Giulietto Chiesa “il sorriso buono di un uomo libero ” – Le testimonianze di Alessandro Bedini, Franco Cardini, David Nieri, Marina Montesano

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alessandro Bedini, Franco Cardini, David Nieri, Marina Montesano,
Fonte: Minima Cardiniana

TESTIMONIANZE

ALESSANDRO BEDINI
Non capita spesso di imbattersi in personaggi i quali, non accontentandosi del panem et circenses, si spingono oltre i limiti del politicamente corretto. Oltre quei confini geometricamente perimetrati dal pensiero unico, caratterizzati dal buonismo mieloso dei padroni dei mass media, imbevuti di luoghi comuni che vengono spacciati per autorevoli analisi socio-politiche. Giulietto Chiesa non era fatto di quella pasta, non andava d’accordo con chi si accontentava di ripetere i soliti mantra del neoliberismo, delle guerre umanitarie, delle magnifiche sorti et progressive di un Occidente i cui valori si fondano sul libero mercato (libero per chi?), sulle speculazioni finanziarie, sul sistematico sfruttamento di popolazioni rese povere da un neocolonialismo che Giulietto non si stancava mai di denunziare. Per questo aveva fondato una emittente televisiva controcorrente, come il suo pensiero, Pandora Tv, ascoltando la quale si riusciva molto spesso a spingersi, come Alice, oltre lo specchio del déjà vu, dello scontato, del conforme. Anche quando non si era d’accordo con Giulietto, non si poteva fare a meno di prendere sul serio le sue analisi, la lucidità e la passione con le quali le presentava, costringevano quantomeno a riflettere, a pensare, a confrontarsi, insomma a farsi domande. Comunista sui generis in polemica col suo stesso partito, inviso alla nomenklatura sovietica brezneviana durante il suo incarico a Mosca come corrispondente de L’Unità, accusato di volta in volta di essere al servizio della CIA o di Putin, ha percorso il suo cammino al di fuori dei binari ed è per questo che è stato ed è ancora inviso a molti; “c’è del metodo in questa follia”, avrebbe sentenziato il buon Shakespeare. Allergico alle etichette non si peritava di frequentare “pericolosi” personaggi bollati come rosso-bruni, se non addirittura fascisti; in realtà, l’incontro con pensatori che provenivano da altre esperienze politico-culturali credo che per lui, curioso di tutto ciò che si muoveva nella galassia impropriamente definibile come intellettuale, facesse da stimolo alle riflessioni più originali che presentava nei suoi interventi. Pochi mesi fa aveva accettato con entusiasmo di collaborare a un libro dal titolo Il Muro oltre Berlino, in occasione del trentesimo anniversario della caduta del muro, pubblicato da una piccola ma qualitativamente grande casa editrice: La Vela. Un volume che raccoglie nove saggi di nove intellettuali provenienti da ambienti culturali e politici molto diversi. Questo e tanto altro è stato Giulietto Chiesa e il suo ricordo non si esaurisce nell’elencazione delle pubblicazioni, saggi, articoli che ha scritto a centinaia, ma nel riconoscere ciò che ha rappresentato per il pensiero non conformista ma soprattutto per la schiena dritta che ha mantenuto fin sulle soglie dell’aldilà.

FRANCO CARDINI
Quel che mi torna in mente, ora che se n’è appena andato, è un verso di un inno politico cubano in onore di Ho-Chi-Minh:
“Porqué la dignidad del hombre es
más alta que el pan,
más alta que la gloria,
más alta que la propia sobrevivencia”.
Ho conosciuto Giulietto Chiesa in una città ch’era la “sua”, molto di più della natìa e pur amata Acqui; e che, senza essere propriamente la mia, è una delle più care delle mie numerose “seconde città”. L’ho conosciuto a Genova, dove c’incontrammo quasi vent’anni fa presso un caro comune amico, don Andrea Gallo. Venivamo da lontano, Giulietto ed io: e don Gallo veniva da più lontano ancora rispetto ad entrambi. O, quanto meno, è quel che pensavano molti dei nostri rispettivi amici e sodali: Giulietto sapeva alquanto di zolfo secondo i miei, io altrettanto secondo i suoi, entrambi per un motivo o per altro stando al parere di quelli di don Andrea.
