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GENTE DI FABBRICA – di FEDERICO BELLONO e FILOMENA GRECO – ed. GRUPPO ABELE
Perché nel 2017 si pubblica un libro sulla fabbrica e sugli operai? Lontano dall’essere un’operazione nostalgica, parlare di fabbrica e delle condizioni degli operai e dei tecnici nel nuovo millennio significa rimettere al centro il lavoro e le persone, anche quando il precedente concetto di lavoro in fabbrica come “porto sicuro” è ormai esaurito e la fabbrica non è più luogo di aggregazione, creazione di coscienza sociale e politica, o anche, come la definisce qualche testimone, “famiglia”. Quando il tema del lavoro sembra sparito dal dibattito pubblico, soppiantato in grande stile dal più moderno concetto di azienda. La fabbrica però resta il luogo dove si sperimenta e talvolta si anticipa il cambiamento. Del modello industriale (automazione, industria 4.0), dei modelli organizzativi (telelavoro o smart working) e sociali (allungamento della vita lavorativa e slittamento dell’età pensionabile). Oggi, come dice Chiara Saraceno nella postfazione “La fabbrica, come altri luoghi di lavoro, da luogo di aggregazione e di identificazione collettiva, è diventata uno spazio in cui anche chi lavora fianco a fianco ha contratti, quindi interessi, diversi, che ostacolano non solo la difesa dei diritti, ma anche la possibilità di costruire relazioni di solidarietà e forme di identificazione comuni”. Torino, come molte altre in Italia, rimane, tuttavia, una città operaia, e le storie degli operai, dei tecnici, degli ingegneri di oggi sono il punto di partenza per un ragionamento sul futuro, o dovrebbero esserlo. Non un omaggio, quindi, a una storia in esaurimento, ma il racconto di una parte importante del presente e del futuro di questo Paese. SINOSSI – Filomena, Daniela, Andrea, Nina, Luciano, Sergio, L.C., Pier Paolo, Simona, Beppe, Ivan, Barbara, Mario, Michele, Jarquin sono le voci di questo libro. Metalmeccaniche e metalmeccanici del Torinese, dove la crisi ha picchiato duro, ma che è tuttora un punto di riferimento da cui chi si occupa di lavoro non può prescindere. Filomena è entrata in una fabbrica a venticinque anni. Nel 2000. “Non una fabbrica qualsiasi – racconta – mi hanno chiamata all’Olivetti di Leinì”. Oggi lavora in un call center del Gruppo Telecom. “Sono stata felice di lavorare per la Olivetti, per me significava una occupazione con stipendio congruo, buone condizioni di lavoro e rapporti corretti. Oggi non è un bel lavoro quello che facciamo – dice – ma dobbiamo sperare che duri”. Un modello di trasformazione, lavoratori in transito. Un modello “fragile”. Speriamo che duri, si augura Filomena. GLI AUTORI – Federico Bellono, segretario generale della Fiom-Cgil di Torino dal 2010, è stato in precedenza responsabile della Fiom-Cgil di Ivrea dove ha seguito, tra l’altro, la lunga crisi dell’Olivetti. Negli anni Ottanta e Novanta è stato segretario della Fgci di Torino e poi del Pci di Ivrea. Filomena Greco, giornalista, ha lavorato a Radio24 e, dal 2003, è al Sole 24 Ore. Si occupa di economia, di imprese, di industria e di lavoro, con passione e curiosità. Segue i problemi e le nuove tendenze della manifattura italiana dall’osservatorio privilegiato della città di Torino.
da sbilanciamoci.info
Il lavoro ha subito un processo di rimozione: al centro c’è l’impresa, i cui interessi vengono fatti coincidere con l’interesse generale.
