Gli scrittori e il buon selvaggio. Glosse a Paola Mastrocola

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti
Fonte: Il Sole 24 ore

di Alfredo Morganti – 1 agosto 2018

Se proprio volete sapere quale sia lo stato dei cosiddetti “ceti medi riflessivi” in Italia, leggetevi l’articolo che linko di Paola Mastrocola. In questo suo intervento per il Sole 24 Ore, il giornale della Confindustria, la “distanza” tra intellettuali e vita quotidiana, tra “scrittori e popolo”, parafrasando Alberto Asor Rosa, è esemplarmente raffigurata. Andate a leggere come la Mastrocola descrive la vita del “popolo” e delle “periferie”: “Parlo dei ceti più deboli, degli italiani che faticano a sopravvivere e abitano in quartieri periferici o degradati, dove subiscono spesso furti e aggressioni. Hanno paura ogni sera di tornare a casa, si sentono stranieri nelle loro città, nei loro quartieri, nella propria casa, nelle classi dei loro figli, accerchiati da altre lingue, altri costumi, altre religioni. Mai protetti, e per giunta additati come razzisti, ignobili, ingenerosi. Sono vittime anche loro. Ma vittime nostrane, italiane, «bianche»: troppo simili a noi, troppo poco esotiche?”.

Ecco. Sembro io che parlo di un safari in Africa o di un’arrampicata sul K2, potete immaginare con quale cognizione di causa. È il modo in cui gli scrittori, gli intellettuali, i benestanti ‘riflessivi’ descrivono l’inferno altrui. È un modo anche tranquillizzante di farlo: quell’inferno lo si allontana dalle proprie case, dai propri quartieri centrali o semicentrali, dalle proprie abitudini, dalla propria alimentazione biologica, dai propri viaggi, dalle proprie letture, dalle relazioni sociali beneducate almeno in apparenza. L’inferno è sempre altrove, mai in casa propria. Nelle cosiddette ‘periferie’ (che oggi sono luoghi cool, purché non ci si abiti davvero), nei ceti popolari, in quei presunti spazi bui, oscuri, in cui si muoverebbe un’umanità reietta, accerchiata, una maggioranza silenziosa che non può parlare perché verrebbe quotidianamente minacciata e sparata in strada (!). Leggete bene l’articolo e guardate che psicologia ne esce: percepisci il tentativo di configurare e assicurarsi la sicurezza del proprio mondo, contrapposto all’imperversare dei leoni che scorrazzano in quello oltrecortina.

Eccoli i nostri scrittori, quelli che vincono premi e intervengono nelle radio o sui giornali. Eccoli. Sembra che vadano verso il ‘popolo’ (“io sto con i contadini, i panettieri, gli idraulici, gli operai e gli imbianchini” scrive la Mastrocola, sembra D’Annunzio che va “verso la vita”). Ma poi lo raffigurano in termini infernali, parlano dei loro quartieri come di una jungla, ne dipingono la vita quotidiana come l’estremo dei pericoli, in un format appreso dalla stampa, dai tg o direttamente dai serial tv. I nostri ‘ceti medi riflessivi’, i nostri scrittori, prima ancora che rassicurati e conficcati nel loro mondo, non sanno nulla di quello altrui, lo deducono mediaticamente, se lo immaginano, ne parlano furiosi, commossi o malinconici a seconda degli umori o della polemica in corso. Ma poi non studiano, non frequentano, sanno poco dell’inferno che pure paventano. Non sanno nemmeno che c’è molta periferia anche in centro, anche nelle loro case, in termini di degrado, scarsa coesione sociale, solitudine, distanza, sporcizia, traffico, aria malsana e che l’inferno è come un destino che più o meno tocca a tutti, così come tocca a tutti anche un po’ di paradiso.

Questi quartieri lontani, di cui si parla e si favoleggia, non sono quel luogo dove ti sparano solo a mettere il naso fuori dalla porta. Sono posti dove le esperienze di condivisione, di cura, di mescolanza, di scambio sono molto più fertili che nelle roccaforti centrali, dove invece si leggono buoni libri, ci si tappa in casa a tripla mandata e c’è la stanzetta per la colf col bagno a parte. Come al solito, meno hai esperienza delle cose più ne hai un’immagine derivata. Meno frequenti ‘negri’ e stranieri, e più li temi. Il suprematismo bianco cresce laddove i bianchi sono la quasi totalità. Tipico. E allora si va ideologicamente verso un ‘popolo’ che non si conosce e forse non esiste, e si parla di un mondo cupo e surreale, senza uno straccio di dati, solo esercitando stile di scrittura e retorica. Questa d’altronde è un’epoca dove l’esperienza scompare surrogata da mere deduzioni mediali e dalla più totale astoricità.