Giorgio La Pira diceva che non è importante da dove gli uomini vanno, bensì verso dove vanno. E noi sentimmo immediatamente che quel che ci divideva, o sembrava dividerci, era solo un’evanescente cortina di parole.
Misteriosa cosa, la parola. Ve ne sono alcune che liberano, che sono alte come montagne e profonde come abissi; altre né alte né profonde, ma pesanti come pietre; altre libere e leggere, che sanno solo d’armonia e di profumo; altre vane e inutili, che non significano nulla. Appartenevano a questa quarta, spregevole categoria, le parole che dividevano Giulietto da me.
Convenimmo, con don Andrea, che la storia non era più troppo disposta ad accordare tempo illimitato alla società alla quale appartenevamo: a quest’Occidente che da mezzo millennio ha affascinato e soggiogato il resto del mondo proclamando e promettendo pace, libertà, felicità; e distribuendo dolore, schiavitù, oppressione, sfruttamento. Quest’Occidente che donava a piene mani tesori inestimabili come il suo Dio, il suo concetto di potere e di sapere, i suoi costumi, le sue istituzioni: e che in cambio chiedeva solo povere e piccole quisquilie, inutili inezie come tutte le materie prime e tutta la forza lavoro dei popoli conquistati, ai quali si ripeteva la promessa dell’Antico Serpente, eritis sicut dei; e gli dei, appunto, erano i bianchi signori provenienti dall’Europa.
Quel ch’era cominciato ad accadere in Iran e in Afghanistan verso la fine degli anni Settanta e con maggior forza dalla prima Guerra del Golfo, l’emergere del fondamentalismo musulmano che sembrava aprire la lunga lista dei crediti che i popoli cominciavano a esigere, stava aprendo gli occhi a molti di noi: a molti i quali si erano illusi che la Modernità avesse quanto meno poste le basi di una maggior futura equità e giustizia tra i popoli, mentre al contrario la sua “esportazione della democrazia” – un’espressione tanto ipocrita quanto idiota – celava la volontà d’un progressivo futuro ulteriore distanziarsi sociale tra il sempre minor numero di persone e di lobbies detentrici del potere e la crescente, immensa moltitudine dei poveri e degli sfruttati. Concentrazione della ricchezza e del potere in un senato mondiale di semidei, quello dei signori che oggi dominano le annuali assise di Davos. La fase ultima della globalizzazione, l’“uscita dalla storia” maldestramente intravista alla fine del XX secolo da Francis Fukuyama, era quella che già si prospettava come la definitiva, irreversibile conclusione della fase avviata nel XVI secolo dalle vele e dai cannoni d’Europa dominanti gli oceani e dai suoi filosofi che promettevano libertà e giustizia universali.
Era giunta l’ora nella quale gli uomini di buona volontà avrebbero dovuto lottare uniti per conseguire il disincanto del genere umano nei confronti dell’inganno di chi da secoli prometteva futuri paradisi in terra e progettava il generale asservimento alla volontà e agli interessi di pochi. Ma dall’Africa all’America latina alle folle subalterne del mondo musulmano qualcosa si era ormai mosso: e ormai si cominciava lentamente, confusamente a scorgere. Dovevamo vegliare alla sua crescita, curare la sua maturazione. Schiacciare la testa di questo mostro che proferiva seducenti promesse e che si nutriva di tutto l’oro di tutto il sangue e di tutte le sofferenze del mondo.
L’unica guerra che valga la pena di esser combattuta al mondo è quella per la dignità di tutti, che sarà conseguita quanto il genere umano si sarà convinto che l’equa ridistribuzione delle ricchezze del pianeta è la sola strada percorribile per evitare la distruzione. In questa guerra Giulietto resta ancora, qui con noi, presente.