L’introduzione del libro ‘Gente di fabbrica. Metalmeccaniche e metalmeccanici nel nuovo millennio’
di Federico Bellono
‘Il lavoro non esiste’. Questo titolo provocatorio nasce da un episodio che mi è capitato in una nota libreria del centro di Torino, dove ho chiesto all’addetto del reparto di saggistica in quale scaffale si trovassero i titoli sul lavoro: mi ha guardato stupito, indirizzandomi prima al reparto economia e management, e poi aggiungendo che qualcosa avrei forse trovato anche nel reparto sociologia. Come se il lavoro fosse solo un addendum di qualcos’altro…
La verità è che, al di là delle statistiche e delle polemiche politico-sindacali, il contenuto del lavoro è dato quasi sempre per scontato, prevalgono luoghi comuni e approssimazione.
In realtà il lavoro ha subito un processo di rimozione: al centro c’è l’impresa, i cui interessi vengono fatti coincidere con l’interesse generale.
Ma impresa e lavoro non sono la stessa cosa, possono avere obiettivi comuni, ma farli coincidere è sbagliato, ancorché strumentale, perché impedisce di vedere contraddizioni e conflitti, inevitabili in presenza di ruoli e interessi sociali differenti. E, soprattutto, impedisce di vedere come in questi ultimi decenni l’equilibrio si sia spostato verso l’impresa, in termini di potere e di distribuzione delle risorse.
La svalorizzazione del lavoro è nella sua scomparsa dal discorso pubblico.
Non sembri paradossale, ma le poche occasioni, tra quelle in cui sono stato coinvolto da sindacalista, dove, raccontando il lavoro, si sia andati oltre un’attenzione superficiale, sono state l’accordo imposto dalla Fiat a Mirafiori – con il tema delle pause in catena di montaggio, per esempio – e il processo per i morti di amianto all’Olivetti, l’impresa perfetta che in realtà non è mai esistita, dove i magistrati hanno dovuto ricostruire in dettaglio che cosa facevano le persone in fabbrica. Due pessime, anzi drammatiche occasioni, insomma, benché a loro modo emblematiche. Eppure, per restituire ai lavoratori la visibilità che meritano, occorre ripartire da loro stessi, da quello che fanno tutti i giorni, dalla qualità e intensità della loro prestazione e del loro impegno, dai problemi e dalle opportunità che ne derivano, dalle frustrazioni e dalle aspettative che si creano e che segnano la vita delle persone.
L’area torinese, ancora tra le più significative dal punto di vista industriale a livello europeo, ben rispecchia tendenze più generali. E la manifattura, che pure rappresenta solo una parte del mondo del lavoro, comprende mansioni e professionalità anche molto diverse, che nel tempo si sono profondamente modificate: dall’operaio al progettista, dall’impiegato amministrativo all’informatico.
Torino e i suoi metalmeccanici, quindi, sono tuttora dei punti di riferimento da cui chi si occupa di lavoro non può prescindere: innanzitutto perché sono ancora tanti – 120.000 mila – e poi perché le loro storie sono significative di come il lavoro industriale sia cambiato in questi anni e di come cambierà in futuro. Una presenza tuttora ingombrante, fatta di crisi, vertenze, conflitti e accordi: storie collettive, insomma, spesso di resistenza. Ma anche tanta solitudine, con sacrifici economici, perdita di diritti e di ruolo sociale. E una dignità che non viene meno neanche in tragedie come quella della Thyssen, uno dei tanti spartiacque di questi ultimi decenni torinesi, come pure la sconfitta operaia dei trentacinque giorni alla Fiat, troppo presto rimossa.
I metalmeccanici torinesi non sfuggono ai mutamenti di questi anni, dovuti all’innovazione tecnologica e alla globalizzazione, e al venir meno di quel compromesso tra capitale e lavoro che ha lasciato dietro di sé lavoratori impoveriti e troppo spesso soli, e capitali che invece hanno acquisito una capacità di movimento pressoché illimitata.
A Torino più che altrove si percepisce una condizione che oscilla tra costrizione e ricerca di libertà. Ci sono situazioni che non smettono mai di stupirmi: nella fabbrica torinese per antonomasia esiste la consuetudine da parte della Direzione – altrove inconcepibile e un po’ surreale – di presenziare alle assemblee sindacali, con i capi del personale o con gli addetti alla vigilanza. Naturalmente con il nobile scopo di garantire la sicurezza di tutti…
Di recente, poco prima dell’inizio di un’assemblea una guardia mi si è avvicinata, mi ha chiesto cordialmente le generalità e la conferma che fossi l’oratore ufficiale. Poi si è seduta, in posizione un po’ defilata, e ha scritto, con zelo e velocità da stenografo, tutto – ma proprio tutto – quello che si è detto! Eppure si pensa che la stagione dei controlli e delle schedatura di cui tanto si è occupata Bianca Guidetti Serra appartengano a una stagione passata.
