Fonte: La Stampa
Gianni Cuperlo è amareggiato dopo il caos in Basilicata, «la prima cosa che mi viene da dire è che sarebbe giusto chiedere scusa. Gli elettori vanno rispettati e la prima condizione per confermare o conquistare la loro fiducia è non deluderli». Ma non si tratta di mancanza di regia, «in questi mesi Elly Schlein e il Pd abbiano dimostrato generosità. Siamo consapevoli di essere la forza maggiore, senza di noi un’alternativa non è possibile, ma da soli non bastiamo. Il punto è far vivere un’alleanza più larga con le altre opposizioni, il civismo, spinte sociali, movimenti».
Conte e Calenda ogni giorno dicono che non siete una vera alleanza. Che credibilità si può avere così?
«Da trent’anni a destra si è alternata una leadership egemone. A lungo Berlusconi, poi Salvini, ora Giorgia Meloni. Questa gerarchia ha reso più facile mettere sotto il tappeto differenze profonde e persino ostilità personali. Dai palchi si giurano amicizia anche se si detestano. Per aprire una crisi di governo basterebbero le parole dette ieri dal leader della Lega sul voto in Russia. Se non accade è perché il collante del potere è più forte dei principi politici e morali di quella parte».
Quale può essere il collante?
«Per noi è stato diverso. L’Ulivo nasce dall’incontro di culture consapevoli del bisogno di un federatore. Il Pd è stato erede di quella esperienza, ma in un contesto che ha cambiato il sistema politico. Scolpire nello statuto del Pd la coincidenza tra leader e capo della coalizione implicava un assetto quasi bipartitico. Oggi così non è e la costruzione di alleanze ampie è condizione per essere competitivi».
«Certo, la fatica dev’essere costruire quella visione comune superando veti e scomuniche. Il punto è cosa vogliamo siano quelle alleanze: se una somma di sigle oppure coinvolgere alcuni milioni di persone consapevoli dei guasti di questa destra e disponibili a uscire di casa e mettersi al servizio di un progetto comune».
Il problema pare il rapporto con M5s. La linea «testardamente unitaria» non rischia di diventare subalternità, come teme qualcuno nel Pd?
«In Sardegna non siamo stati subalterni. Siamo stati unitari e oggi al governo c’è una bravissima presidente mentre il Pd ha ottenuto un consenso doppio rispetto al M5s. Non bisogna avere timore delle scelte quando sono mosse da coerenza e concretezza. La segretaria fa bene a camminare sul sentiero che ha scelto. Poi è evidente che in una corsa dove ci si passa il testimone le condizioni per vincere sono almeno due: correre tutti nella stessa direzione e quando serve passarsi il testimone. Meno di questo e si guardano gli altri tagliare il traguardo».
Ma, per essere concreti, dovete parlare anche all’ex ceto medio, o questo non rientra in un discorso «di sinistra»?
«Sì, e a pieno titolo. Tutto sta a capire come parlare a quel pezzo di società che si sente impoverito e offeso. All’ultimo congresso alcuni tra noi hanno avanzato una proposta: dare vita a veri e propri comitati per l’alternativa, iniziative dal basso sui temi che interrogano la vita di famiglie, lavoratori e imprese, donne, studenti, migranti, precari. Una rete per dibattere, avanzare proposte, incalzare questa destra sulle sue contraddizioni. Non solo si può ancora fare, credo che adesso lo si debba fare anche per recuperare agli occhi di tanti credibilità e autorevolezza, valori fondamentali della politica».
Va bene cercare le alleanze, ma non dovreste in primis rafforzare il vostro partito?
«Sì, rafforzare il Pd è la condizione per convincere i potenziali alleati a essere meno riottosi. Questo non vuol dire esercitare l’arroganza del più forte ma riconoscere a tutte le culture e affluenti di una alternativa la loro funzione e necessità. Vuol dire anche cambiare questo partito con più coraggio e radicalità perché anche l’immagine offerta in questi giorni è figlia di un partito troppo chiuso nel perimetro dei suoi eletti. Al fondo se un merito le primarie hanno sempre avuto è stato quello di dare voce e peso a una sinistra più larga, e spesso più matura, del suo ceto politico».