MARINA MONTESANO
Ho conosciuto Giulietto Chiesa intorno al 2004 grazie a Franco Cardini. Mi ero messa in testa di scrivere dell’11 settembre 2001 dopo un viaggio nel giugno 2002 a New York, quando con commozione avevo visto la devastazione di un Ground Zero ancora delimitato, con enormi buche al posto delle due torri e le fotografie dei morti appese insieme a tanti bigliettini alle recinzioni. Mi ero ricordata di esserci stata, su una delle Twin Towers, quella con l’ultimo piano aperto ai visitatori, nel lontano 1994 mentre trascorrevo alcuni mesi negli Stati Uniti per ragioni di studio. Con la visita del 2002 avevo cominciato a raccogliere materiale su quell’incredibile evento al quale avevo assistito davanti alla tv come si guardano quei film catastrofici ai quali faceva pensare, pur sapendo che si trattava di un’enorme tragedia. Altre tragedie, ancora più gravi in termini di morti, si erano innescate subito dopo: l’invasione infinita dell’Afghanistan, la vergogna di Guantanamo, anche quella mai conclusa, fino all’assurda (per le motivazioni addotte e per gli esiti) guerra contro Saddam Hussein e l’Iraq, con tutto quello che ne è seguito. Se crediamo alle periodizzazioni e ai secoli flessibili secondo i loro contenuti di “Hobsbawmiana” memoria, diciamo che quello in corso sembra essersi davvero aperto con l’anno giusto, perché dall’11 settembre 2001 la politica internazionale ci ha dato tanto sorprese, poche delle quali felici. Raccolto il materiale sulle Twin Towers in un periodo nel quale ancora non si parlava, fortunatamente, di “complottismi”, avevo deciso di scriverne così come avrei scritto – e scrivevo, e ho scritto dopo – di storia medievale: prendendo le fonti che narravano l’evento, in quel caso sui giornali scritti immediatamente dopo gli attentati, e vagliandole con spirito critico. Ero giunta non certo alla “verità”, concetto dal quale mi tengo ben lontana, ma all’idea che nella narrazione ufficiale degli eventi molto non tornasse, e ho mostrato come e perché. Scritto questo breve libro cercavo un editore, ma con scarso successo, soprattutto perché volevo tenermi lontana dalla nebulosa editoriale troppo orientata (a destra o a sinistra) e poco accreditata: in quell’occasione avevo dunque conosciuto Giulietto Chiesa, il quale si era offerto di scrivere una prefazione al libro e di aiutarmi con la ricerca dell’editore, che individuammo in Dedalo di Bari. Nel 2004 il libro uscì, nel frattempo si era cominciato a discutere anche in modo critico dell’evento, e Giulietto mi coinvolse in altre iniziative sull’argomento. L’ho incontrato in diverse occasioni, in fondo non tante, l’ultima pochi mesi fa al Pisa Book Festival per la presentazione di un altro libro, Il muro oltre Berlino. Trent’anni dopo, nel quale scrivevamo di cose diversissime: lui di politica, io di musica. Un incontro molto piacevole fra persone che si erano conosciute un po’ casualmente intorno a interessi comuni, ma che per età e formazione ovviamente ne avevano anche di molto diversi, come lo stesso libro sul Muro mostrava. Nondimeno, per apprezzare una persona non c’è bisogno di condividerne tutte le idee, ne bastano alcune, magari fondanti, ed è l’impressione che ho sempre avuto rispetto a Giulietto Chiesa. Certi suoi interventi recenti possono essere sembrati massimalisti o estremisti, talvolta anche a me, però a ben vedere è il mondo di questi ultimi vent’anni, post guerra fredda, post 11 settembre, a essere diventato massimalista ed estremista, a noi tocca solo adeguarci e non sempre è possibile farlo con moderazione. Di Giulietto Chiesa mi piace ricordare la partecipazione umana alla politica e l’impegno per una informazione fuori dal coro della quale c’è davvero grande bisogno; e poi il buonumore, la disponibilità, il sorriso: anche di questi ci sarebbe grande bisogno, e i suoi certamente mancheranno a molti.