A Torino poi la crisi ha picchiato duro: rimettere in moto la manifattura piemontese sembra più difficile che altrove, per la presenza di filiere produttive “mature”, come l’auto, più soggette di altre al rischio di deindustrializzazione.
Allo stesso tempo si tratta di uno dei settori industriali a più alto tasso di innovazione. Il fondo del barile è stato toccato nel 2009, e da allora è iniziata la risalita, lenta, però, e senza slancio. Anche per le scelte strategiche dell’unico costruttore nazionale di auto che hanno reso Torino e l’Italia la “periferia dell’impero” del gruppo.
Il Piemonte, dunque, e Torino in particolare, hanno pagato un prezzo pesante alla crisi iniziata nel 2008: sono oltre 60.000 i posti di lavoro perduti nell’intero periodo, perlopiù nell’industria manifatturiera.
Questi processi sono tutt’altro che conclusi, una ripresa vera e duratura non si vede, la delocalizzazione dei processi industriali e degli investimenti continua, mentre questi ultimi sarebbero decisivi per non perdere il treno dell’innovazione, unico vero antidoto alla riduzione del lavoro disponibile.
Intanto un discorso serio come l’Industria 4.0 – termine con cui si indica la tendenza dell’automazione industriale a integrare nuove tecnologie per aumentare la produttività degli impianti e la qualità dei prodotti – viene agitato come la panacea di tutti i mali, mentre, come ogni salto tecnologico, porta con sé potenzialità ma anche grandi problemi, a partire dal fatto che riduce drasticamente il lavoro umano necessario.
In ogni caso un quarto dell’export è rappresentato dai mezzi di trasporto, una quota tra l’altro cresciuta tra 2007 e 2015. Dopo la contrazione dei volumi della produzione di auto in Italia, la filiera automotive sta tornando a crescere, e in Piemonte si concentra in linea di massima poco meno della metà di tutta la componentistica auto made in Italy.
L’industria torinese tiene grazie alle sue eccellenze: oltre all’automotive non si può non citare il settore aerospaziale. Questo processo ha però scavato una trincea tra le aziende che sono ripartite e quelle che invece arrancano. E questa trincea separa anche i lavoratori, in un mercato del lavoro polverizzato e sempre più precarizzato, dove le condizioni di lavoro e contrattuali sono le più diverse.
Insomma, se tanti provano a dire cos’è oggi l’industria torinese, noi più modestamente proviamo a dire chi sono oggi i lavoratori metalmeccanici, anzi glielo facciamo raccontare in prima persona, al di là e oltre le statistiche. L’idea non è quella di un racconto segnato dal punto di vista ideologico, con l’obiettivo di dimostrare una tesi precostituita, ma quella di guardare la condizione di lavoro senza paraocchi, che non vuol dire in modo asettico o neutro: cercare di vederne – attraverso storie individuali – i cambiamenti, cioè i miglioramenti ma anche le vecchie e le nuove criticità.
Colpisce, ma non più di tanto, che ci sia ancora chi si sente dire – come il protagonista di una delle storie qui raccontate – «non sei pagato per pensare».
Ecco: per non parlare in astratto occorre partire dal fatto che i lavoratori sono una risorsa per quello che fanno ma anche per quello che pensano. Con una convinzione: la società, l’economia, e non solo i diretti interessati, non possono che beneficiare di una tensione – tutt’altro che scontata e lineare – al miglioramento della condizione del lavoro, tanto più in un settore come la manifattura che, non solo a Torino, deve rimanere centrale anche per gli anni a venire.
Non un omaggio, quindi, a una storia in esaurimento, ma il racconto di una parte importante del presente e del futuro del lavoro.