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GLOBALIZZAZIONE E DECADENZA INDUSTRIALE – di DOMENICO MORO – ed. IMPRIMATUR
recensione di Marco Palazzotto
Il concetto di globalizzazione viene sempre più utilizzato per descrivere vari fenomeni tipici del capitalismo contemporaneo. Lo stesso concetto viene poi declinato all’interno delle diverse correnti politiche onde sostanziare le rispettive letture della realtà.
L’obiettivo di questo breve contributo vorrebbe essere quello di chiarire alcuni aspetti del dibattito a sinistra, partendo dalla lettura del recente testo di Domenico Moro Globalizzazione e decadenza industriale. L’Italia tra delocalizzazioni, «crisi secolare» ed euro (Imprimatur, 2015).
Se vogliamo partire da una definizione accettata comunemente, secondo l’enciclopedia Treccani online per ‘globalizzazione’ s’intende l’insieme di fenomeni che a partire dagli anni Novanta ha stimolato la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo. In economia, per quanto riguarda i mercati, si assiste ad una unificazione a livello mondiale grazie anche alla diffusione delle innovazioni tecnologiche. Scompaiono le differenze nei gusti dei consumatori, che si unificano alle preferenze guidate dalle multinazionali. Le imprese sono in grado di sfruttare meglio le economie di scala nella produzione, distribuzione e marketing, praticando politiche di bassi prezzi per penetrare in tutti mercati.
Spesso il concetto viene usato come sinonimo di liberalizzazione. A cavallo tra XX e XXI secolo il progresso tecnologico, sempre più veloce, ha ridimensionato le barriere naturali agli scambi e alle comunicazioni, contribuendo alla forte crescita registrata dal commercio internazionale e degli IDE (Investimenti Diretti all’Estero). In particolare, la diffusione delle tecnologie informatiche ha favorito i processi di delocalizzazione delle imprese e lo sviluppo di reti di produzione e di scambio sempre meno condizionate dalle distanze geografiche, alimentando la crescita dei gruppi multinazionali e i fenomeni di concentrazione su scala mondiale; ha favorito inoltre un’espansione enorme della finanza internazionale.L’imperialismo globale
Si è scelta la definizione della Treccani per partire da un’accezione generalmente condivisa del concetto. Il testo di Domenico Moro, invece, ci consente una panoramica da un punto di vista di classe.
Secondo Moro globalizzazione è sinonimo di internazionalizzazione, la quale in Italia ha prodotto una desertificazione industriale: smantellamento del sistema produttivo statale per spostare i capitali manifatturieri verso i monopoli naturali (pag. 39).
Il testo è utile per capire in che misura possa la globalizzazione – nell’accezione di Moro appena chiarita – spiegare la grande crisi iniziata nel 2008. La globalizzazione in questo senso va considerata strumentale rispetto al processo di accumulazione allargata: Moro si serve delle categorie marxiane per spiegare la crisi che ha accentuato i fenomeni di concentrazione e centralizzazione capitalistica. Questo cocktail di maggiore internazionalizzazione finanziaria e produttiva, conseguente all’aumento dei monopoli, ha fatto esplodere la tipica crisi latente da caduta tendenziale del saggio di profitto. Esportazione di capitale, centralizzazione e concentrazione produttiva, sono considerate controtendenze a tale caduta.
Infine l’Euro, come strumento dell’accumulazione allargata, rappresenta la leva principale del capitalismo europeo per contrastare la caduta tendenziale.
Questa globalizzazione per Moro è una forma d’imperialismo non più su base nazionale, bensì un vero e proprio imperialismo globale. Ciò non elimina il ruolo degli Stati nazionali, bensì aumenta la contraddizione tra paesi emergenti e paesi imperialisti. La “territorialità” sopravvive per garantire proprio l’internazionalizzazione e l’accumulazione globale del capitalismo (pag. 224).
Il periodo “pre-postmoderno”
1. Internazionalismo?
Secondo l’interpretazione che ha monopolizzato il dibattito nella sinistra radicale a partire dagli anni Novanta e la lettura del capitalismo del nuovo millennio, la globalizzazione de-territorializza l’impresa e ne snellisce l’apparato burocratico. I costi si riducono con il conseguente aumento di profitti. Le scorte si azzerano secondo il modello toyotista e l’intervento dello stato keynesiano del fordismo scompare, lasciando il posto al controllo del capitale fuori dai territori nazionali. La massa di disoccupazione creata dallo snellimento produttivo, l’efficienza del lavoratore rimasto in fabbrica e la viepiù crescente de-materializzazione della prestazione lavorativa – che lascia molto spazio al lavoro autonomo – provoca una ‘fine del lavoro salariato’, confermando la previsione di studiosi come Rifkin.
Tuttavia, secondo molti analisti le caratteristiche effettive del nuovo capitalismo sono diverse rispetto a quest’ultima lettura, e, volendo fare un confronto con il secolo scorso, le categorie novecentesche sono ancora utilizzabili.
Per quanto riguarda l’internazionalizzazione del capitale, una delle principali caratteristiche della globalizzazione per come viene descritta riguarderebbe l’aumento del commercio estero e dunque l’aumento della mobilità di merci e persone (migrazioni). In realtà, se si leggono bene i dati, gli anni ’90 del secolo scorso (anni in cui il dibattito sulla globalizzazione ha raggiunto il suo culmine) non presentano dinamiche molto dissimili rispetto alla fine dell’800.
