di Roberto Montefusco 19 agosto 2018
La tragedia di Genova, con il suo carico di lutti, di domande, di rabbia, sta diventando una sorta di autobiografia di questo Paese. Ci sta raccontando quello che siamo diventati, quello che stiamo diventando. I fischi, gli applausi, i selfie, e una Italia frantumata che non rinuncia a manifestare le proprie pulsioni, nemmeno nel momento del silenzio. Nella drammatica cornice reale, materiale, della cerimonia funebre, così come nella rete. E’ possibile, mi chiedo, ritrarsi davanti a tutto questo e gridare con compiaciuto distacco alla crisi di civiltà? Ad un Paese perduto che ha smarrito i suoi codici fondamentali di convivenza civile? Io credo di no, e credo che questo sia un errore ancora più esiziale per chi si dichiara di sinistra.
No, non credo affatto che questo Governo possa rimettere in discussione in modo “organico”, compiuto, decenni di politiche fallimentari che hanno svenduto ai privati asset strategici per questo Paese. Non credo che possa farlo perché non ne ha la cultura politica, perché, sebbene tenti di celarlo con la propaganda, i cosiddetti “poteri forti” sono introdotti, eccome, nelle pieghe della maggioranza politica di cui è espressione. E credo pure che la tragedia di Genova mostri con chiarezza quanto sia infondata la volgare e brutale rappresentazione di un Paese i cui problemi sarebbero legati all’invasione dei migranti, quanto sia vuoto, pericoloso, lo slogan “prima gli italiani”. Perché poi, in fondo, italiani sono anche quelli oggi accusati di essere i responsabili di quella sciagura.
Tuttavia, è evidente che la proposta di revoca delle concessioni ad autostrade e di una (ri)nazionalizzazione della gestione della rete autostradale italiana appare come una risposta radicale ad un lutto che non può essere monetizzabile. Una risposta che dovrebbe essere quella di una sinistra che intenda ancora corrispondere alla ragioni per cui il movimento operaio è nato alla metà dell’Ottocento: affermare il principio che la dignità delle persone viene prima del profitto, che quella dignità viene prima delle leggi di mercato. Principi peraltro sanciti nella Costituzione italiana nell’ articolo 41 che così recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
O ancora pensiamo all’articolo 43: “Ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.
Nelle reazioni del Partito Democratico ( e non solo) al dibattito che si è aperto, su nodi non di poco conto per il futuro di questo Paese, si è invece ascoltato tutt’altro linguaggio: dalle preoccupazioni per il destino degli azionisti di Autostrade, alle difficoltà tecniche di rescissione del contratto, a una generica necessità di essere garantisti (principio sacrosanto quando si tratta di accertare responsabilità penali, ma incomprensibile se il punto è, al contrario, assumere decisioni politiche).
Non parliamo poi della prospettiva di un ritorno alla gestione statale di quello che è un monopolio naturale, come la rete autostradale. Una sorta di criptonite. Naturalmente, si tratta di una visione che affonda le radici negli scorsi decenni, in politiche di privatizzazione e liberalizzazione che quasi mai hanno prodotto efficienza, riduzione dei costi, e quasi sempre enormi profitti per i privati.
Il punto è esattamente qui, dunque. Se il tema della protezione sociale viene lasciato alle forze regressive, che lo interpretano su basi “etniche” e nazionaliste, che ne fanno uso propagandistico, ma che attraverso di esso riescono a costruire anche una relazione empatica con fasce di popolazione arrabbiate, impoverite, impaurite, si genera una saldatura pericolosa. E no, non sarà chi continua a usare i vecchi attrezzi ideologici del neoliberismo, a dare le colpe dei propri insuccessi ai troll russi o alle fake news, a ignorare o, peggio ancora, irridere, sentimenti, umori, pulsioni di una parte enorme di questo Paese, a disinnescare la pericolosa empatia tra una parte di quelle che avremmo definito un tempo le “classi popolari” e il blocco politico che oggi governa l’Italia. Occorre un’altra narrazione, occorrono altre generazioni, occorre una sinistra capace di pensiero lungo, “radicale” e, perché no, empatia con il popolo che intende rappresentare. I giorni che abbiamo alle spalle ci dicono anche questo, per chi abbia orecchie per ascoltare.