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di Franco Cardini – 9 aprile 2017
Da anni muoiono purtroppo bambini innocenti. Ne sono morti tanti, nei secoli: ma, ora che le democrazie liberali e liberiste hanno sconfitto il nazismo, sbriciolato il comunismo, quasi messo in corner (o almeno così sembrano voler far credere) il fondamentalismo islamista, tutto dovrebbe far credere che i piccoli siano fuori pericolo. O almeno, lo speravamo.
E invece no. Ne hanno ammazzati a migliaia, dall’Afghanistan ai Balcani alla Palestina al Libano all’Iraq alla Libia alla Siria: a parte quelli che muoiono di fame, di sete e di malattia in Africa e quelli che annegano nel Mediterraneo fuggendo al disastro continentale africano (tanto redditizio invece per certi adulti…).
Ma il presidente Trump ha un cuore grande così, più grande ancora del suo ciuffo arancione. E’ vero, fino ad oggi non ci era sembrato poi così tenero d’animo; anzi, ci era quasi parso che ad esempio i bambini messicani gli facessero piuttosto schifo; per non parlare di quelli di Mosul, massacrati dall’aviazione americana pochi giorni fa, mentre noialtri eravamo troppo occupati a parlare dei capelli rasati a zero della ragazzina musulmana di Bologna. Pareva non ci pensasse, ai bambini, il buon Caparancione.
Invece, rassicuriamoci. Il cuore di Trump scoppia d’amore per i piccini. Specie per quelli di Adlib, dichiarati immediatamente uccisi dal gas asfissiante (ce ne sono prove certe, dicono: ma tutto passa di terza mano, per sentito dire, magari attraverso agenzie mediatiche di dubbia attendibilità…) e senza dubbio per colpa del malvagio Assad. E’ vero che governo siriano e fonti russe parlano semmai di magazzini incidentalmente bombardati e dov’era invece semmai ammassato dai ribelli jihadisti il materiale venefico, ma che importa? Dicono ch’era successo più o meno così anche nel 2013, ma che vuol dire? Non starete certo ad ascoltare il dittatore di uno stato-canaglia e un pugno di postcomunisti, no?
Ed ecco quindi che il presidente Trump, quando i bambini li ammazzano gli altri, o comunque quando qualcuno che non gli piace può essere incolpato di ciò (ovviamente chissenefrega se a torto o a ragione), s’indigna e dichiara che ora basta, ora li puniamo noialtri come meritano eccetera. Ed arrivano puntuali, spietati, i missili Tomawakhs: che d’altronde sono anche loro dei buoni democratici, per cui ammazzano pochino, o almeno così ci assicurano i dispacci americani subito presi per buoni.
E allora, ecco il miracolo: tutti i buoni democratici italiani di destra e di sinistra, ch’erano così addolorati di non potersi più fidare del loro buon Padre-Padrone, l’inquilino della Casa Bianca, e che piagnucolavano concordi sulla sconfitta della buona signora Clinton a vantaggio di quel cafone che mette dazi e che impone controlli umilianti a chi vuol entrare nel suo paese anche quando si tratta di suoi fedelissimi lacchè, ora esultano per poter finalmente tornare sotto le ampie, ospitali alacce dell’Aquila dalla Testa Bianca (del presidente dalla Testa Arancione). Ora sì che ci rappresenti tutti, caro mister Trump! Glielo hai fatto vedere tu: e hai parlato chiaro a nuora Assad perché suocera Putin intenda. La signora Merkel approva, i nostri media esultano, il semiafasico Gentiloni ringrazia. E’ bello avere un così Potente Alleato.
Ma c’è sempre qualche malnato Franti, qualche scellerata voce fuori dal coro. Sentite per esempio quella di Marina Montesano, peraltro stimata medievista, che già tre lustri fa si era fatta notare a causa di un suo facinoroso libretto sull’Undici Settembre (Marina Montesano, Mistero americano. Ipotesi sull’11 settembre, Bari, Dedalo, 2004; ma si veda anche Franco Cardini – Marina Montesano, Terrore e idiozia. Tutti i nostri errori nella lotta contro l’islamismo, Milano, Mondadori, 2015).
La guerra, i media, l’informazione, di Marina Montesano
L’immagine che meglio sintetizza gli avvenimenti di questi ultimi giorni è quella dell’ambasciatore boliviano alle Nazioni Unite Llorenti che, durante il consiglio nel quale si discute l’attacco statunitense alla Siria, sventola la foto del ministro della Difesa Colin Powell quando, il 5 febbraio 2003, si presentò nella stessa sede dichiarando di avere le prove della presenza nell’Iraq di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa. Come abbiamo saputo più tardi, dopo l’invasione dell’Iraq e l’innesco nell’area di uno stato di guerra che continua ancora oggi, le prove mostrate da Powell erano false, messe insieme anche piuttosto malamente dai Servizi del suo paese e da quelli dell’Inghilterra di Tony Blair.
