Fonte: il Simplicissimus
di Anna Lombroso per il Simplicissimus
Raccontano gli storici che i pavimenti dei castelli venivano coperti di paglia proprio come quelli delle stalle, a coprire escrementi, sputi, vomito di Falstaff ubriachi. Mamme e amanti spulciavano i loro cari come bertucce, in segno di amorevole dedizione. Raccontano anche che gli animali venivano scannati e sventrati a tavola, davanti ai grandi camini nei quali sarebbero stati poi arrostiti. E che i commensali li sbranavano a morsi, orgogliosi della loro voracità bestiale. Non occorre essere Elias per sapere che poi, via via nel processo di civilizzazione avviato dalla nobiltà e favorito dall’avvento della borghesia, l’umanità ha stabilito e seguito criteri di ortodossia comportamentale, rispondendo a comandi interiorizzati che impongono il controllo di istinti, il contenimento delle più appariscenti manifestazioni emotive, e che alimentano un crescente sentimento di ripugnanza per quanto è corporeo, ferino, selvaggio. Salvo, naturalmente, la guerra, considerata fisiologico sbocco della politica e della diplomazia, quando non addirittura un’arte patrizia, che attribuisce nobiltà alla macellazione.
Poco ci vuole guardandoci intorno, a capire che siamo tornati indietro, che, come i guerrieri medievali, qualcuno considera legittimo far esplodere la sua furia in battaglia, qualcuno in nome di una qualche divinità considera il martirio e la mutilazione dei prigionieri un “raro piacere” concesso in premio della fede. Altri, nella culla della civiltà, sono determinati a ricostituire una società nella quale le disuguaglianza siano talmente esasperate che caste di faraoni, imperatori, despoti, decidano il destino, la vita e la morte di schiavi.
Eh si, ci sono stati momenti nei quali le buone maniere sono sembrate un retaggio ipocrita di sistemi sociali intrisi di valori conformistici e borghesi, cui ribellarsi per riaffermare indipendenza creativa, autonomia di pensiero e comportamenti, sicché i ragazzi di buona famiglia disprezzavano l’etichetta a tavola, gli abiti ben confezionati, toni di voce e linguaggi appropriati mentre per nelle famiglie contadine ed operaie la “buona educazione” era un’aspirazione, una conquista quasi alla pari con l’istruzione, ambedue leve per il riscatto sociale. E momenti nei quali il bon ton si è trasformato in un brand per dame decadute e gai giovanotti che hanno guadagnato grazie alla volgarità un bel po’ becera di nuovi arricchiti smaniosi di essere ammessi in salotti esclusivi.
Poi è arrivato Berlusconi, che ha sdoganato i motti salaci e le battute scollacciate, che ha rinnovato i fasti della virilità collezionista di prede, non importa se a lauto pagamento, che ha fatto della trivialità un contenuto elettorale e propagandistico di successo, a dimostrazione che grazie alla conversione di vizi e difetti privati – spregiudicatezza, avidità, doppiezza, ambizione, impudenza, cinismo – in virtù pubblica, si può aspirare ad “arrivare” in alto. E quelle modalità, quei costumi li ha trasferiti in politica, esprimendo, anzi esibendo, appetiti ingordi, dileggio della sofferenza e della diversità, sprezzo e coercizione di pareri altri, concezione dei rapporti come di scambi commerciali dove qualsiasi cosa e chiunque ha un prezzo e si può comprare e vendere, denigrazione di regole e svilimento di ideali, primato della visibilità a dispetto della reputazione, conferimento dei valori di dignità e rispettabilità a manifestazioni solo esteriori: abiti, liturgie domestiche, sopravvalutazione della giovinezza come anticamera prolungata dell’immortalità, da mantenere con al cosmesi, la chirurgia, il vampirismo, e proposto come mito collettivo grazie a modelli estetici e a una somatica di regime. E volgarità sfrenata, in una ostensione senza vergogna, come quei dementi che fanno sfoggio delle loro parti intime, in un delirio impudico e esibizionistico che sembra una parabola, un’allegoria sguaiata dell’avidità senza freni e dell’accumulazione senza limiti.
Beh, è tornato sul palcoscenico, finalmente libero dopo aver dovuto tramare nella clandestinità di un amore furtivo oggi innalzato a organismo istituzionale, elevato a sacra alleanza per l’adeguamento della democrazia ai comandi di quel ceto padronale del quale fa parte per censo, ma tenuto ai margini per la sua esuberanza provinciale e ordinaria. Così ieri, finalmente in veste ufficiale, ilare, ridanciano, indecoroso e sguaiato nel senso più proprio se una misericordia bipartisan pare volerlo tirar fuori dai guai, ha potuto raccontare una barzelletta sulla mafia alla presenza dell’augusto fratello di una vittima, ha offeso con ripetitiva insensatezza la Bindi, quella già più intelligente che bella ora più maschio che donna, si è aggirato come il vecchio zio scapolo, intemperante, dissoluto e licenzioso, disinibito da sindromi frontali, sboccato e trasgressivo, che la “famiglia” è costretta a tollerare, blandire, accontentare facendo finta di ridere delle vecchie battute da commesso viaggiatore, ascoltando le canzoni stonate da intrattenitore di piano bar periferico, perché è lui che ha la grana, che ha speso, spende e pretende.
È riprovevole, è ridicolo come una macchietta ritinta. È ancora pericoloso, come lo sono i tiranni in tarda età, irriducibili e cupidi di potere, soldi, emozioni, come di riti propiziatori di una giovinezza senza fine. Ma fa ancora più ribrezzo la famiglia che si compiace delle sue facezie, che salta quando fa schioccare la frusta, che balla al suono della sua pianola l’eterna mazurka del cinismo e della sopraffazione.