DAVID NIERI
Fino a pochissimi anni fa conoscevo solo “di fama” il Giulietto politico, giornalista e saggista. L’occasione per incontrarlo personalmente si presentò, anche nel mio caso, grazie a Franco Cardini e al “nostro” primo libro realizzato insieme, ovvero Gesù, la falce, il martello. Avevamo deciso di presentarlo alla prima edizione di Libropolis a Pietrasanta, nell’ottobre del 2017: in quell’occasione Franco Cardini mi propose un paio di grossi nomi da contattare che avrebbero fatto al caso nostro, Giulietto Chiesa e Antonio Pennacchi, ovvero il premio Strega 2010 di Canale Mussolini. Accettarono entrambi e per me, editore alle prime armi, fu come toccare il cielo con un dito: avevo tra le mani un libro di Franco Cardini e una presentazione che si preannunciava scoppiettante. Lo fu. Quella domenica la prima edizione di Libropolis si chiuse con la sala stracolma e un confronto costruttivo tra menti illuminate, seppur diverse, coordinate dall’amico Alessandro Bedini.
Ricordo che la mattina della stessa domenica lasciai lo stand del festival per andare a prendere Giulietto, che arrivava in treno da Roma, alla stazione di Viareggio. Lo trovai in sala d’attesa, vestito in modo elegantissimo, un piccolo trolley e, soprattutto, quei baffoni simpaticamente “staliniani” sotto i quali splendeva un sorriso cordiale e simpatico. Nessuna barriera, nessuna cerimonia: il problema è che non avevo previsto che non fosse solo, e io in auto avevo un posto “utile”, quello davanti, perché tutta la parte posteriore era intrisa del pelo del mio carlino Otto. Giulietto, quando seppe, non si scompose: “Ci vado io, che mi faranno mai due peli di carlino, ne ho passate di peggio!”.
Durante il tragitto mi parlò della realtà politica che stava creando, dei suoi obiettivi, della nuova pubblicazione in arrivo. Rimasi colpito e affascinato dalla sua energia vulcanica, unita a una capacità comunicativa diretta, schietta, senza fronzoli e a una curiosità intellettuale che non risentiva affatto dell’età non più giovanissima (all’epoca: 77 anni).
Con Giulietto abbiamo collaborato anche negli anni successivi. Nel 2018 fu autore di una delle prefazioni alla traduzione del libro di Thierry Meyssan, Sotto i nostri occhi. La grande menzogna della “Primavera araba”. Dall’11 settembre a Donald Trump, che ebbi la fortuna e l’onore di tradurre e pubblicare per la mia piccola casa editrice. Risale invece allo scorso anno uno dei suoi contributi per il libro Il Muro oltre Berlino. Trent’anni dopo, realizzato in occasione del trentennale della caduta e presentato al Pisa Book Festival lo scorso novembre. Giulietto, presente all’evento, affascinò la platea con la sua classe di oratore in una sala che non riusciva a contenere tutti gli interessati. Ci lasciammo e ci salutammo con la promessa reciproca di risentirci presto per portare avanti un paio di progetti che aveva in mente.
Quella di Giulietto Chiesa è una perdita enorme per l’informazione indipendente. Personalmente, mi sono avvicinato a Giulietto autore e giornalista dopo l’11 settembre, quando la mia vita fu scossa nelle fondamenta che fin lì avevano sorretto le mie (in)certezze e le mie (poche) convinzioni. Da quel momento cambiarono le mie prospettive, e autori come Franco Cardini, Giulietto Chiesa e Noam Chomsky diventarono punti di riferimento essenziali. Certo, non sempre mi sono trovato d’accordo con le sue posizioni, ma gli ho sempre riconosciuto il merito di saper cercare altrove percorsi di lettura della realtà e dei fatti non in linea con i media mainstream e le verità imposte. Oggi va di moda definire “complottismo” tutto ciò che mette in discussione i dogmi ufficiali della comunicazione – quella che, durante il non facile periodo che stiamo vivendo, non esita a definirsi “professionale” e “affidabile” –, fino a farsi beffe di tutto ciò che si pone come alternativa, creando un cortocircuito in cui le fake news – che certamente non mancano – vengono automaticamente equiparate a qualsiasi notizia che evidenzia le lacune delle posizioni “incontestabili”.
Ho sempre ritenuto gli spunti di Giulietto – tutti, nessuno escluso – meritevoli di attenzione e approfondimento. Con la consapevolezza che nessuno detiene la verità in tasca, ma che è compito delle menti illuminate e trasparenti contribuire a indicare il percorso meno battuto per sviluppare un pensiero indipendente e mondato della sacra ritualità mediatica.
