Fonte: sinistrainrete
Url fonte: http://www.sinistrainrete.info/index.php?option=com_content&view=article&id=6791:alberto-bagnai-gli-elicotteri-di-pinochet-e-i-keynesiani-di-buona-volonta&catid=23:politica-economica&Itemid=135
di Alberto Bagnai 10 marzo 2016
La stanchezza e il fastidio che alcuni di voi hanno esternato nei commenti al post precedente sono anche i miei. Devo sinceramente dirvi che non ne posso più. Non ne posso più di vedere colleghi che passano dall’aperto tradimento dei più elementari principi della nostra disciplina, a sensazionali scoperte dell’acqua calda, presentate sempre, si badi bene, come “lezioni apprese dalla crisi”, quando invece, voi lo sapete bene, questa crisi non ci ha insegnato nulla che non sapessimo già (e ne abbiamo parlato tante volte). Tanto opportunismo, o, nella migliore (?) delle ipotesi, tanto conformismo, a fronte di tanto strazio e di tanta distruzione, mi lasciano senza parole, e mi inducono a desistere da quella che, per quanto impossibile, era la missione fondamentale di questo blog: portare un minimo di ragionevolezza nel dibattito, per scongiurarne nella misura del possibile esiti politicamente e socialmente violenti. Non ho più la salda certezza, dalla quale mi ero mosso, che questo obiettivo, pur nella sua impossibilità, sia meritevole di essere perseguito.
Il nodo centrale, quello che dovrà venire al pettine, è estremamente semplice, e l’ho espresso svariate volte in questi anni (e naturalmente in entrambi i libri): dalla crisi non potremo uscire se non rilanceremo la domanda con un massiccio intervento di investimenti pubblici (preferibilmente in piccole opere) finanziato con moneta.
Che occorra rilanciare la domanda (cioè la capacità di spesa dei cittadini) mi sembra un punto non contestato da alcuno. Che non lo si possa fare aumentando il debito pubblico, che l’austerità ha aggravato (come previsto), mi sembra altrettanto ovvio: il debito pubblico, che non è stato la causa della crisi, ne è però diventato una conseguenza potenzialmente pericolosa.
Che non esistano spazi politici per un’azione fiscale coordinata, da realizzarsi attraverso piani Juncker, o eurobond, o roba del genere, a noi è sempre stato chiaro, per il semplice motivo che i paesi forti non hanno alcun interesse a indebolire la propria egemonia aiutando quelli deboli. Quindi l’idea che esista la possibilità di rilanciare la domanda in deficit “mutualizzando” il carico finanziario dell’operazione è del tutto fuori dal mondo.
D’altra parte, le politiche monetarie effettuate “stampando moneta” per immetterla nel circuito finanziario, prima attraverso l’LTRO, poi attraverso il QE, non hanno avuto impatto sull’economia reale né potevano averne. Le due operazioni sono state, in tempi diversi, un modo politicamente distorto e inefficiente di fare quello che la BCE non poteva fare. Con l’LTRO la BCE ha prestato soldi alle banche affinché queste “salvassero” (acquistandone i titoli) i governi sotto attacco speculativo (cosa che la BCE in prima persona non poteva fare). Con il QE la BCE si ricompra i titoli (che nel frattempo costano di più perché i tassi sono scesi) per “salvare” in modo coperto il sistema bancario (cosa che, ancora una volta, in teoria non potrebbe fare). Come sapete, questa è anche l’interpretazione di Munchau: il QE come un ersatz debt resolution instrument.
Il punto è che in entrambi i casi le somme erogate dalla BCE sono rimaste all’interno del circuito finanziario, e non ci si poteva aspettare che facessero altro. Per questo non era difficile prevedere che la cosa sarebbe finita in deflazione! Non è la moneta “stampata” che fa aumentare il prezzo dei beni e dei servizi, ma quella spesa per acquistare beni e servizi (non strumenti finanziari), cioè quella che si trasforma in domanda effettiva, e, quindi, in reddito (del venditore di beni e servizi). Come ci siamo detti mille volte, in una crisi deflattiva un governo può essere certo che la moneta che stampa venga spesa nell’economia reale (da res, “cosa” in latino) solo se la spende lui. In altre parole, solo se il deficit viene monetizzato.
