Fonte: il manifesto
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Inps. La prima storia di un popolo che rappresenta il futuro di un paese con i bassi salari, senza tutele e della povertà estrema. Un milione e 400 mila persone in stragrande maggioranza under 35: inattivi, precari e intermittenti. A contatto con la realtà di un paese fondato sul lavoro nero che resta in gran parte sott’acqua.
Tutto (o quasi) quello che vorreste sapere sui voucher, e non avete mai osato chiedere, si trova oggi nella ricerca commissionata dall’Inps a Bruno Anastasia, Saverio Bombelli e Stefania Maschio «Il lavoro accessorio dal 2008 al 2015». Il paper, lanciato su twitter dal presidente dell’istituto previdenziale Tito Boeri, chiarisce che il buono da 10 euro destinati al pagamento orario delle prestazioni occasionali non servono a fare emergere il lavoro nero e in molti casi rappresenta l’unica fonte di reddito a disposizione di chi non è mai entrato nell’«Olimpo» dei contratti stabili. La maggioranza del milione e 380 mila percettori dei buoni lavoro nel 2015 opera in nero e, solo in parte, viene pagata con i voucher. I lavoratori maschi tra i 30 e i 50 anni che sono effettivamente emersi dal nero rappresentano una componente irrisoria e, tra l’altro, hanno un costo aziendale medio annuo tra i 6-700 euro ciascuno. In realtà, i voucher sono un «iceberg» e segnalano che il «nero» è in gran parte rimasto sott’acqua. Il lavoro a scontrino va piuttosto inteso come una prestazione associata molto spesso al lavoro part-time.
Il popolo dei voucher
Il lavoratore svolge le stesse mansioni per la stessa azienda che tuttavia lo inquadra in posizioni diverse: per un certo periodo può farlo lavorare con un part-time, poi lo licenzia e gli impone di lavorare con i voucher. Altre volte, soprattutto nel turismo, il voucher può essere usato in testa e in coda alla stagione, mentre nel periodo centrale il lavoratore può essere inquadrato con un contratto a termine o con la partita Iva. In ogni caso più di un quarto dei prestatori ha o ha avuto rapporti di lavoro dipendente o parasubordinato con il committente della prestazione occasionale che usa, in maniera programmatica, tutte le possibilità offerte dal supermarket del precariato italiano a proprio beneficio. Su questa base, i ricercatori spiegano la rilevanza assunta dal cosiddetto «part-time involontario» sul mercato del lavoro italiano. La controprova è fornita dalla bassa «conversione» dei voucheristi in lavoratori a tempo indeterminato o determinato.
Sono quattro le identità che compongono il popolo dei voucher: occupati part-time sono il 45%, lavoratori full-time a tempo determinato o stagionali, poco meno del 30%, i lavoratori con impiego standard, e cioè full-time a tempo indeterminato, poco più del 20% (di questi, circa uno su cinque ha impiego continuo); 4. prestatori che hanno percepito solo l’ammortizzatore (quota residuale).
In sostanza chi stacca un voucher è inserito in una carriera lavorativa altamente discontinua o a orario ridotto. La stragrande maggioranza si muove tra diversi contratti a termine, o part-time, e integra il proprio reddito con i voucher. In Veneto è emerso che il 50% del totale degli «inattivi» (soprattutto donne e giovani) lavora in questo modo. Il problema è che il voucher è diventato una forma del lavoro a se stante e non porta a nessuna evoluzione professionale o sociale. «Il voucher è paragonabile a un flirt programmaticamente senza conseguenze» scrivono i ricercatori. Dietro di sé non lascia uno strascico previdenziale e non servono a calcolare l’anzianità di un lavoratore. Per arrivare a 20 anni minimi, tra buchi, lavori al nero, periodi con contratto o senza il lavoratore ne deve lavorare ben di più percependo importi ridottissimi. Se mai riuscirà ad arrivare alla pensione, potrà continuare a lavorare con i voucher. Questa è la vera anticipazione del futuro: il voucher – liberalizzato nel 2012 e poi dal Jobs Act – è un allegoria che rivela il destino del lavoro precario oggi. Sarà ancora più vero quando, anche in Italia, diventerà realtà il lavoro sulle piattaforme digitali – il «crowdwork», il lavoro della folla.