Il 17 marzo del 2003, l’allora presidente degli USA George W. Bush dichiarava che “per più di una decade gli Stati Uniti e altre nazioni hanno perseguito sforzi pazienti e onorevoli per disarmare il regime iracheno in maniera pacifica. Il regime avrebbe dovuto rivelare e distruggere le sue armi di distruzione di massa come condizione per la fine della guerra del golfo del 1991”; e che “questo regime ha già usato le armi di distruzione di massa contro i suoi confinanti e contro il suo stesso popolo”.
Se l’ambasciatore Llorenti mostra la foto di Powell è perché gli eventi del 2003 si stanno ripetendo oggi con la Siria. A dire il vero, ci avevano già provato esattamente dieci anni dopo, nel 2013, quando un attacco con il gas sarin aveva provocato molte vittime a Ghouta, un sobborgo di Damasco; soltanto uno fra i molti episodi in cui armi non convenzionali sono state utilizzate nel conflitto. In quei casi diverse commissioni hanno indagato, accusando ora i ribelli, ora il governo, senza prove definitive a carico di alcuno.
Nel 2003, Obama, spalleggiato da Hollande e, con qualche riserva, da Cameron, avrebbe voluto bombardare le truppe del presidente siriano Assad; ma il voto contrario del Parlamento aveva bloccato l’azione, peraltro fortemente avversata dall’opinione pubblica francese e inglese, che non vedeva di buon occhio un intervento diretto per timore di un secondo Iraq, ma anche perché abbattere il governo di Assad avrebbe significato di fatto consegnare il paese all’ISIS e ad al-Nusra, ossia ad al-Quaeda, i due principali gruppi che combattono contro il governo.
Oggi, con un presidente americano eletto grazie a un programma a base di “America first” e di disimpegno internazionale, ci risiamo. L’attacco con i gas a Khan Shaykhun, presso Idlib, una delle poche zone rimaste ai ribelli (in questo caso legati ad al-Nusra), ha fatto decine di vittime, forse un centinaio, fra i civili. Trump ha ordinato un attacco con 59 missili Tomahawk lanciati da due portaerei al largo del Mediterraneo, che hanno colpito la base di Al Shayrat da cui sarebbero partiti gli aerei che hanno bombardato l’area di Idlib. Prima di colpire, secondo il Pentagono, i russi sono stati avvertiti, così come confermato dal portavoce del Cremlino Dmitri Peskov. In questo modo nessun obiettivo russo è stato toccato. I missili avrebbero colpito piste e obiettivi militari. Secondo l’esercito le vittime militari sono 6, l’agenzia di Stato Sana parla anche di 9 civili, tra cui 4 bambini, notizia confermata dal governatore della provincia di Homs, dove si trova la base.
Ancora non è ben chiaro se si tratti di un’azione isolata, o dell’inizio di un’operazione più lunga, come sembrano indicare le parole dell’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Nikki Haley, la quale ha dichiarato che escludere Assad dal governo è condizione necessaria per parlare di pace.
Parere condiviso da israeliani, sauditi e turchi, ossia da tutti quelli che hanno interesse a vedere una Siria smembrata. Forse, da europei, dovremmo chiederci se è anche nel nostro interesse favorire al-Quaeda e ISIS, invece di accodarci belanti alle decisioni altrui.
E’ impossibile essere assolutamente certi che il governo siriano non sia responsabile degli attacchi. Così come era impossibile essere assolutamente certi dell’assenza di armi di distruzione di massa nell’Iraq del 2003. Tuttavia, come in un processo, l’accusa dovrebbe avere l’onere della prova. E, di fatto, le prove del crimine commesso non ci sono. Si può invece osservare che, allo stato attuale del conflitto, dopo l’intervento della Russia di Putin a fianco di Assad, la parte orientale del paese è stata riconquistata dalle truppe governative: su Idlib si sono concentrate le attività militari dei russi in questi ultimi mesi, perché riconquistare l’area consentirebbe di unire Aleppo al resto delle zone sotto controllo governativo.
A chi serve dunque un attacco con armi proibite che uccide un centinaio di civili in modo indistinto, senza colpire le difese di al-Nusra nella zona? Un risultato così esiguo (scusate il cinismo) in termini militari, non si sarebbe potuto ottenere bombardando con armi lecite la stessa zona? Ma Assad, da come lo presentano i media, è dittatore non solo sanguinario, ma anche irrazionale e un po’ cretino, al punto da lasciarsi trascinare sull’orlo di un nuovo intervento internazionale.