Mastrocola accenna persino a Fichte, e dice che quelli che si autoproclamano ‘Buoni’ creano, a loro vantaggio dialettico, il mondo negativo dei “Cattivi” dove confinano tutti gli altri, salvandosi così moralmente. Usa proprio la formula del filosofo tedesco, quella dell’Io che pone un Non-Io. Due anni fa ho pubblicato un libro di poesie (‘Roma e Non Roma’) dove scrivo delle borgate e di quel pezzo di Roma oltre GRA dove sono nato e dove ancora abito. L’ho chiamato Non Roma. Non per suggerire che sia un mondo ‘costruito’, fittizio, quanto per dire che i “romani”, gli intellettuali, i politici, gli studiosi non sanno più come definirlo, se non in termini di degrado e paura, nonostante esibiscano anche numeri e tabelle a iosa. Il ‘non’ non indica artificiosità intellettuale, ma una effettiva incapacità di definizione. Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, insomma.

Perché? Perché nelle cosiddette ‘periferie’ c’è di tutto: lo sviluppo e l’arretratezza, la sanità e la malattia, la gioia e la sofferenza, il bianco e il nero, avviluppati tra loro ma ancora distinguibili a volerlo fare. Perché le periferie non sono il ‘mito delle periferie’ di cui parlano gli scrittori e certi politici di nicchia, ma sono un ambito in cui le contraddizioni sono vive ed evidenti al massimo grado. E sulle quali si dovrebbe lavorare come nell’abc della politica. Le mitologie, invece, appianano le contraddizioni, conferiscono univocità narrativa, risolvono. Parole come ‘periferia’ e ‘popolo’ sono i massimi termini risolutori e “alliscianti”. Bisognerebbe studiare allora, fare esperienza, cogliere le differenze, approssimarsi alle contraddizioni e non raffigurarle come dedotte in un mito di genere infernale o in quello antico del buon selvaggio. Il fatto che si chiami Non Roma, che sia più povera, più lontana, più sofferente, meno acculturata di Roma, non vuol dire che sia un inferno da cui non ci si possa riscattare, e dove gli abitanti siano “accerchiati”, minacciati, senza socialità, senza vitalità, e prima o poi finiscano morti ammazzati a opera di qualche ‘negro’, lo stesso che prima ci aveva accerchiato con la sua lingua.

PS. Detto ciò, dei “ceti medi riflessivi” abbiamo un assoluto bisogno, non sperculateli in nome di una mitologia ‘popolare’. In un mondo in cui la conoscenza e gli specialismi e l’alfabetizzazione sono tutto, affidarsi solo al mito del buon selvaggio sarebbe un’idiozia. Sarebbe un regalo per i nostri avversari, a partire dalla Confindustria che ospita sul suo giornale il pezzo della Mastrocola (mentre non c’è più in Italia un giornale del lavoro). Sarebbe un bel dono oggi che anche i social sono casematte da conquistare – e la battaglia per l’egemonia (do you remember?) non si fa solo grugnendo slogan durissimi contro l’Europa, la Merkel e gli immigrati sui barconi (mentre di quelli che arrivano in aereo nessuno parla) e dipingendo di nero il mosaico di colori periferico.

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Ecco l’articolo di Paola Mastracola, su Il Sole 24 Ore del 30 luglio 2018

Quel muro tra buoni e cattivi

Mi piacerebbe intervenire nel dibattito, scottante, sui migranti. Dire come la penso, tra amici, conoscenti, vicini di casa, magari a una cena, o nell’atrio di un cinema. Ma non lo faccio quasi mai. Mi sembra di avere un muro davanti, dove non riesco a trovarmi un varco. Un muro di frasi fatte, parole d’ordine, formule precostituite. Mi sembra che le persone ormai girino con questo muro attorno, senza accorgersene. Almeno, le persone che mi capita d’incontrare, di frequentare maggiormente. Dovrei dire le persone che fanno parte del mio mondo, ma che non saprei bene come definire. I ceti abbienti? Gli istruiti? I benestanti, i professionisti? Sì, un misto di tutto ciò, e altro, anche gente non così istruita e non così benestante, più media. E anche le punte estreme, intellettuali, scrittori e studiosi e giornalisti, noti e meno noti. Non so. Dovrei dire «ceti medi riflessivi», per usare l’espressione di Ginsborg, che mi sembra la migliore ma comunque non mi soddisfa.