Il paper dell’Inps avanza una tesi robusta: come i contratti di lavoro intermittente, poi aboliti, anche i voucher servono a occultare il lavoro nero. Inoltre, la riduzione di alcune forme della parasubordinazione effettuata dal Jobs Act ha spostato, al ribasso, quei lavoratori verso i voucher. Oggi c’è il fondato sospetto che i voucher siano sostitutivi del lavoro a termine in molte situazioni eterogenee. Ieri il governo ha ristabilito il limite a 2 mila euro per i voucher in agricoltura. Le condizioni del «boom» dei voucher restano, nonostante la riforma della tracciabilità annunciata dal governo: non sono stati infatti ridotti gli ambiti di applicazione.
Il girone infernale
Dal 2008 al 2015 i governi hanno così trasformato – a tavolino – la natura e lo scopo dei voucher e la loro platea. I buoni lavoro (voucher) sono stati introdotti nel 2003 per regolare le attività lavorative di tipo accessorio e di natura meramente occasionale. Sono rimasti inapplicati fino al 2008, quando il governo Prodi lanciò la “sperimentazione” nella vendemmia. Il mercato apprezzò immediatamente: i voucher venduti, da agosto fino alla conclusione dell’anno furono mezzo milione. La “sperimentazione” fu continuata dal successivo governo Berlusconi che con una legge del 2009 incluse gli enti locali tra i soggetti che possono utilizzare i voucher per attività di giardinaggio, pulizia e manutenzione di edifici, strade, parchi e monumenti.
La costruzione del nuovo soggetto-precario è continuata l’anno successivo quando fu aperto un altro canale della vendita dei voucher: i tabaccai. Luogo simbolico per eccellenza del nuovo lavoro che può essere acquistato insieme a sigarette o alle schedine della Lottomatica. Ormai il voucherista può essere disoccupato, inoccupato, lavoratore autonomo o subordinato, anche i full-time interessati a lavorare in uno di questi settori:lavori domestici, lavori di giardinaggio, pulizia e manutenzione, insegnamento privato supplementare. Una norma della legge Berlusconi ha previsto che i committenti possano ricorrere a prestazioni di lavoro accessorio e utilizzare giovani con meno di 25 anni di età, pensionati, soggetti percettori di misure di sostegno al reddito, lavoratori part time. Nel 2011 è stato attivato un quarto canale di distribuzione dei voucher, le Banche Popolari, e a inizio 2012 un quinto: gli uffici postali del territorio nazionale. L’Italia è un gigantesco emettitore di lavoro a scontrino.
Per il governo Berlusconi il voucher ha rappresentato un’ossessione: nel 2012 ha liberalizzato l’utilizzo dei buoni lavoro per quanto riguarda gli ambiti soggettivi e oggettivi. Solo il limite economico netto è stato ristretto: il tetto di 5 mila euro l’anno non è più da determinare per ogni singolo committente, bensì in relazione alla pluralità dei committenti.Le prestazioni svolte a favore di imprenditori o professionisti non possono superare i 2 mila euro annui, con riferimento a ciascun committente. Il Jobs Act di Renzi, con un decreto legislativo sul riordino dei contratti di lavoro, ha apportato alcune modifiche, innalzando il limite economico netto di 5 mila euro a 7 mila euro, inoltre ha stabilito che i committenti imprenditori possano acquistare i buoni lavoro solo attraverso la procedura telematica.
Nel 2011 si erano raggiunti i 15 milioni di voucher, nel 2015 si sono superati i 115 milioni. Nel 2015 i committenti erano 472 mila, i lavoratori coinvolti 1 milione e 380 mila. si può stimare che la quota di voucher utilizzati nell’ambito del commercio e dell’alberghiero-ristorazione valga circa la metà del totale dei buoni lavoro esistenti. Tutto compreso, questa cifra potrebbe generare almeno 100 mila contratti a tempo determinato.
Profilo del voucherista
Da questa tabella si nota immediatamente la trasformazione generazionale della platea dei voucheristi. Se nel 2008 l’età media era di 60,7 anni, nel 2015 è crollata a 37,3 anni, tra gli uomini; da 56,6 a 34,7 tra le donne. Nello stesso periodo è triplicato il numero medio dei voucher riscossi: da 20,1 a 62,8 per i primi; da 17 a 64,7 per le seconde. Si è passati da 24.755 voucheristi nel 2008 a 1.380.030 nel 2015. In sette anni dunque il voucher è diventato uno strumento – al margine del diritto del lavoro o del tutto estraneo – di governo di una forza lavoro relativamente giovane e con una forte componente femminile (710 mila contro i 669 mila).
Da strumento per lavoratori maturi o anziani, il voucher è diventato uno strumento per il “dressage” al precariato estremo dei giovani che nel 2015 assorbono il 43,1% dei buoni lavoro. Si è rafforzato il rilievo dei trentenni (20,6%) e dei quarantenni (17,4%). Agli over 60 è rimasta una quota modesta (8%).
