Ginzburg: vi racconto il lato oscuro di Pavese tra irrazionalismo e tentazioni reazionarie
Intervista allo studioso che lo frequentò in giovane età: “Mi consigliò un libro in cui Salgari anticipava il suo suicidio”. Stasera alle 20,30 “Dialogo su Pavese”, documentario conclusivo di “Vita Nova” del Salone del Libro – video
Cesare Pavese non smette mai di spiazzare. A settant’anni dalla morte, il 27 agosto 1950 per overdose di sonniferi in una stanza dell’Hotel Roma di piazza Carlo Felice, l’idea che attorno al suo nome resista la vulgata monumentale e condivisa si incrina sempre di più. Ultimo a riaprire il caso è Dialogo su Pavese, il documentario che questa sera chiude in streaming gli appuntamenti di Vita Nova. Nel video Giulia Boringhieri intervista Carlo Ginzburg. Lei traduttrice, storica dell’editoria e figlia di Paolo che fu amico e collega di Pavese all’Einaudi. Lui Pavese l’ha conosciuto da bambino, amico e collega della madre Natalia in Einaudi. E molti anni dopo ha acceso i suoi proiettori da grande storico affascinato dai temi dell’irrazionale, del magico, del rituale. Li ha puntati su zone dell’universo pavesiano ancora in ombra, che hanno rivelato a sorpresa sagome sconosciute e inquietanti.
Professore, lei nel video racconta come nel suo incontro d’infanzia con Pavese questi avesse già ben chiara l’ipotesi suicida.
“È un ricordo molto vivido. Una sera del 1948 o 1949 Pavese venne a cena a casa nostra. Chiese a me e mio fratello: ‘Cosa leggete?’. ‘Salgari’. Ci suggerì: ‘Leggete La città del re lebbroso‘. Non lessi quel romanzo fino a poche settimane fa, quando mi venne inviato dalla studiosa di storia Cora Presezzi, alla quale avevo inviato la videointervista. Rimasi turbato. Pavese, da tempo ossessionato dal suicidio, ci consigliava un libro che contiene l’insistita descrizione di un tentato suicidio, scritto (come mi resi conto tanto tempo fa) da uno scrittore, Salgari, anch’egli morto suicida”.
Pavese è stato importante per la sua formazione di storico?
“Quando a vent’anni decisi di studiare i processi di stregoneria, mi proposi di recuperare le voci delle vittime, uomini e donne. Era il 1959. A quell’epoca il tema della persecuzione della stregoneria era per gli storici marginale; delle vittime si occupavano solo gli antropologi, nel loro lavoro sul campo. Nella mia scelta di concentrarmi sulle vittime vedo retrospettivamente un esempio minimo del dialogo fra storici e antropologi che s’intrecciò negli anni ’60 e ’70. Fra i libri che mi hanno spinto in quella direzione ce n’erano alcuni, tutti pubblicati da Einaudi, che mia madre aveva portato a casa tornando dal lavoro. I Quaderni dal carcere di Gramsci (sul tema della cultura delle classi subalterne ho continuato a riflettere fino ad oggi), Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, Il mondo magico di Ernesto de Martino e i Dialoghi con Leucò di Pavese. Molto diversi fra loro, ma uniti nella mia mente da un intreccio fortissimo. Di Pavese avevo già letto alcuni romanzi, ma i Dialoghi mi fecero un’impressione profonda, perché presentavano il mito nella sua nudità, senza interpretazioni. È un libro misterioso, che rinvia alla Collana viola Einaudi, su cui Pavese e de Martino lavorarono assieme tra il 1945 e il 1950″.
Lo scrittore disincantato e l’antropologo attratto dal magico e irrazionale. Due personalità in apparenza lontanissime.
