Fonte: il venerdì
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FUORI DAL TUNNEL – di MARCO AIME – ed. MELTEMI
recensione di Paolo Griseri
L’antropologo che studia la tribù dei No Tav
Marco Aime ha scritto un libro sulla comunità che in val di Susa lotta contro l’Alta Velocità. E ci spiega perché resiste da oltre un ventennio
Si schiera fin dal titolo: Fuori dal tunnel. Ma il viaggio dell’antropologo Marco Aime tra i No Tav della val di Susa ha esiti tutt’altro che scontati. Per la prima volta, ed è questo il maggiore pregio del libro che segna il ritorno in libreria di Meltemi, si studia il movimento come nucleo di una nuova comunità del tutto originale che ha saputo resistere per venticinque anni: è nata ai tempi di Tangentopoli e sopravvive ancora oggi, sia pure meno forte rispetto ai tempi d’oro.
Professor Aime, quanto ha viaggiato nel villaggio di Asterix, una delle tante metafore con cui sono stati dipinti i No Tav?
«Vivo a Torino. La val di Susa la conosco da molto tempo. Nel 1977 ho trascorso un anno, da militare, a Susa. Per raccogliere gli elementi del libro ho impiegato un anno e mezzo. Fatto di fine settimana, chiacchierate nelle trattorie e nei luoghi di ritrovo del movimento».
Com’è nata l’idea di studiare i No Tav dal punto di vista antropologico?
«Come studioso mi sono occupato spesso di popolazioni alpine, vissute per secoli in aree chiuse, con scarse relazioni con il resto del mondo. Quando ho deciso di mettere sotto i riflettori non un’enclave storica ma una comunità nuova, che solo recentemente si è formata, mi sono accorto che mantiene i caratteri di forte radicamento in una precisa area territoriale ma è stata capace di intrecciare relazioni con il resto del mondo, non è rimasta chiusa, anzi».
Dai Walser, i “tedeschi” delle Alpi, ai No Tav?
«In un certo senso sì. Ho mantenuto un atteggiamento oggettivo, scientifico il più possibile. Poi è inevitabile che ci sia anche un coinvolgimento personale».
Diciamo che questo traspare. Nel libro lei parla dell’abilità di questo movimento di ricomporre, di dare un senso nuovo agli avvenimenti. Che cosa l’ha colpita della narrazione dei No Tav?
«La loro capacità di utilizzare i caratteri della storia locale per riscriverla alla luce delle vicende dell’attualità. L’esempio è quello dell’uso della storia partigiana come modello da seguire anche nella battaglia per la difesa ambientale della valle».
Un’operazione ardita…
«Qui quel che conta è la capacità di ricreare uno spazio simbolico. Prima delle vicende legate all’opposizione alla nuova ferrovia la val di Susa, soprattutto la bassa valle, era un luogo anonimo. Questo movimento ha invece creato identità, ha fatto nascere la figura del valsusino. La capacità di rappresentarsi come montanari e non come un quartiere periferico di Torino è una delle principali innovazioni. In fondo quell’area ha una storia di insediamenti industriali, per decenni è stata abitata da una popolazione operaia, ha avuto le caratteristiche di un quartiere urbano. C’erano le acciaierie, le fabbriche tessili. Rispetto alla rappresentazione di oggi il salto è notevole».
Lei riporta i racconti del movimento e dei suoi organi di propaganda. Colpisce il giudizio sulle popolazioni che confinano con i paesi della protesta. A ovest l’alta valle è giudicata negativamente perché partecipa poco alle lotte. A est Torino è la sede degli interessi che vogliono costruire la ferrovia. Un mondo pieno di nemici.
«Quella della creazione del nemico è una caratteristica essenziale di ogni nuova identità, come spiegava Umberto Eco. Questo vale per i movimenti ma anche per le nazioni. I No Tav non fanno eccezione: costruiscono un pezzo della loro identità descrivendo i nemici. Il nemico è Ltf, la società che progetta la nuova ferrovia, ma lo sono anche le forze dell’ordine, che loro chiamano sbirri, e i grandi mezzi di informazione».