Capire quanto guadagnano queste persone può essere sconvolgente, soprattutto se si considera che in molti casi il voucher è l’unica forma di reddito “in chiaro” dichiarata. Nel 2015 i lavoratori hanno riscosso in media 63,8 voucher ciascuno, hanno riscosso 478 euro netti in dodici mesi. Il valore della mediana è decisamente inferiore per 29 voucher riscossi l’importo percepito in un anno è uguale o inferiore a 217 euro netti. Solo il 2,2% dei prestatori (circa 30 mila persone) ha riscosso nel 2015 più di 300 voucher: il guadagno è stato di 2.250 euro in un anno. Oltre un milione di prestatori d’opera guadagnano cifre che non hanno alcuna rilevanza per la maturazione di una pensione.
Altrettanto interessante è la crescita esponenziale dei committenti, molti dei quali aziende di piccolissime dimensioni che utilizzano un numero spropositato di voucher. Si passa dai 9.728 del 2008 ai 472.747 del 2015. Si tratta in maggioranza di imprese del settore privato non agricolo e agricolo e di autonomi artigiani e commercianti. Le aziende dell’industria e del terziario con dipendenti sono circa 246 mila, oltre la metà sono attive nei settori “Alberghi e ristoranti” (75 mila) e “Commercio” (53 mila). Le aziende industriali sono state 41 mila: il gruppo relativamente più numeroso è quello delle aziende alimentari.
Voucher strumento per lavorare durante la disoccupazione
In questa condizione si trovano oltre 300 mila prestatori (per i quali il lavoro accessorio, pur non costituendo l’unica esperienza lavorativa della vita, risulta comunque la fonte esclusiva di reddito da lavoro nell’anno osservato. L’età media risulta in tendenziale crescita (36,6 anni nel 2015, tre anni in più rispetto al 2010) mentre la quota di donne, sempre maggioritaria, ha oscillato tra il 54% del 2010 e il 57% del 2015. Questo gruppo include sia situazioni di disoccupazione di lunga durata (anche post ammortizzatori) sia situazioni afferenti a soggetti che cercano un rientro (anche parziale) nel mercato del lavoro. Per circa il 40% di questa categoria che i ricercatori dell’Inps definiscono “silenti” l’ultima posizione assicurativa attiva risale all’anno immediatamente antecedente e per un altro 20% la distanza dalla precedente esperienza lavorativa (o dal periodo di disoccupazione indennizzata) è attorno ai due anni.
Nuova geografia di una nazione precaria
La creazione del girone infernale del precariato ha sconvolto la tradizionale separazione tra il Nord e il Sud del paese. L’immagine del paese è diversa: il nuovo lavoro accessorio è maggiore nelle regioni caratterizzate dal terziario turistico e dall’agricoltura: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna concentrano il 40% dei percettori di voucher nel 2015. Lazio, Campania e Sicilia – regioni densamente popolate – hanno invece pochi voucheristi.
La vita è una porta girevole tra un voucher e un part-time, una pausa attiva tra momenti di precariato e altri di lavoro informale e in nero. Quello che conta è la permanente attivazione alla ricerca di un reddito che non arriva mai. Anche il nome viene negato a questa condizione: “Neet”, “inattivi”, “disoccupati”, o persino “dipendenti”: così spesso le statistiche contabilizzano i voucheristi.
Il problema del salario minimo
I ricercatori pongono al termine di un paper che rappresenta il primo, significativo, affondo sulla maledetta storia del lavoro occasionale in Italia, un problema decisivo: se è giusto prospettare l’assorbimento di una parte sostanziosa dei voucheristi nel perimetro del contratto – si spera non di quello esistente, considerati i limiti del regime della parasubordinazione – come regolare i micro-lavori?
Alcuni ritengono che l’importo di 10 euro a voucher rappresenti una prima soglia per avvicinarsi al salario minimo per tutti. Se infatti integrato in un contratto – e non nel sistema dei voucher – questa cifra arricchita di altri 5 euro (mettiamo) potrebbe infatti rappresentare una soglia interessante. Altri, soprattutto dal lato sindacale, escludono questa ipotesi poiché – alla luce degli spiriti animali delle imprese italiane – tutti i salari sarebbero parificati a questa soglia minima producendo un effetto disastroso. Nell’incertezza continua ad allargarsi la zona grigia che rischia di attrarre tutto il lavoro “non tipico” verso il buco nero del lavoro occasionale.