Anche solo per questo motivo, Giulietto mi mancherà tantissimo.

GIULIETTO CHIESA. UN PROFILO BIO-BIBLIOGRAFICO

Giulietto Chiesa, di famiglia originaria di Carrega Ligure nell’Alta Val Borbera, nacque il 4 settembre ad Acqui Terme, la più piemontese delle terre liguri; o, se si preferisce, al più ligure delle terre piemontesi. E aveva le qualità di entrambe quelle terre vicine eppur diverse: la sobrietà e l’asciuttezza dei liguri, la severità e la tenacia dei piemontesi.
Dopo essersi occupato tra 1967 e 1968 di politica e di organizzazione degli studenti universitari dell’Unione Goliardica Italiana e dirigente della Federazione Giovanile Comunista Italiana, fu dal 1979 al 1980 dirigente della federazione di Genova del Partito Comunista italiano e, dal 1975 al 1979, capogruppo del PCI nel Consiglio Provinciale della medesima città che – nonostante i numerosi e lunghi viaggi – avrebbe continuato per sempre ad essere profondamente “sua”. Si distinse per il rigore e la vivacità con la quale criticò il “nuovo corso” del PCI, manifestando posizioni che rifuggivano da tatticismi o da visioni troppo ristrette della politica internazionale e non temevano di apparire impopolari nel suo stesso partito nella misura in cui continuavano, con profonda libertà critica, ad apprezzare le linea a e le scelte dell’Unione Sovietica.
Entrato quindi in dissidio con il PCI ligure entrò in quanto giornalista professionista ne L’Unità e fu inviato da quel giornale a Mosca come corrispondente per le Olimpiadi del 1980. Vi rimase a lungo, mostrando anche in quelle funzioni libertà e indipendenza di giudizio tali che l’agenzia ufficiale sovietica TASS ne chiese la rimozione: e si dovette a Enrico Berlinguer se quelle pressioni non ebbero effetto. Seguì con attenzione e partecipazione le vicende della guerra in Afghanistan, facendo parte di quella pattuglia di giornalisti collaboratori della RAI che, per quello che fu giudicato (a torto) un acceso filosovietismo, si meritarono la denominazione di “Radio Kabul” e l’epiteto dei “kabulisti”. La questione afghana sarebbe da allora rimasta al centro dei suoi interessi e anche dei suoi sentimenti: per Guerini e Associati pubblicò Afghanistan anno zero assieme al giornalista e disegnatore satirico Vauro Senesi (con prefazione di Gino Strada, il chirurgo fondatore di Emergency), che avrebbe superato le 115.000 copie vendute.
Gli anni moscoviti furono di duro e serio lavoro: imparò quasi alla perfezione la lingua russa imponendosi come uno dei principali “cremlinologi” italiani stringendo amicizia con ex-dissidenti riabilitati quali Roj Medvedev e Lev Karpinskij nonché con lo stesso Mikhail Gorbaciov. Verso la fine degli anni Ottanta si distinse per sostanziosi contributi al quotidiano La Stampa. Dal 1° settembre 1989 al 1° agosto 1990 lavorò come fellow del “Kennan Institute for Advanced Russian Studies” al “Woodrow Wilson International Center for Scholars” di Washington, ponendo la sua esperienza al servizio del progetto Democratization of Soviet Society: Problems and Possibilities, nell’àmbito del quale presentò nel giugno 1990 un occasional paper sul tema Transition to Democracy in the USSR: Ending the Monopoly of Power and the Evolution of New Political Forces. Si trattava di un lavoro condotto sulle linee della più rigorosa metodologia di ricerca.