Abbiamo visto a dicembre come a parità di altre circostanze un intervento di politica di bilancio espansiva sia comunque più efficace quando è finanziato con moneta. Insomma: se anche esistessero i margini per un finanziamento dei necessari investimenti pubblici con debito, il finanziamento monetario renderebbe l’intervento più incisivo (e di incisività, dopo otto anni di crisi, direi che ce n’è bisogno). Abbiamo visto, soprattutto, che questa è macroeconomia standard, non è qualcosa che ci ha “insegnato” la crisi, e che tutti gli argomenti contrari alla normale prassi di uno stato sovrano di finanziarsi emettendo moneta sono inconsistenti e fuori luogo.
Il finanziamento monetario crea inflazione? Bene! Ce ne abbiamo bisogno! Stampare moneta fornisce ai governanti incentivi distorti, crea problemi di rischio morale? Ah, sì? E perché, invece disporre di credito a tassi ridicoli sui mercati finanziari privati li ha moralizzati, i nostri governanti? Non mi pare, e sappiamo bene che ormai anche il mainstream ammette che questo è un falso problema.
Quindi per uscire dalla crisi basta semplicemente tornare alla normalità, all’economia dei libri di testo: fare un intervento espansivo, e finanziarlo con moneta.
Certo, questo comporta alcuni corollari, nella nostra situazione.
Il primo è che siccome un rilancio del reddito comporta un rilancio più che proporzionale delle importazioni, evidentemente bisognerà che le ragioni di scambio fra il paese che intraprende la politica espansiva e gli altri paesi possano aggiustarsi rapidamente. In altre parole, se il paese non svaluta, rendendo i beni esteri meno convenienti, l’esito di qualsiasi politica di rilancio del reddito nazionale sarà una ulteriore crisi di bilancia dei pagamenti (e questo, oggi, lo ammette in pubblico perfino Salvati, come abbiamo visto nel post precedente).
Il secondo, connesso, è che non possiamo certo aspettarci che sia una Banca centrale europea a decidere quali stati finanziare e perché. Se lo facesse, renderebbe ancora più evidente il suo ruolo politico (quello che oggi sta esercitando decidendo quale sistema bancario mettere in crisi e perché), e in ogni caso non possiamo aspettarci che essa eserciti questo potere in un’ottica di sistema, per gli stessi motivi per i quali non possiamo aspettarci nulla né dal fantomatico piano Juncker né dai fantomatici eurobond, ovvero perché le istituzioni attualmente esistenti riflettono, com’è ovvio che sia, gli interessi della potenze egemone.
Quindi?
Quindi se non si supera la BCE, affidando a banche centrali nazionali il compito di rilanciare con finanziamento monetario di politiche di bilancio nazionali espansive la crescita dei paesi membri, ovviamente in regime di flessibilità dei rapporti di cambio, non si supera la crisi.
La BCE è la crisi, o, se volete, la crisi è la BCE, e chi segue questo blog, e quello di Quarantotto, sa benissimo quali sono i fondamenti politici e ideologico di questa infausta equazione.
Ora, naturalmente, che da lì si debba passare lo sanno tutti, e infatti assistete anche voi, attoniti o infastiditi come me, a scoperte dell’acqua calda, come quella di Wren-Lewis, che dice in modo lievemente sfuocato quello che Leijonhufvud diceva con meno parole, meglio, e prima. Piuttosto ridicola la definizione di indipendenza della banca centrale data dal primo, come “potere di decidere quando cambiare i tassi di interesse”. Sappiamo che c’è molto di più, e noi italiani in questo siamo avvantaggiati, perché i nostri “indipendentisti” cosa fosse in gioco ce l’hanno detto in faccia: la creazione di un quarto potere costituzionale, indipendente dall’esecutivo (ma anche dal legislativo e dal giudiziario) e ad essi sovraordinato, destinato a diventare l’istituzione cardine di un modello di capitalismo che soprattutto (ma non solo) in Europa si articolava sulla deflazione salariale. Peraltro, la nostra banca centrale indipendente (dal 1981) non aveva (dal 1990) il potere di decidere quando cambiare il tasso di interesse, perché con perfetta mobilità dei capitali, e tassi di cambio fisso, questo potere si perde (come ci ricordava Rodrigo riferendosi alla Cina).
