabilite, competenze precise, processi di partecipazione, capacità di mobilitazione, comunicazione efficace, una catena delle informazioni che funzioni a tutti i livelli e che dia respiro al dibattito interno. Proprio per questo comprendo le ragioni di coloro, specie fra i militanti, che lamentano la paralisi organizzativa che Liberi e Uguali ha vissuto nelle settimane successive al voto. Mi sembra anche chiaro che l’inazione dei gruppi dirigenti non sia dovuta solo al dilettantismo o alle spinte all’autoconservazione (fattori comunque da non escludere), quanto piuttosto alla reale incapacità di formulare una prospettiva unitaria data la sostanziale divergenza di vedute su numerose questioni.
Un partito non è solo un’organizzazione ma è anche e soprattutto un’idea, una visione condivisa. Ad oggi credo che sia fondamentale porsi domande difficile e complesse, senza troppe certezze sulle risposte e soprattutto senza verità di comodo da raccontarsi, come quella che ci vede tutti concordi sui fondamentali della nostra azione politica quando sappiamo che così non è. In assenza di una discussione che affronti le profonde diversità che esistono all’interno di Liberi e Uguali (e che hanno in tutta evidenza paralizzato e reso poco chiara ed efficace la nostra campagna elettorale), precipitarsi a fondare l’ennesimo partito unitario e plurale della sinistrasignificherebbe semplicemente limitarsi a decretare la supremazia di un gruppo dirigente, col risultato che molto probabilmente tale soggetto unitario coverebbe entro di sé già alcune scissioni pronte a palesarsi al primo bivio politico.
Da troppo tempo siamo prigionieri di una coazione a ripetere che ci porta a cambiare vorticosamente nomi, forme e bandiere, come profetizzato dal Bertinotti interpretato da Corrado Guzzanti. Facciamo in modo che la prossima costituente sia quella giusta, capace di porre una serie di punti stabili che ci consentano finalmente una battaglia per l’egemonia sensata, coerente e capace di misurarsi sul medio-lungo periodo. Ad oggi dentro Liberi e Uguali esistono visioni profondamente diverse riguardo questioni tutt’altro che marginali: giudizio sul processo di integrazione europea e conseguente posizione da assumere in merito (riforma dei Trattati, Plan B..); posizionamento politico europeo (PSE, Sinistra Europea, Diem25, Patto di Lisbona); rapporto con il Pd e col M5S; lettura sufficientemente condivisa degli ultimi 30 anni della storia italiana, in particolare riguardo la stagione del centrosinistra; appoggiare o meno un (ormai non più) eventuale esecutivo tecnico promosso dal Presidente della Repubblica; posizione da tenere riguardo le elezioni locali (i casi del Lazio e del Friuli sono sotto gli occhi di tutti); in caso di elezioni anticipate (che ormai sembrerebbero scongiurate) sarebbe opportuno varare un listone-argine col Partito Democratico inventandosi ad uso e consumo mediatico un “Annozero” o un Big Bang lampo?
Aggiungo che secondo me non basta discutere dei nodi politici sopra detti (contemplando perfino la possibilità che non vi siano le condizioni per proseguire il rapporto fra le tre forze che compongono LeU), ma è fondamentale che si produca un sensibile scarto rispetto ai binari su cui sembra viaggiare oggi un eventuale congresso fondativo: un processo costituente al contempo troppo angusto ma soprattutto privo della carica innovativa che sarebbe necessaria per fondare un partito politico capace di interpretare il tempo presente. Proprio per questo credo sarebbe essenziale allargare la discussione, provando a coinvolgere anche altre realtà politiche più o meno strutturate, a partire dalle Coalizioni Civiche nate sul territorio nazionale, dall’esperienza napoletana di De Magistris, agli animatori del percorso del Brancaccio, alle forze che compongono Potere al Popolo.
I tempi per una rottura profonda con il passato che abbiamo alle spalle mi sembrano essere arci maturi: talmente maturi che quell’onda di rinnovamento che la “sinistra” avrebbe dovuto farsi carico di costruire oggi viene rappresentata (in forme sicuramente discutibili) dal Movimento 5 Stelle e addirittura dalla Lega (curiosamente il partito più vecchio d’Italia, mentre nel frattempo a sinistra si sono prodotte decine di “nuovi” inizi). Consapevoli che non si riparte mai da zero, occorre tuttavia avere il coraggio di tirare una linea e provare a scrivere una pagina davvero nuova rispetto agli ultimi decenni: tagliare finalmente la testa al serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-Ulivo-PD, e parallelamente uscire dall’ossessione identitaria che, dalla nascita di Rifondazione Comunista, ha condotto al proliferare di decine di movimenti “autenticamente” comunisti impegnati ad adorare le ceneri, spesso in assenza di un fuoco da custodire. Solo così, a mio modo di vedere, sarà possibile uscire dalle trincee in cui la nostra iniziativa politica è precipitata da decenni, vedendoci impegnati a combattere battaglie difensive e conservative dopo troppi anni di sconfitte politiche, sociali, culturali e simboliche.
Occorre infine prendere atto che non è solo con un’azione efficace che si costruisce un’egemonia, ma soprattutto servono una buona dose di coerenza e di credibilità agli occhi dell’elettorato. Per costruire una forza politica che miri ad un cambiamento radicale dell’esistente (talmente radicale che non esiteremmo a usare il termine rivoluzione) non si chiede il permesso. Occorre decidersi ad agire prescindendo dal dibattito interno al PD, pena il ridursi a commentatori esterni dei congressi altrui o peggio incatenarsi a un destino di eterni junior partnerdel riformismo neoliberale. Bisogna dare per scontato che non potremo contare sulle simpatie e l’appoggio dei media liberali più o meno progressisti, come sempre interessati a catalogare tutto secondo i loro schemi e a determinare perimetro e linguaggio di ogni dibattito.
Malgrado tutte le contraddizioni e le inevitabili differenze rispetto all’Italia, in altre parti d’Europa le persone che come noi hanno cuore come noi l’uguaglianza, la giustizia sociale, la cooperazione e il comunefra le persone hanno compreso l’importanza di rompere apertamente con le politiche moderate e al ribasso degli ultimi decenni: sono stati in grado di coniare un linguaggio nuovo, di foggiare un immaginario ed un’estetica del riscatto riconoscibili, hanno proceduto a innovare radicalmente le forme dell’organizzazione e della azione politica, rivendicano esplicitamente e senza tentazioni elitiste una connessione sentimentale con il popolo, ma soprattutto hanno compiuto il passo decisivo individuando il referente della propria azione politica nella gente comunepiuttosto che nella gente di sinistra, nel 99% della società invece che nel 3% del corpo elettorale.
Indubbiamente occorre prendere atto che non esistono formulepret a porter che consentano di costruire organizzazioni potenti e adatte a solcare i tempi in cui viviamo. Essenziale però è capire se anche in Italia, finalmente, saremo capaci di collocare il nostro pensiero e la nostra azione entro questo solco.
“Uno dei difetti della sinistra è il suo eterno attaccamento ai dibattiti storici, la sua tendenza a tornare in continuazione su roba tipo Kronstadt o la NEP piuttosto che pensare alla pianificazione e all’organizzazione di un futuro in cui credere davvero […] La crisi è un’opportunità: ma va trattata come una straordinaria sfida speculativa, come lo stimolo per un rinnovamento che non sia un ritorno”.
Mark Fisher
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