Intanto, seguendo le cose russe e afghane, stava guadagnandosi una meritata fama di competente nelle complesse questioni asiatiche. Destò interesse e polemiche il suo saggio dedicato al grottesco tentativo fallito della Delta Force di recuperare gli ostaggi statunitensi nell’ambasciata americana a Teheran (Operazione Teheran, De Donato, Bari, 1980), molto seguiti furono i suoi lavori sul passaggio dall’URSS alla nuova Russia: L’Urss che cambia (Editori Riuniti, Roma, 1987) assieme a Roj Aleksandrovič Medvedev, uscì prima negli Stati Uniti (Time of Change, Pantheon Books, 1990), e successivamente in forma di dialogo nel 1990, per Garzanti, col titolo La rivoluzione di Gorbaciov. Una nuova edizione, rimaneggiata e aggiornata assieme a Douglas Northrop, (Transition to Democracy, University Press of New England, 1991) uscì prima negli Stati Uniti e poi in Russia (Perechod k Demokracij, Meždunarodnye Otnošenija, 1991). Seguirono Cronaca del Golpe Rosso, Baldini & Castoldi, Milano, 1991, e Da Mosca. Cronaca di un colpo di Stato annunciato, Laterza, Bari, 1995. Veri e propri best sellers furono Russia Addio (Editori Riuniti, Roma, 1997), tradotto anche in lingua russa (Proščaj Rossija, Editrice Geja) con largo successo di pubblico (oltre 80.000 copie), e successivamente in lingua cinese (Editrice Nuova Cina, Pechino, 1999) e in lingua greca (Kastaniotis, Atene, 2000), nonché Roulette russa (Guerini e associati, Milano, 1999), uscito anche in Russia nel luglio 2000 (Russkaja Ruletka, Prava Cheloveka, 2000).
L’11 settembre 2001 segnò per lui una svolta epocale, obbligandolo a pensare attentamente a quell’evento – sul quale constatò l’impossibilità di allinearsi alla vulgata occidentale – e, alla luce di quanto d’inquietante andava al riguardo emergendo, denunziare poi la nuova fase aggressiva dell’imperialismo statunitense appoggiato all’ideologia “neoconservatrice” e al business delle lobbies internazionali.
Dal 2001 si dette allo studio attento e sistematico, profondamente “controcorrente” e “controvento”, dei temi della globalizzazione economica, politica e militare, accordando attenzione particolare agli effetti della globalizzazione e del “pensiero unico” sui mass media e giungendo a risultati analoghi a quelli conseguiti al riguardo da Noam Chomsky. Era inevitabile che lo studio e la ricerca si traducessero, in lui, in militanza e in denunzia. Nella primavera 2002 la Feltrinelli pubblicò La guerra infinita, anch’esso a lungo fra i saggi più venduti in Italia, con traduzione tedesca: Das Zeitalter des Imperiums, Europaische Verlagsanstalt, Hamburg, 2003. Sempre con Feltrinelli pubblicò nel marzo 2003 il libro Superclan, scritto assieme a Marcello Villari; a Mosca usciva invece Beskonečnaja Vojna (Detektiv-Press, 2003), una raccolta di saggi comprendente parti di Afghanistan anno zero, di La guerra infinita e di Superclan; nel 2004 la casa editrice Nottetempo pubblicò La guerra come menzogna, di cui esiste una versione in lingua francese, per la Timeli di Ginevra. La guerra infinita è stata anche tradotta in inglese e in spagnolo. Nottetempo pubblicò anche Invece di questa sinistra, con il suo programma politico per le elezioni europee. Sempre nel 2004 aveva pubblicato per le edizioni Piemme, assieme a Vauro, I peggiori crimini del comunismo, una denuncia satirica del passato “rosso” di alcune delle persone più vicine a Silvio Berlusconi, a quel tempo Presidente del Consiglio. Di questo libro esiste un’ulteriore versione del 2005. Giunse infine, nel 2005, Cronache Marxiane (Fazi, Roma), implacabile denunzia del nuovo imperialismo e del “superclan” dei padroni del mondo – dalle banche d’affari anglosassoni ai soci di Osama bin Laden, da Berlusconi a George W. Bush – nonché della “macchina dei sogni”, l’onnipervasivo sistema contemporaneo dei media e la loro attività dell’ambiente dei costruttori instancabili di menzogne. Due anni prima aveva denunciato la natura a suo parere strumentale dei pretesti con cui erano state scatenate le guerre in Iraq e Afghanistan, assieme a un novero ristretto di collaboratori come Franco Cardini, Fabio Mini e Marco Tarchi. Sugli stessi temi scrisse Prima della tempesta (Nottetempo, 2006) mentre, assieme a Megachip, promoveva un gruppo di lavoro che indagava sulle vicende degli attentati dell’11 settembre 2001 in un senso fortemente critico nei confronti delle inchieste tecniche e giudiziarie e delle interpretazioni correnti dei mass media. All’interno di questo gruppo di lavoro Chiesa è autore, insieme a Franco Fracassi, di Zero – Inchiesta sull’11 settembre, un film documentario presentato in anteprima nel 2007 nella sezione documentari al festival di Roma, ma messo in vendita per il pubblico solo a maggio del 2008, con significativi tagli e correzioni. Frattanto otteneva anche un seggio all’Europarlamento Europeo.
