Gli indicatori macroeconomici italiani ufficiali: “un’altra storia”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Orizzonte 48
Fonte: Orizzonte 48
Url fonte: http://orizzonte48.blogspot.it/2015/09/gli-indicatori-macroeconomici-italiani.html?m=1

Le Istituzioni riflettono la società o esse “conformano” la società e ne inducono la struttura? In democrazia, la risposta dovrebbe essere la prima. Ma c’è sempre l’ombra della seconda…il “potere” tende a perpetuarsi, forzando le regole che, nello Stato “democratico di diritto” ne disciplinano la legittimazione. Ultimamente, poi, la seconda si profila piuttosto…ingombrante, nella sintesi “lo vuole l’Europa”. Ma non solo. Per capire il fenomeno, useremo la analisi economica del diritto.

1. I soliti burloni ci raccontano che, insomma, finalmente le cose in Italia vanno bene.
Addirittura, cresciamo più del “previsto” (!). Ragion per cui, fiduciosi di aver ingranato il metodo taumaturgico della ripresa, cresceremo in futuro ancora di più.
Si dimentica di considerare che il mercato del lavoro, in tutta €uropa, assomiglia sempre più a quello USA: piccoli miglioramenti del tasso di disoccupazione vengono sbandierati sulla scorta del fantastico modello Spagna, “ma ovviamente non si dice della quota salari su PIL, nel frattempo stabilizzatasi (cioè non varia, dai “minimi”, con l’aumento dell’occupazione), dell’incremento del numero di ore lavorate per realizzare la produzione(comunque minore del 2008), a parità di salari reali (quando va bene), in questo stesso periodo, del crescente numero di semioccupati, precari e part-time, che sfalsano la significatività del dato occupazionale (cioè lo rendono un’apparenza statistica rispetto alla reale produttività realizzata ceteris paribus a partire dal 2008)”.
PIL
3. Questa poi, dati OCSE alla mano, è la traiettoria comparata del trionfale percorso del PIL italiano, scontando la “uscita dal tunnel” degli ultimi 2 trimestri, rappresentata mediaticamente, a reti unificate, come un cambiamento epocale:
3. Questo l’andamento degli investimenti pubblici (che darebbero…impulso alla ripresa: cioè curva piatta o aumento micro sui livelli minimi del disastro e diminuzione dopo il 2016 e fino al 2018):
http://www.programmazioneeconomica.gov.it/wp-content/uploads/2015/05/6.51.png

“GLI ANDAMENTI DI LUNGO PERIODO DELL’ECONOMIA ITALIANA” SECONDO I DATI “UFFICIALI” DEL GOVERNO RISALENTI ALL’8 GIUGNO 2015; E NOTARE I CONSUMI, ANCH’ESSI IN “INEVITABILE RIPRESA”, COME PURE…GLI INVESTIMENTI ESTERI:

