Governo Renzi, vento di disappunto

per Gabriella
Autore originale del testo: Alessandro Gilioli
Fonte: l'Espresso
Url fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/

di Alessandro Gilioli   18 giugno 2016

A Milano il candidato del centrosinistra Beppe Sala ha chiuso la campagna elettorale con l’arma finale: chi va a votare sceglie me e non Renzi, ha detto, e sarebbe follia far vincere il centrodestra per dare una lezione al premier.

L’arma finale: cioè la presa di distanza – nei limiti del possibile – dal capo del governo che l’ha tanto voluto sindaco, inventandolo come politico dopo una carriera da manager bipartisan.

Sala ha capito – o qualcuno gli ha suggerito – che il problema è quello, per lui: essere percepito come espressione del governo, dell’establishment, dello status quo. Essere rinchiuso in un referendum tra il “va tutto bene così” e il “bisogna rovesciare tutto”. Perché, nel caso, è facile che vinca la seconda opzione.

Del resto a Roma, dove questa dinamica è già predominante, non c’è quasi più gara. Virginia Raggi potrebbe pure trascorrere la vigilia del voto per strada a prendere a ombrellate passanti a caso: vincerebbe lo stesso. Altro che consulenze Asl, altro che praticantato da Previti, altro che contratto firmato con lo staff. Perché a Roma Raggi è vissuta come alternativa radicale al passato e al presente. A vent’anni in cui centrodestra e centrosinistra si sono alternati dando il peggio di sé. Ma anche, più in generale, a “quelli che comandano” nei palazzi della politica nazionale e in quelli ancora più opachi dei poteri economici, finanziari, burocratici all’estero.

Il povero Giachetti ha provato a combattere questa percezione dall’inizio. “Mentre loro mangiavano io digiunavo”, diceva uno dei primi slogan della sua battaglia, disperato tentativo di differenziarsi dal suo partito e dai suoi sponsor. E poi “Roma torna Roma”, diceva il suo claim, immaginandosi un mitico e lontano passato in cui tutto andava bene, pur di mostrare di non avere a che fare con il presente.

E poi i continui riferimenti ai Radicali e a Pannella, per evidenziare l’appartenenza a un’area di protesta e non di governo, a un partito corsaro e non di Palazzo, precursore dei Cinque Stelle nelle battaglie contro “la Casta”. Perfino al referendum sulle trivelle è andato a votare, Giachetti, pur di differenziarsi dal Capo. E a chi in privato gli suggeriva di prendere le distanze da Renzi per risalire nei sondaggi, il candidato stazzonato rispondeva: “Ma cosa posso fare di più, insultarlo, ammazzarlo?”.

Senza dire, infine, di Napoli e Torino. In Campania l’identificazione del Pd con l’establishment e i suoi imbrogli ha spalancato la strada al protestatario De Magistris senza che nemmeno ci fosse bisogno di far troppi bilanci della sua amministrazione. In Piemonte il buon Fassino ha parlato per tre mesi solo di tombini e semafori – insomma questioni locali – schivando con antica abilità ogni riferimento a Renzi: chissà se gli basterà.

Eppure anche se interpretassimo il voto di domani solo come una contestazione trasversale a Renzi – chiamato alla sua prima vera prova di accountability visto che alle europee era arrivato freschissimo di mandato e di 80 euro – probabilmente vedremmo solo una parte, non il tutto.

Perché il tutto è una tendenza europea e ormai anche americana: cioé il macrofenomeno che vede l’ex ceto medio, le ex “aristocrazie proletarie” e le generazioni più giovani tutti polverizzati in un’insicurezza globale, in un precariato che ormai è perfino più esistenziale che lavorativo, in un’atomizzazione senza più organizzazione di interessi (ah, che bella idea, la desertificazione dei corpi intermedi e dei sindacati), in una privazione di incidenza della propria rappresentanza elettorale, in un peggioramento concreto delle proprie concrete condizioni di vita e soprattutto in un vuoto di speranze.

Non è così strano che in un contesto così prevalga il voto “contro”, quando si supera la tentazione di non andare alle urne. E questo voto contro va a chi sa meglio canalizzare la rabbia (Trump, Le Pen…) o riorganizzare la speranza (Sanders, Podemos…).

In Italia oggi i candidati del Movimento 5 Stelle (ma anche De Magistris a Napoli) sono una via di mezzo, tra queste due cose: canalizzazione della rabbia e riorganizzazione della speranza. Loro, i Cinque Stelle, si proclamano come la seconda cosa e anzi si offendono se dici che prendono voti solo per protesta. Ma i meno ingenui sanno di essere (ancora?) un misto delle due cose. Probabilmente questa via di mezzo è un’altra delle ambiguità del Movimento 5 Stelle: ma è anche il motivo per cui probabilmente vinceranno a Roma (e forse non solo). Mescolando rabbia e speranza, appunto.

Di fatto c’è che anche l’Italia, a modo suo, è dentro quel processo europeo e nordamericano in cui la vecchia dinamica “centrodestra versus centrosinistra” viene soppiantata da quella nuova di “establishment versus anti-establishment”.

Dove il primo insieme è chiaro e sottende l’egemonia politica, culturale ed economica che ci ha portato fin qui: Wall Street, Bruxelles e Francoforte, certo, ma anche le larghe intese worldwide proclamate o di fatto, gli ex partiti socialisti che al massimo attenuano il volto più feroce dello status quo, e così via; mentre il secondo è una galassia di cose pessime, di cose ottime e di cose miste. Di rabbie e speranze, appunto.

Il tutto è un interregno, certo: un equilibro provvisorio. Da cui emergeranno nuove e meno instabili geometrie politiche, chissà quali.

Ma qui siamo, adesso, anche in Italia.

In modo profondo laddove più forte è il disagio quotidiano e dove peggiori sono state le esibizioni dell’establishment, come a Roma; in modo meno violento ma tuttavia non invisibile nei luoghi dove maggiore è il benessere economico e minore la rabbia del basso verso l’alto, come a Milano.

Ma anche qui, nella città da cui oggi scrivo, il candidato d’establishment Sala è costretto a rimarcare di non essere Renzi, cioé il governo centrale; e anche qui il desiderio di altro (qualsiasi altro) gonfia le speranze del candidato alternativo, pur essendo questo tutt’altro che estraneo all’establishment economico e politico.

L’avete letta l’Amaca di Michele Serra di oggi, su Repubblica? Racconta di un taxista che dice di voler votare Parisi adducendo una ragione che poi si rivela falsa (il vecchio politico che dice di voler mandare a casa sta proprio con Parisi, non con Sala); ma nonostante il disvelamento di questo equivoco poi conferma che voterà Parisi lo stesso, perché «si vede che mi va così».

Serra un po’ se ne turba, perché ne conclude che ormai «i fatti contano zero di fronte a umori a briglia sciolte, al vento di generico disappunto e di malanimo a prescindere».

La mia opinione invece è che i fatti che portano il taxista di Serra a votare contro il presente – chiunque lo rappresenti – siano altri, rispetto a quello equivocato, e molto fondati, molto robusti, per quanto forse presenti in maniera vaga e disordinata alla coscienza dello stesso taxista.

E aggiungo che finché i fatti saranno questi – finché non saranno radicalmente modificati – ci sarà pochissimo da stupirsi per tutti questi voti dati in nome del ‘disappunto’ e del ‘malanimo’.

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