Ora, in questa guerra, che è la guerra del buon senso contro un fanatismo superstizioso (non uso il termine “religioso” perché ogni religione ha un suo sistema di valori), c’è un modo particolarmente stupido (o furbo?) di lasciare il campo all’avversario, ed è quello di accettare il suo linguaggio.
Quello che ci occorre, per i motivi che vi ho succintamente riassunto, è monetizzare il deficit, cioè emettere moneta per pagare imprenditori e dipendenti pubblici che facciano quello che c’è da fare (consolare gli afflitti, curare gli ammalati, riempire le buche, vuotare i fossi…). Ma nessuno vuole chiamarlo così.
No.
Tutti parlano di “helicopter money”.
Ma chi ha inventato questa simpatica espressione, che surrettiziamente attribuisce al finanziamento monetario un’aura di sardanapalesca, arbitraria e quindi intrinsecamente corrotta e improduttiva prodigalità? Buttare soldi da un elicottero, senza sapere nemmeno a chi andranno, basta che li spenda! Quale orrore!
Bè, come vi ho ricordato più volte, e come ci ricorda il nostro amico Zingy, questa espressione è stata coniata da Milton Friedman, il padrino dei Chicago boys, i simpatici consulenti di Pinochet. Non stupisce certo che persone spiritualmente vicine a un regime dittatoriale intendessero deprecare anche lessicalmente politiche intese al rilancio dell’economia (col potenziale costo di un rialzo dell’inflazione, e quindi col potenziale detrimento del potere di acquisto di chi questo potere d’acquisto ce l’ha)!
Ed ecco infatti che gli organi dell’ortodossia ce la propongono come tale, il che consente loro di definire “improvvisazione disperata”, “provocazione”, “espediente”, ciò che invece, come sappiamo, è stato, e tornerà ad essere (dopo non so quanti morti) la normalità (come vi ho documentato qui).
L’idea che uno stato possa riappropriarsi della sua sovranità per pagare gli insegnanti, per pagare gli infermieri, per ridurre i ticket sugli esami clinici (che oggi la gente non fa, e poi i giornali si chiedono perché crepi…), per mettere in sicurezza dal rischio idrogeologico i territori (che altri morti fanno), ecc., tutto questo, che dovrebbe essere la normalità, viene derubricato a espediente bislacco ed estemporaneo, contrario a qualsiasi principio di razionalità economica e anche, in fondo, di corretto ordine sociale (proprio perché la moneta lanciata dall’elicottero non sai dove cadrà: lasci così intendere che potrebbe beneficiarne chi non ne ha bisogno…).
Helicopter money è quindi un’espressione gergale ideologicamente connotata in senso fortemente conservatore. Se chi la usa è un eurofascista, diciamo che ci si può anche stare. Ma se chi la usa è uno che si atteggia a progressista (come questo qui) allora abbiamo un problema, che potremmo riassumere in questi termini: colleghi anche qualificati non capiscono la natura della lotta che stiamo combattendo. Non è un problema “tecnico”. Il problema è culturale, e quindi chi accetta di utilizzare le categorie analitiche del nemico ha già perso, come, del resto, ha perso chi accetta di legittimare con la sua presenza quelle sedi dalle quali il buon senso è stato per anni bandito e censurato, e che ora cercano, in extremis, di rifarsi una verginità “pluralista” per prepararsi a virare di bordo.
Grandi (come Wren-Lewis) o piccoli (come Trullo Whisperer) keynesiani di buona volontà perdono di vista questo punto essenziale.
Il che mi lascia concludere che sarà molto difficile che riusciamo a tirarcene fuori senza un massiccio scoppio di violenza.
Nel frattempo, vado al cinema con Uga. Non sia mai che sul raccordo un elicottero…
—
un intervento di illuminante chiarezza, dopo l’articolo di Vincenzo Comito L’ultima spiaggia? L’helicopter money