Di queste persone mi disturba l’appartenenza aprioristica, il disprezzo per l’altro, il parlare per formule, le parole d’ordine con cui riconoscersi: se le usi, bene, appartieni allo stesso reggimento. Se non le usi, sei fuori: appartieni ipso facto all’esercito nemico. E quali sarebbero, poi, questi due eserciti? Credo che non esistano. Credo che esista una sola parte, che si è creata l’altra. Un po’ come, in Fichte, l’Io oppone a sé il Non-io. Voglio dire che emerge una sola rappresentazione delle cose, ed è la rappresentazione che la minoranza che si sente eletta ha dato, una volta per tutte e fin dall’inizio. In questa rappresentazione unica e univoca ci sono due schiere contrapposte. Ma in realtà ce n’è una sola, che ha costruito l’altra. Così, da una parte, per dirla in breve, ci sono i buoni dell’accoglienza-tolleranza-solidarietà; e dall’altra i cattivi della morte, desolazione, disuguaglianza, egoismo, sopruso, disprezzo della vita umana. E le due parti sono drasticamente definite: nella prima schiera intellettuali, scrittori, giornalisti, professionisti d’ogni genere paladini del Bene: i pochi, «illuminati»; e nella seconda il popolo bruto e rozzo dei sentimenti ignobili: i molti, dunque per contrapposizione, «bui».

Dovrei appartenere, in quanto scrittrice, alla prima schiera. Per mestiere e per cultura, dovrei stare con gli Illuminati. Ma vorrebbe dire riconoscermi in un pensiero pre-stabilito, consegnarmi agli automatismi ideologici, usare la retorica dei buoni sentimenti. Non ce la faccio. Mi vergogno delle parole dolciastre e ipocrite, e anche del compiacimento sottile di esibire le virtù, civiche, umanitarie, solidali. L’autocompiacimento azzera ogni eventuale virtù. E mi sembra troppo facile e tranchant spostare il discorso dal campo della politica alla morale, è qualcosa che taglia ogni possibile confronto, e ogni analisi. Azzera le parole. E noi ora abbiamo bisogno non solo di immagini crude e dolenti che «scuotono le coscienze» ma anche, e soprattutto, di parole il più possibile chiare e oggettive, che illustrino e spieghino le cose come stanno, e che spingano a prospettare qualche possibile soluzione.

Penso ci siano molte persone normali, e anche diversi intellettuali non arruolati, che vorrebbero parlare ma non lo fanno, intimiditi dal muro di voci sicure e giudicanti. Persone perbene, che non hanno voglia di esporsi alla pubblica gogna, di vedere le loro idee, appena nate e magari incerte e titubanti, stritolate dai Maestri del Bene. E scelgono di tacere. Parlare vorrebbe dire essere subito etichettati tra coloro chepensano cose che è bene non pensare; o che non pensano esattamente le cose che è bene pensare. Anche se il loro pensiero fosse estremamente dubbioso e pieno di interrogativi, per il solo fatto di non mostrare le certezze granitiche dei Buoni, verrebbero collocati tra i Cattivi.

C’è una specie di costrizione al silenzio, all’astensione, alla reticenza. O meglio, non tanto una costrizione quanto una pressione, una… induzione: si è indotti, dal clima intorno, a stare zitti. Non è vigliaccheria, o timidezza. È piuttosto una rassegnazione malinconica, venata di senso dell’inutilità. Il fatto grave è che questo silenzio aiuta l’egemonia degli altri, l’affermarsi del loro unico pensiero, e il dilagare della loro retorica sdolcinata.

È su questo silenzio coatto che bisognerebbe interrogarsi. Se tutti coloro che non sono Cattivi, non vogliono la morte dei migranti in mare, né le ruspe e i rastrellamenti, ma nello stesso tempo non si riconoscono nel semplicismo delle soluzioni dei Buoni né nella loro arroganza morale, nell’esibire le virtuose formule della loro superiorità; se costoro rompessero il silenzio e si convincessero a parlare, forse i muri che ci troviamo davanti cadrebbero.