http://image.slidesharecdn.com/presentazionemercatofy2014def-150226072818-conversion-gate01/95/presentazione-fy2014-7-638.jpg?cb=1424936664
Questa, in base alla stessa fonte, l’evoluzione del PIL procapite italiano comparato con quello dell’Unione europea (naturalmente seguendo il modello Spagna, con tutti i fattori sopra evidenziati, ci riprenderemo…):
 Il PIL procapite italiano è calato in termini relativi dal 119% della media dell’UE 28 nel 2001 fino al 98% nel 2013. Tale calo ha caratterizzato anche Francia e Gran Bretagna e in misura minore la Spagna, che era invece cresciuta fino al 2007. La Germania invece, che aveva mantenuto un reddito procapite relativo sostanzialmente stabile dal 2000 al 2009, ha conseguito nel 2010-13 un consistente miglioramento.
Questa la produzione industriale al giugno 2015 che, nei tiggì, ci assicurano in virtuoso aumento (millimetrico):
La produzione industriale italiana aveva mostrato una tendenza a un moderato calo nel 2000-2005, seguito da una fase di crescita nel 2005-2008, con trend di crescita più limitato rispetto alla media della zona euro. Dalla metà del 2008 fino ad aprile 2009 la produzione industriale è crollata da un massimo di 106 ad un minimo di 78, analogamente a quanto accaduto in tutto il mondo con la crisi finanziaria internazionale. Dalla seconda metà del 2009 alla metà del 2011 la produzione industriale ha recuperato circa il 40% di quanto aveva perso, tornando successivamente a calare.
E come sicurezza della futura crescita questo l’andamento della spesa pubblica su PIL:
La spesa pubblica totale in percentuale del PIL e di quella al netto degli interessi passivi e degli investimenti sono caratterizzate da un trend nettamente crescente dal 2000 al 2009. Il picco massimo della spesa totale viene raggiunto nel 2009 con una percentuale sul PIL pari al 51,1% (il dato è quello successivo rispetto alla revisione del Pil di settembre 2014). Il Documento di economia e finanza prevede cali consistenti nei prossimi anni, fino al 46,9% nel 2019, mentre le spese correnti al netto degli interessi scenderanno dal 42,8% del 2014 al 40% nel 2019.
E naturalmente, pensioni e fannulloni del pubblico impiego, faranno la loro parte: se la relativa spesa diminuisce, il PIL cresce. O NO?
Dagli anni ’80 ai nostri giorni la spesa per i redditi da lavoro dipendente nella Pubblica Amministrazione e quella per prestazioni sociali sono andate divergendo. I redditi da lavoro dipendente mostrano un trend leggermente decrescente. Raggiungono il loro picco massimo nel 1990 con il 12,2% del PIL per poi scendere a un minimo del 10,1% del PIL nel 2000, risalendo all’10,9% del PIL nel 2009 per poi calare nuovamente. Diversamente dai redditi la spesa per prestazioni sociali (che è composta per quasi l’80% da spesa pensionistica) è cresciuta a un ritmo elevato: nel 1980 era poco superiore alla spesa per redditi da lavoro dipendente nella PA (12,3 % del PIL) ed ha conosciuto una forte crescita superando oggi il 20% del Pil, in parallelo all’invecchiamento della popolazione, con l’eccezione di una fase di stabilizzazione nel decennio successivo al 1994.
Questi poi il tasso di occupazione e di disoccupazione, secondo lo stesso studio di governo.it, sempre scontando le nuove modalità di lavoro flessibile (a singhiozzo) e i part-time involontari dilaganti (e il fatto che cassa-integrati e persino stagisti sono calcolati tra gli occupati):
I tassi di occupazione italiano e della zona euro sono aumentati entrambi fino alla crisi del 2008 (dal 57,4% al 63% per l’Italia e dal 65,5% al 70,2% per la zona euro). Successivamente, nel 2008-2013, il tasso di occupazione è calato sensibilmente per entrambe le aree, pur senza perdere tutti i guadagni del periodo precedente (dal 63% al 59,8% per l’Italia e dal 70,2% al 67,7% per la zona euro). Fino al 2008 l’Italia era caratterizzata da una fase di lenta ma continua convergenza verso il tasso di occupazione medio della zona euro, convergenza che si è fermata dopo il 2008, Nel 2014 è tornato a crescere il tasso di occupazione medio sia in italia che nella zona euro.
La tendenza della disoccupazione italiana, come vedete, è divergente, in peggio, al di là di dati stagionali e contingenti, rispetto alla già pesante situazione €uropea. E sono i dati ufficiali…
Dal 2000 al 2007 il tasso di disoccupazione italiano si è quasi dimezzato (dal 10,6% al 5,8%) scendendo sotto la media della zona euro. Successivamente, l’impatto della prima recessione ha portato a un aumento della disoccupazione in Italia, aumento tuttavia meno consistente rispetto alla media della zona euro. La seconda recessione invece ha avuto un impatto molto più forte in Italia che non in Europa (il tasso di disoccupazione in Italia è aumentato di 5,4 punti, passando dal 7,8% di aprile 2011 al 13% di novembre 2014, per poi iniziare a calare fino al 12,4% di aprile 2015 mentre la media della zona euro è aumentata nello stesso periodo solo di 1,7 punti, dal 9,8% all’11,5%). Nel 2014 l’aumento del tasso di disoccupazione è avvenuto in parallelo all’aumento del numero di occupati, perché numerose persone classificate come “inattive” hanno deciso di entrare nel mercato del lavoro.
Nella realtà reale, poi, non può stupire che risparmi e investimenti stiano messi così:
All’inizio degli anni duemila il tasso di risparmio e di investimento pubblico e privato erano sostanzialmente allineati in Italia, la crescita della quota di investimenti fino al 2007 non è stata accompagnata da una crescita proporzionale dei risparmi, rimasti sostanzialmente costanti. Con la prima recessione (2008-2009) i risparmi sono calati più fortemente degli investimenti, che hanno resistito meglio. Durante la seconda recessione invece si è registrato un nuovo calo degli investimenti, mentre aumentava il risparmio precauzionale. Dal 2013 i risparmi sono tornati maggiori rispetto agli investimenti ma ad un livello radicalmente più basso per entrambi rispetto a quello pre crisi (nel 2014 18,3% di propensione al risparmio contro il 16,5% di propensione all’investimento).
4. Aspettate.
A questo roseo quadro, bisogna aggiungere che:
a) sul mercato del lavoro, a ulteriore effetto deflattivo, arriverà la contrattazione di livello aziendale;
b) proseguirà l’afflusso di immigrazione fino al monte premi, “internazionalmente” auspicato, di 150 milioni di nuovi insediati e l’Italia farà la sua parte, oh se la farà! Vedrete come si cresce, accelerando la deflazione salariale e senza disporre di manodopera qualificata e in assenza di  investimenti, pubblici e privati…
c) si acuisce la crisi dei BRICS e, forse, tutto questo modello di svalutazione interna competitiva, basato sulle esportazioni, rischia di impantanarsi. E poi?
5. Insomma non c’è molto da interpretare: piuttosto è meglio che il sistema mediatico non offra i dati ufficiali e racconti un’altra storia:
“…strutturare definitivamente una società sul mercato del lavoro-merce, che  esclude istituzionalmente i salari dalla crescita del prodotto, eliminando il welfare pubblico (pensionistico e sanitario), conduce alla deflazione permanente.
E quindi acuisce il rischio della insolvenza sistemica e della stagnazione irreversibile dell’economia reale. Cioè del benessere e della dignità degli esseri umani coinvolti.
In tale situazione, aumentare il deficit pubblico, neppure sortisce più gli effetti anticiclici che, in teoria, si verificavano in passato: comunque la spesa pubblica si indirizza alla crescente emergenza disoccupazionale, con grande dispendio di inutili misure tampone, e comunque finisce in improbabili misure supply side, che includono pure i programmi di spesa per infrastrutture e di alleggerimento del costo fiscale del lavoro, una volta che il mercato dello stesso lavoro sia strutturato sulla precarietà e sulla deflazione salariale.”
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