“Su Pavese ‘disincantato’ ho dei dubbi. Certo tra i due ci furono forti tensioni, documentate dal carteggio pubblicato da Pietro Angelini nel suo studio del 1991 sulla Collana viola. Pavese mandò a de Martino una copia dei Dialoghi con Leucò, ma questi non rispose mai. I due si erano incontrati a Roma nel 1942. Quando de Martino si presenta a Pavese come membro della Società italiana di metapsichica, Pavese gli propone di presentare la metapsichica a un pubblico più ampio. Il mondo magico nasce di qui. La biografia intellettuale di de Martino ha, com’è noto, molti strati, e riserba non poche sorprese. Nel suo Naturalismo e storicismo nell’etnologia, edito nel 1940 da Laterza, il de Martino, allora crociano, loda la lucidità di pensiero dell’antropologo nazista Wilhelm Emil Mühlmann. E nel Mondo magico ricompare la Methodik der Völkerkunde del 1938 di Mühlmann, che a mio parere aveva indirizzato de Martino verso Heidegger. Dunque, negli anni ’40 l’attenzione alla cultura reazionaria, addirittura nazista, era condivisa sia da de Martino sia da Pavese, come testimonia il suo Taccuino segreto. Se ci fosse stata una sostanziale incompatibilità di vedute fra de Martino e Pavese la Collana viola non sarebbe mai nata. Ma le tensioni tra i due furono, come si è detto, molto aspre”.
Poco prima della sua morte Pavese venne definito “cattivo compagno”. Il famoso Taccuino segreto, ritrovato fra le carte pavesiane e pubblicato nel 1990 da Lorenzo Mondo, e ora in edizione critica da Aragno, riporta pensieri scomodi, inaccettabili per molti e certo incompatibili con l’icona politica e resistenziale immaginata da qualcuno.
“Il Taccuino segreto contiene appunti non destinati alla pubblicazione, diversamente dal Mestiere di vivere. Lorenzo Mondo, che aveva scoperto il Taccuino, lo mostrò a Italo Calvino, che ne fu profondamente turbato, come lo fu mia madre, quando venne pubblicato su La Stampa nel 1990 dopo la morte di Calvino. Io lo lessi allora. Ci sono battute sprezzanti sugli antifascisti e una frase terribile che liquida le atrocità dei nazisti: ‘Se anche fossero vere, la storia non va coi guanti’. Carlo Dionisotti, che definì questo passo ‘turpe’, cercò di inserire il Taccuino nel contesto della biografia di Pavese. Penso che si debba fare un passo ulteriore, legandolo all’elaborazione della poetica di Pavese, imperniata, soprattutto a partire dagli anni ’40, sui temi del mito e del sacrificio. Pavese aveva letto Il ramo d’oro di Frazer nel 1933. Nei primi anni ’40 ripensò Vico in una prospettiva che lo porterà a scrivere i Dialoghi con Leucò. Ma le radici di questa poetica sono già reperibili in Lavorare stanca, per esempio in una poesia come Il Dio Caprone. Lo studioso francese Martin Rueff ha curato per Gallimard la traduzione delle Opere di Pavese: un volume che si apre con il Ritratto di un amico, che mia madre dedicò a Pavese, e si chiude con il saggio del 1966 di Italo Calvino Pavese e i sacrifici umani. Vale la pena di citare da quest’ultimo un passo illuminante: ‘Il tono di Pavese quando accenna alla politica è sempre un po’ troppo brusco e tranchant, a scrollata di spalle, come quando già tutto è inteso e non vale la pena di spendere altre parole. Non c’era nulla di inteso, invece. Il punto di sutura tra il suo ‘comunismo’ e il suo recupero d’un passato preistorico e atemporale dell’uomo è lungi dall’essere chiarito. Pavese sapeva bene di maneggiare i materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo: sapeva che se c’è una cosa con cui non si può scherzare, questo è il fuoco’. Un Pavese ‘comunista’ tra virgolette, che scherza col fuoco. Sono parole significative, perché Calvino, più giovane di Pavese, aveva nei suoi confronti un rapporto di gratitudine e di profondo affetto. Si tratta del primo documento della ricezione del Taccuino segreto, ventiquattro anni prima della sua pubblicazione”.
Il Pavese del Taccuino segreto è un Pavese reazionario. È possibile che nel suo periodo alla Einaudi di Roma sia entrato in contratto con Julius Evola e con i circoli neopagani della Capitale?
“Nel 1949 Pavese scrisse a Giuseppe Cocchiara: ‘Evola ci propone La grande triade‘ di René Guénon: un libro che Einaudi non pubblicò. Pubblicò invece, nello stesso anno 1949, Il cannibalismo di Ewald Volhard, con una prefazione di Giulio Cogni, autore di libri razzisti, che l’aveva proposto a Pavese. Su tutto ciò bisognerà continuare a riflettere. Io non ho mai scritto direttamente su Pavese. A lui mi unisce il forte legame che aveva con i miei genitori, e il debito intellettuale che ho verso i suoi scritti. In ogni caso, l’interesse per l’opera e l’itinerario di Pavese è oggi vivissimo”.