A questo punto la sua serrata attività e il fatto che non si fosse riusciti a identificare chi lo finanziasse – forse per la semplice ragione che non lo finanziava nessuno – avevano fatto saltare i nervi all’establishment. Si decise che dava fastidio. Il suo lavoro fu oggetto di critiche sistematiche durissime, di autentiche campagne di ben orchestrato linciaggio politico (perseguito col presumibile sostegno di buoni mezzi economici) nel corso delle quali si rilevarono senza dubbio errori e inesattezze in alcuni dei suoi molti lavori ma non si riuscì a scalzare la solidità di fondo della sua impostazione e la profonda correttezza di alcune delle sue analisi. Si dette allora sfogo all’abituale armamentario mediatico che il sistema utilizza quando si tratta di mettere a tacere o di spingere ai margini mediatici qualcuno: Chiesa venne accusato di essere un “complottista”, un “cospirazionista”, un “filoterrorista”. Quando e finché fu possibile, si fece di tutto per chiudergli la bocca e per emarginarlo, addirittura ridicolizzandolo. Nei casi estremi si ricorse al massiccio attacco frontale alla calunnia, alla menzogna, alla censura, all’esclusione dai media.
Si autodifese. Rispose nel gennaio 2010 tramite un appello-manifesto pubblicato sul suo sito www.giuliettochiesa.it, dette il via il via all’associazione politica “Alternativa” e nel 2014 fondò PANDORATV.IT, televisione online, nella cui redazione multimediale svolse il ruolo di coordinatore. Tentò la costruzione di nuove forze partitiche, ma in ciò la scarsità di mezzi dei quali disponeva non lo condusse e un buon esito. In cambio, efficaci e felici sono state le sue campagne di controinformazione a proposito delle cosiddette “Primavere arabe” e delle questioni connesse con la Libia, la Siria e l’ISIS. Senza dubbio spesso abbracciò – e coscientemente – delle “cause perse”, s’impegnò in duelli donchisciotteschi contro mulini a vento molto più forti e perfidi di quelli della Mancha. Ma non cercava né il successo, né il consenso. Fu spesso battuto: ma non fu mai un “perdente”.
Se amassimo il vittimismo, potremmo denunziare il fatto che Chiesa fosse guardato con sospetto – anche dalle sinistre – fino dagli anni Ottanta del secolo scorso, e con autentica ostilità accompagnata da malafede e da vis persecutoria dal Nine Eleventh 2001 in poi. Ma il vittimismo non ci piace e non piaceva a lui.
Diciamo quindi che Chiesa era un uomo politico, uno scrittore, un giornalista di grande talento che, se avesse accettato compromessi e condizioni, avrebbe senza dubbio avuto più riconoscimenti dei molti che pur ebbe e raggiunto posizioni notevoli nel mondo sia della politica sia dei media. Scelse la via dura e accidentata della testimonianza e dell’onestà, seguendo il principio – in generale ben poco remunerativo – dell’Amicus Plato, sed magis amica Veritas. Commise senza dubbio errori e inesattezze, pagando sempre di persona. Ma fu ostacolato, emarginato, “abbuiato” quanto fu possibile non per quel poco che poté sostenere di falso o di sbagliato, bensì per il molto che denunziò e che smascherò dimostrando che la sua battaglia non era soltanto generosa, ma anche giusta e vera. Avrebbe potuto avere molti più successi e onori, se solo fosse sceso a compromessi per ottenerli. Ma una decorazione, gliela diamo adesso, qui, tutti noialtri. La parola con le quali, nel Giulio Cesare di Shakespeare, Marco Antonio prende commiato dal corpo senza vita di Bruto: “Questo fu un uomo”.

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