da Pagine99.it
Banche: Ritratto del vecchio manager di Intesa coinvolto in un’inchiesta della procura di Bergamo. Avrebbe ostacolato la vigilanza e influito sulle nomine degli organi di Ubi Banca. Diego Della Valle l’ha chiamato l'”arzillo vecchietto”.
Costretto dalla norma sui doppi incarichi, varata nel 2011 dal governo Monti, si è tenuto l’incarico più rilevante, quello di presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, e ha lasciato Mittel e Ubi Banca. Di questa è rimasto socio e presidente di un’associazione di azionisti. In questo ruolo si è beccato una perquisizione della Guardia di finanza e adesso risulta indagato per ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia nell’ambito di un’inchiesta della procura di Bergamo che coinvolge i vertici di Ubi. Secondo gli inquirenti, Bazoli avrebbe influito sulle nomine degli organi dell’istituto nato dalla fusione fra la Popolare di Bergamo e la bresciana Banca Lombarda. L’ipotesi è di un patto occulto finalizzato a predeterminare l’elezione degli vertici insieme con un’altra associazione che fa capo all’ex presidente Emilio Zanetti.
Come per tutti anche per Bazoli vale la presunzione di innocenza. E va anche dato il giusto spazio alle parole del suo legale, secondo cui tutti gli accordi fra azionisti di Ubi sono stati recepiti «negli statuti e in atti ufficiali debitamente comunicati». Ma il rispetto della normativa da parte di un avvocato professore cattolico che scrive saggi sulla giustizia cristiana e ha fatto dell’etica una parola chiave di ogni suo intervento pubblico, è il minimo che ci si possa aspettare. Ci sarebbero poi il senso della misura e quello dell’opportunità. Quella per esempio, che un banchiere si tenga lontano dagli affari societari di una banca concorrente, anche se si questa ultima si ostina a rimanere socio. Oppure di non offrire lo spettacolo di familismo che si pretende morale, in cui figlia e genero assumono incarichi o consulenze nella predetta banca.
Negli ultimi anni, poi, il passo del salvatore del Banco Ambrosiano ha perso la sicurezza di un tempo. Sono così emersi l’affaire Romain Zaleski, il finanziere franco-polacco finito a mal partito e che fu una stampella del potere bazoliano, i problemi della finanziaria Mittel, i guai del gruppo Rcs, editore del Corriere della Sera, quotidiano milanese della cui indipendenza Bazoli si è eretto a tutore da alcuni decenni. Cortesie ricambiate con la pubblicazione di paginate di riflessioni teologiche del banchiere bresciano e periodiche ricostruzioni celebrative dell’operazione di salvataggio del Banco che Roberto Calvi aveva portato al dissesto nei primi anni ’80.
Tanto plauso – cui ha fatto eccezione l’epiteto di “arzillo vecchietto” lanciato dall’imprenditore Diego Della Valle – non ha aiutato certamente l’anziano banchiere a prendere le distanze da un mondo giunto al capolinea. Al contrario, ancora pochi mesi fa, intervistato dal Financial Times, ha difeso a spada tratta il capitalismo di relazione che è stato e continua a essere un freno all’imprenditorialità in Italia, tentando un distinzione fra relazioni negli affari “positive o negative, corrette e trasparenti oppure corrotte e intricate”. Quasi a negare l’esistenza stessa del problema. E del resto, anche su questioni più terra terra come per esempio l’influenza che le fondazioni bancarie esercitano su Intesa Sanpaolo, la linea Bazoli è di negare l’evidenza più macroscopica. A cominciare dalle ragioni che spingono Intesa a mantenere in Italia una costosa organizzazione per banche territoriali più o meno corrispondenti alle aree di pertinenza delle fondazioni azioniste, invece di passare a una struttura più snella. C’è un tempo per tutto, dicono. Di fronte alle crepe profonde di un sistema giunto al capolinea, Bazoli pensa di essere ancora parte della soluzione.