Galli: «Il Coronavirus in Italia da settimane. I pazienti gravi? Sono troppi ma possono guarire»

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Margherita De Bac
Fonte: Corriere della Sera

ROMA — Mentre parliamo al telefono per analizzare l’impennata dei casi di Covid-19, il professor Massimo Galli — primario infettivologo dell’ospedale «Sacco» di Milano — è in reparto, costretto a interrompere tre volte la conversazione per rispondere ai colleghi di altre strutture che chiedono di potergli inviare pazienti gravi: «Quello che lei sta ascoltando in tempo reale vale più delle mie risposte. Siamo in piena emergenza. Sì, sono preoccupato».

Come si spiega questa impennata di contagi?
«È accaduto quello che molti di noi temevano e speravano non accadesse. Ci troviamo a dover gestire una grande quantità di malati con quadri clinici importanti. Sta succedendo qualcosa di grave, non soltanto da noi ma anche in Germania e Francia, che potrebbero ritrovarsi presto nelle nostre stesse condizioni e non glielo auguro. Stiamo trattando una marea montante di pazienti impegnativi».

A cosa è dovuta questa esplosione di casi?
«Tanti quadri clinici gravi e tutti assieme fanno pensare che l’infezione abbia iniziato a diffondersi nella cosiddetta zona rossa da abbastanza tempo. Forse è arrivata addirittura prima che fossero sospesi i voli diretti da Wuhan. È verosimile che i ricoverati negli ultimi giorni si siano contagiati da due a quattro settimane fa per poi sviluppare progressivamente i sintomi respiratori in base ai quali molti hanno avuto necessità di ricorrere a procedure intensive».

C’è chi ha paragonato questa malattia all’influenza. Accostamento incauto?
«Chi ha cercato di infondere tranquillità, e ne capisco le buone intenzioni, non aveva chiara cognizione di cosa possa causare una malattia come questa. In quarantadue anni di professione non ho mai visto un’influenza capace di stravolgere l’attività dei reparti di malattie infettive e delle rianimazioni di un’intera regione tra le meglio organizzate e preparate alle emergenze d’Italia. Nessun sistema sanitario avanzato può essere predisposto per ricoverare tanti pazienti critici tutti assieme e per di più in regime di isolamento. Venerdì in Lombardia erano 85 i posti letto di rianimazione occupati da malati intubati con diagnosi di Covid-19, una fetta molto importante di quelli disponibili. Va ricordato che gli altri motivi per cui una persona può aver bisogno di un letto in rianimazione non spariscono soltanto perché è arrivato il coronavirus. Gli operatori sono sottoposti ad un carico di lavoro enorme, in condizioni in cui non è permesso distrarsi se si vuole rimanere sani».

Le misure predisposte dal governo italiano hanno funzionato?
«È stato fatto tutto ciò che era possibile dal punto di vista delle restrizioni attuate, senza arrivare a misure drastiche tipo Wuhan. In Lombardia ritengo che non si possa che continuare con le restrizioni adottate. Purtroppo il virus ha circolato probabilmente quanto basta perché i casi nella zona rossa non siano ancora tutti emersi. Bisogna andare a fondo».

Significa che questa malattia si sviluppa lentamente a cominciare dal contagio?
«Più leggo le anamnesi dei casi ricoverati, più mi sembra che assomigli alla SARS, anche nelle modalità di decorso, con le manifestazioni più impegnative che in molti casi compaiono 7-10 o più giorni dai primi sintomi. Va ricordato che per ogni paziente impegnato ce ne sono probabilmente altri tre in cui la malattia decorre in modo assai più mite ma che contribuiscono a diffondere il contagio».

L’Italia sembra per ora divisa in due. Al Nord l’emergenza, al Centro-Sud un’apparente calma. Come mai?
«Poteva capitare ovunque e non ci sarebbe stata differenza. Qualcuno, forse una sola persona, è arrivato nella zona che ora chiamiamo rossa e ha sparso l’infezione senza che ce ne accorgessimo. Un fenomeno casuale. Ma ora in tutta Italia il sistema sanitario è allertato sulla possibilità che un paziente che si presenti in ospedale con un’importante quadro respiratorio possa avere la malattia. È quindi improbabile che un caso con queste caratteristiche non venga gestito con le dovute cautele e non venga eseguito il test. A Codogno purtroppo un paziente infetto si è presentato al pronto soccorso la scorsa settimana e non è stato riconosciuto come infetto perché non rispondeva ai criteri di classificazione dei sospetti dettati dall’Organizzazione mondiale della Sanità allora in vigore. Un caso di scuola che quei criteri li ha ribaltati. Credo che grazie a questo precedente gli ospedali siano più che in allerta».

Lei cosa prevede?
«La maggior parte dei malati guariscono senza danni permanenti anche tra quelli con i quadri peggiori. Ma in Lombardia ce ne sono tanti e bisogna assolutamente evitare che diventino troppi. La zona rossa non si è estesa alle aree metropolitane e mi auguro che le restrizioni imposte e mantenute contribuiscano a far rimanere così le cose».

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