Infatti ci sono giornalisti e politici costretti a girare con la scorta.
«Il movimento è composto da diverse anime e purtroppo c’è anche una minoranza violenta. Questa capacità di tenere insieme i valligiani e gli anarchici, chi prepara le torte e anche chi tira le molotov sul cantiere è una delle peculiarità dei No Tav. Nelle diverse fasi della sua vita il movimento ha riflettuto parecchio sulle forme di lotta. Molti sono stati in disaccordo con chi utilizza metodi violenti, ci sono state defezioni per questo. Ma chi ha scelto quella strada è sempre stata una minoranza. Un’altra delle caratteristiche dei No Tav è quella di essere una comunità trasversale che tiene insieme valligiani e cittadini, contadini, panettieri e centri sociali. Storie molto diverse tra loro, storie di persone che arrivano da destra, da sinistra, qualcuno addirittura dalla Lega, qualcun altro dal mondo anarchico».
Dunque i gruppi violenti fanno parte del movimento?
«Diciamo che sono una componente e che il movimento non li ha mai messi fuori veramente».
Si chiama ambiguità.
«In un certo senso sì. Ma bisogna riflettere sul fatto che la violenza in questi anni c’è stata un po’ da tutte e due le parti».
Uno dei temi affrontati nel libro è quello della democrazia partecipata. Un movimento davvero senza leader?
«Ci sono personaggi che sono sempre stati dei leader naturali, come Alberto Perino, che spesso parla a nome dei comitati. Ma proprio per la sua natura trasversale, per essere una comunità con tante anime diverse, i No Tav tendono a evitare di identificarsi in un leader. Del resto quando si chiede il diritto democratico al dissenso, non si può avere la struttura piramidale dei movimenti guidati da un solo leader».
Nel libro lei racconta la resistenza di una parte della popolazione valsusina contro un progetto firmato a livello nazionale ed europeo. Come pensano di poter decidere loro per tutti?
«La democrazia non può diventare il diritto della maggioranza a decidere senza tenere conto delle minoranze. Questo rivendica il movimento e si rifà anche al passaggio della Costituzione che riconosce il diritto al dissenso delle minoranze. La loro parola d’ordine, “resistenza“, è un modo per praticare quel principio. Quel che il movimento No Tav rivendica è che la val di Susa non sia considerata un semplice corridoio di passaggio da sacrificare in nome di un interesse superiore e generale. Per questa ragione la battaglia contro la ferrovia è una battaglia a difesa dell’identità».
La discussione sull’utilità dell’opera è finita da anni. I lavori sono ormai iniziati, le talpe scavano da tempo. Che cosa accadrebbe se il movimento dovesse perdere la battaglia?
«Io non conosco la questione dal punto di vista tecnico. Non sarei così sicuro che l’opera sarà davvero realizzata. Seguendo la sua ipotesi però, non credo che quel giorno il movimento sparirà. Penso invece che rimarranno le esperienze importanti di democrazia dal basso, l’eredità di una comunità che ha saputo trovare un senso, trasformare la battaglia per la difesa dell’ambiente in un elemento della propria identità».
Il movimento valsusino si attira spesso le simpatie di intellettuali affascinati dal suo coté romantico. Come lo spiega?
«Quello che lei definisce “coté romantico“ è uno degli elementi essenziali dell’identità di un gruppo e, in fondo, della politica. Se la politica non riesce a far sognare i cittadini, viene meno a uno dei suoi compiti. Segnalo che, pur attraendo diversi esponenti della sinistra, il partito più vicino ai No Tav oggi è il movimento Cinque Stelle. Un fatto che non definirei casuale. I No Tav sono nati molto prima del movimento di Grillo. Direi che hanno aperto una strada».