E i cosiddetti intellettuali (studiosi, professori, scrittori, artisti, attori, registi e affini…)? Noi scrittori, per esempio. Annaspiamo, mi sembra. Ripetiamo stanche formule, mantra ideologici sopravvissuti. Interveniamo ogni tanto, sui giornali, alla radio, in tivù, sui social. Lanciamo slogan, promuoviamo manifestazioni, oppure compiamo (o annunciamo che compiremo) gesti simbolici eclatanti (e subito mediatici). E firmiamo appelli. Perché continuiamo imperterriti a firmare appelli (sempre più scarni e ignorati, peraltro)? Perché questi esibizionismi verbali, vistosi e inutili (e a costo zero!), che inducono al sospetto di una mera autopromozione?

E poi, perché gli scrittori dovrebbero avere voce in capitolo, oggi? Perché più di altri, quali sarebbero i loro meriti? Perché gli scrittori e non i medici, gli psicanalisti, gli architetti? E perché non i contadini, i panettieri, gli idraulici, gli operai, gli imbianchini? O si dà per scontato che questi ultimi, non avendo studiato, parteggerebbero di sicuro per i Cattivi, rozzi, brutali, amorali e incivili?

Mi chiedo quale dovrebbe essere oggi il ruolo dell’intellettuale, ammesso che debba averne uno. Domanda molto novecentesca, e abusata. Non so proporre un ruolo chiaro, ma credo che non debba ridursi a questo schierarsi così retorico e prevedibile, a questa stucchevole aria di voler sempre salvare il mondo da catastrofi imminenti e apocalittiche. Catastrofi a volte addirittura auspicate, invocate, perché risulti meglio la cattiveria dei Cattivi e la bontà degli eroici custodi del Bene…

Il primo compito, mi viene da dire, sarebbe quello di rinchiudersi da qualche parte e riflettere, informarsi e studiare. E, per un certo tempo almeno, tacere. Stare a vedere. Pensare. Considerare gli aspetti più nascosti, meno ovvi, più controversi. E poi, semmai, porre interrogativi, provare a scardinare schemi, a vedere la scena da più di un angolo visuale. Aiutando a individuare un possibile itinerario… Essere scomodi, certo, sempre. Ma con tutti! Con il nemico, ma anche con chi la pensa come noi. Meglio ancora, stabilire dopo chi è con noi e contro di noi, non a priori, e non con questo sprezzante senso di superiorità.

Amos Oz, in una recente intervista al Tg1: «I nemici non si amano. Ma si deve dialogare, con i nemici». Dialogare, non urlare formule contro il nemico. Sembra che abbiamo bisogno di un nemico, per esistere.Siamo tutti frastornati e confusi, inutile proclamarsi per principio i migliori, unici detentori della Verità. Più utile parlarsi davvero, gli uni con gli altri, consapevoli che forse le scelte che saremo chiamati a compiere, in questa fase storica che forse si chiamerà Estinzione della civiltà europea, sono difficili, persino tragiche, e non si lasciano ridurre alla comoda opzione fra esercito del Bene o del Male.

Se proprio devo scegliere, io sto con i contadini, i panettieri, gli idraulici, gli operai e gli imbianchini.

Mi stanno a cuore anche le ragioni di questi cosiddetti «cattivi», che tanto dispiacciono a noi intellettuali. Mi capita di parlare con qualcuno di loro, a volte, anche solo superficialmente, ma quel tanto che basta per accorgermi che la loro «cattiveria», poi, non è altro che una massiccia dose di buonsenso e disperazione. Non credo che, se manifestano paure, siano paure vigliacche, colpevoli. Mi chiedo piuttosto se non siano anche loro vittime, insieme ai poveretti degli sbarchi. Vittime almeno quanto i migranti che «accogliamo»nei containers per poi farli diventare schiavi e servi, braccianti della raccolta dei nostri pomodori e badanti dei nostri anziani.

Parlo dei ceti più deboli, degli italiani che faticano a sopravvivere e abitano in quartieri periferici o degradati, dove subiscono spesso furti e aggressioni. Hanno paura ogni sera di tornare a casa, si sentono stranieri nelle loro città, nei loro quartieri, nella propria casa, nelle classi dei loro figli, accerchiati da altre lingue, altri costumi, altre religioni. Mai protetti, e per giunta additati come razzisti, ignobili, ingenerosi. Sono vittime anche loro. Ma vittime nostrane, italiane, «bianche»: troppo simili a noi, troppo poco esotiche?

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