Avrebbe potuto fare come gli americani, che il 16 marzo scorso a Mosul, la città irakena ancora parzialmente controllata dall’ISIS, hanno fatto 49 vittime civili, cadute sotto le loro bombe convenzionali; il 21 marzo a Mansoura, nella provincia di Raqqa, hanno invece colpito una scuola, lasciando 30 morti, pure civili; lo scorso 25 marzo, di nuovo a Mosul, hanno bombardato ripetutamente e hanno ucciso almeno 150 civili rifugiati nei sotterranei dei palazzi.
La notizia, com’è stato notato da Franco Cardini in questo stesso blog, non ha avuto il beneficio di una prima pagina sui nostri quotidiani principali, che nel frattempo erano alle prese con la storia della ragazzina musulmana bolognese rapata dalla madre perché non voleva indossare il velo.
I gas a Khan Shaykhun hanno ovviamente avuto ben altra risonanza. Sul Corriere della Sera, Aldo Cazzullo parla con calore di Trump che si commuove dinanzi alle immagini dei “bambini bellissimi” soffocati a Khan Shaykhun; evidentemente non lo erano altrettanto quelli morti nella scuola di Raqqa o nel palazzo di Mosul. Allo stesso modo siamo stati martellati per settimane con i bombardamenti russi su Aleppo, ma una volta riconquistata la città nessun giornale di primo piano ha pensato che fosse importante mostrare le foto del Natale 2016, celebrato dai cristiani dopo anni di guerra; esattamente come si faceva in tutto il paese prima degli attacchi dell’ISIS e di al-Nusra. Un dato ancor più significativo se si pensa a quanto accaduto proprio oggi in Egitto.
In questa occasione, esattamente come nel 2003, all’alba dell’invasione dell’Iraq, i media orchestrano un’informazione parziale e fuorviante. Allora, nonostante i media, milioni di persone sfilarono per le strade delle capitali europee chiedendo ai propri governi di non cominciare quel folle conflitto. Non furono ascoltate. Oggi ci troviamo in una situazione più difficile, perché i conflitti dell’area mediorientale sembrano echeggiare anche da noi con gli attentati terroristici, che ovviamente spaventano e lasciano l’opinione pubblica più incerta e spaesata rispetto al passato. E dunque anche più inerme rispetto alle decisioni che vengono prese dai governi e dai centri di potere internazionali.
Marina Montesano
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ASPETTANDO IL NUOVO 1984
Dopo quello preconizzato da Orwell, e che magari è arrivato ma in termini differenti da quelli che egli si aspettava e aveva immaginato, un nuovo 1984 è alle porte, anzi è già qui. Michel Houllebecq, nel suo Soumission, ha immaginato una Francia islamizzata nel 2020: un po’ troppo presto, forse. E noi, a quando vogliamo ipoteticamente fissare il Novum Annum Orwellianum? Al 2024, quarant’anni dopo quello vecchio? Potrebb’essere un anno plausibile. Sul piano puramente e astrattamente biologico, ho qualche probabilità di esserci – ottantaquattrenne –, non so in quali condizioni mentali e fisiche. Ma come sarà? L’amica Eleonora Genovesi mi ha offerto al riguardo uno spunto interessante, ricordandomi una pagine di un altro autore che non aveva nulla da invidiare a Orwell, cioè Aldous Huxley. Ritengo il “futuribile” huxleyano, ohimè, largamente più incombente di quanto non fosse quello orwelliano. Ecco qua:
“La dittatura perfetta avrà le sembianze di una democrazia, una prigione senza muri dalla quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù”.
Se questa “profezia” ha un difetto, esso consiste nel fatto che “nel nostro Occidente” questa “dittatura perfetta” è già qui, ora. Huxley descrive con straordinaria lucidità e con sorprendente esattezza la società del Pensiero Unico e del primato assoluto dell’Avere (e del Consumare, e del Profittare, e dell’Apparire) sull’Essere. Una società di benessere senza gioia, di permissivismo senza libertà, di tolleranza senza amore, magari perfino di (apparente) non-violenza senza misericordia. Vero è che questa società, già tra noi, ha determinato un mondo che sta generando degli anticorpi: alcuni odiosi, malvagi, pericolosi, ma che tuttavia potrebbero avere in qualche modo il merito di salvarci da essa. Pregate se siete credenti; vigilate se non lo siete. Ma ricordate sempre e comunque il vecchio proverbio arabo: “Quando la notte è più buia, non combattere contro le tenebre: però mantieni accesa la lampada”. Se volete sapere come sia e quale sia tale lampada, rileggete il Corano, sura XXIV, Al-Nur (“La Luce”).