Il commercio tra 1899 e 1911 crebbe del 3,9%, contro il 3,4% tra il 1977 e 1990, mentre il dato più alto lo abbiamo tra il 1950 e 1973, in cui si è raggiunto il 9% (periodo pienamente fordista).
I flussi migratori di fine ’800 rimangono senza paragoni nella storia. Tra il 1814 e 1914 si muovono circa 100 mln di persone di cui 60 mln europei (Riccardo Bellofiore in Il Lavoro di domani – Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, BFS 1998, curato dallo stesso Bellofiore).
Le nazioni inoltre continuano ad avere un ruolo cruciale. Infatti, il commercio si è specializzato in aree geografiche in cui le multinazionali hanno ancora una base, un cuore, e un cervello nazionali. Semmai il cambiamento che c’è stato potrebbe riguardare la sostituzione dell’aggettivo ‘nazionale’ con ‘regionale’. E mi riferisco al cuore produttivo mondiale che rimane sempre nella cosiddetta “triade”: USA, Europa e Asia.
Se consideriamo i 100 influencer, ovvero le prime 100 corporation in termini di fatturato, si scopre che questi sono controllati da consigli di amministrazione saldamente in mano a manager di origine statunitense, europea e cino/giapponese.
“L’impresa nomade” quindi non esiste, come non esiste il capitale produttivo nomade: semmai assistiamo all’affermarsi di un capitale finanziario più mobile.2. Post-taylorismo?
Una delle conseguenze teoriche della narrazione utilizzata a sinistra del nuovo corso del capitalismo riguarda “l’era del post-fordismo”. Nella produzione dei beni cambia il modello taylorista della specializzazione dell’operaio nella catena produttiva. È soprattutto l’esperienza giapponese di fine secolo a introdurre elementi di rottura: la cosiddetta produzione snella, che è il combinato dell’azzeramento delle scorte con il just in time e il miglioramento continuo del kaizen o qualità totale. Questo nuovo modello snellisce la catena produttiva con la riduzione dei quadri estranei alla produzione e sponsorizza la specializzazione multidisciplinare degli operai che li avvicina molto agli artigiani accompagnati da macchinari altamente flessibili. Così la catena di montaggio in cui l’operaio svolgeva solo una mansione ben specifica nella produzione del bene di consumo si sostituisce con l’operaio multidisciplinare, così che nella fabbrica convivono diverse unità produttive autonome.
Anche il conflitto dentro la fabbrica cambia. Il lavoratore ha notevoli possibilità di carriera legate all’anzianità; il sindacato non è più nazionale bensì d’impresa. Vi ricorda qualcosa? Agnelli già negli anni ’90 anticipò che il Modello Giapponese era quello da seguire. E così fu nelle fabbriche italiane. Il modello sindacale aziendale venne calato nella realtà di fabbrica, anche grazie alla complicità dei governi italiani. Ci ritroviamo così una parcellizzazione contrattuale in unità produttive diverse, ma sottoposte allo stesso comando. Un operaio di Pomigliano ad esempio produrrà le stesse cose di un operaio serbo, ma lavorando con un contratto diverso (centralizzazione senza concentrazione – R. Bellofiore 2010; J. Halevi 2010).
La conseguenza di questo modello è che vengono concessi ai lavoratori una conoscenza maggiore ed un certo controllo del processo produttivo, per ottenere in contropartita una maggiore saturazione degli impianti. Si ha quindi un’intensificazione del lavoro e ogni spazio di tempo libero è eliminato (ricordate le vertenze di qualche tempo fa a Pomigliano sulle pause?). Il controllo maggiore del processo produttivo, che aumenta la produttività degli impianti ed elimina le scorte, provoca un controllo maggiore sul lavoratore ed un conseguente aumento del saggio di sfruttamento dello stesso.
In pratica il lavoratore qualificato è subordinato al meccanismo di accumulazione non meno dell’operaio-massa di un tempo. Si assiste a una eliminazione del conflitto dietro il velo della qualità. Una vittoria del comando imprenditoriale che non ha eguali.
3. Fine del lavoro?
Altro elemento dell’interpretazione ‘postfordista’ è la riduzione del lavoro direttamente subordinato, grazie al modello appena descritto (più macchine e quindi bisogno di meno operai) e l’aumento del lavoro autonomo, eterodiretto, ma con contenuti relazionali e informativi. La caratteristica del modo di produzione capitalistico non sta però nella forma giuridica del lavoro e nella sua retribuzione. La differenza va vista sotto due aspetti. L’accesso alla liquidità segue la vendita della forza-lavoro e non la precede come si fa invece nel rapporto capitalista-lavoratore (l’anticipo del capitale è delegato al lavoratore ma non scompare); il secondo aspetto è che l’intermediazione del mercato “nasconde” la relazione di dipendenza (Cfr. R. Bellofiore, ibidem).
Il lavoro sta perciò scomparendo? Ma quando mai. Dopo il 1974 si assiste piuttosto a un aumento di produzione job intensive rispetto all’era del fordismo .
La World Bank calcola che si è passati da 1,329 mln di lavoratori del 1965 a 2,470 del 1995 e si prevede che nel 2025 arrivino a 3,65 mln. Stesso discorso per il tempo di lavoro, che aumenta e non diminuisce, come ci vogliono far credere alcuni studiosi. Il lavoratore in conclusione non tende a scomparire, ma a crescere in una situazione di maggiore disoccupazione, di precarietà ed esclusione.
La globalizzazione sembra pertanto rappresentare la forma moderna dell’imperialismo, inteso ancora come “fase acuta” del modo di produzione capitalistico.