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di Gian Franco Ferraris
“ho visto l’alba, non é molto, dalle sue finestre della parete accanto. Era la nebbia, era il palazzo, era la vita, era il calore umano. Dorme Astarte-Afrodite-Mèlita. Si sveglierá scontrosa. Per la terza volta é venuto il mio giorno. Il dolore più atroce è sapere che il dolore passerá. Adesso é facile umiliarsi. E poi?”
Cesare Pavese scrisse nel diario (il mestiere di vivere, 27 novembre 1945) questa dolente riflessione sulla propria mutilazione sessuale. La donna è Bianca Garufi, con cui Pavese ha vissuto nell’immediato dopoguerra un tormentato e bellissimo amore discorde ed è l’ispiratrice del libro Dialoghi con Leucò: Bianca stessa è l’alba, Leucò [leukôs è bianco, in greco], candida e agghiacciante, un pò Circe e un pò Calipso, strega o belva “se questa persona – una magra ragazza selvatica – è la belva, la cosa selvaggia, la natura intoccabile…..che mi guardava con quegli occhi un poco obliqui, occhi fermi, trasparenti, grandi dentro Io non lo seppi allora, non lo sapevo l’indomani, ma ero già cosa sua, preso nel cerchio dei suoi occhi, dello spazio che occupava, della raduna, del monte.” Bianca è la donna che più ha influito sulla sua creatività, a lei ha dedicato il gruppo poesie “La terra e la morte” della stessa atmosfera dei dialoghi di mitologia mediterranea.
Terra rossa terra nera,
tu vieni dal mare,
dal verde riarso,
dove sono parole
antiche e fatica sanguigna
e gerani tra i sassi –
non sai quanto porti
di mare parole e fatica,
tu ricca come un ricordo,
come la brulla campagna,
tu dura e dolcissima
parola, antica per sangue
raccolto negli occhi;
giovane, come un frutto
che è ricordo e stagione –
il tuo fiato riposa
sotto il cielo d’agosto,
le olive del tuo sguardo
addolciscono il mare,
e tu vivi rivivi
senza stupire, certa
come la terra, buia
come la terra, frantoio
di stagioni e di sogni
che alla luna si scopre
antichissimo, come
le mani di tua madre,
la conca del braciere.
Cesare Pavese – 27 ottobre 1945
La corrispondenza tra Bianca Garufi e Pavese continuò anche dopo la fine del loro amore, e dopo il suicidio di Pavese si trovano due riflessioni di Bianca Garufi: la prima è un leit motiv pari a quella di tutte le altre donne dell’universo femminile pavesiano, nei confronti di Cesare: “Gli volevo bene, ero affascinata dalla sua cultura ma non innamorata. Era un uomo estremamente cerebrale”. Il secondo ricordo di Bianca Garufi è datato 31 dicembre 1950:
“Ho scritto, su queste pagine, che Pavese si è suicidato? Sì, il 28 (sic) di Agosto. Pavese, sciocco, non potevi farti aiutare? Io forse, adesso, ti potevo aiutare”.
Bianca Garufi e Pavese insieme, a capitoli alterni, scrissero il romanzo “Fuoco Grande”, il testo fu ritrovato tra le carte di Pavese: è il romanzo, incompiuto, di un amore e di un segreto. Venne pubblicato postumo nel 1959 da Einaudi per volontà di Italo Calvino.
E’ curioso che la corrispondenza iniziata nell’estate del 1945 da Bianca in vacanza proseguirà nell’autunno seppure i due si vedano tutti i giorni sul lavoro e non avrebbero bisogno di scriversi. Probabilmente era un interesse intellettuale reciproco che aiutava a chiarire le parole, a integrare le difficoltà dei discorsi, a dirsi e a mettere a nudo i pensieri.
Fuoco Grande è una prova di scrittura a quattro mani, un esperimento di narrazione dove traspare il diverso modo di percepire le cose, quello femminile e quello maschile. Il libro è anche la manifestazione letteraria di avvenimenti dolorosi che hanno segnato entrambi i protagonisti e gli stessi autori. sulla biografia di Pavese hanno scritto migliaia di pagine ma chi era Bianca Garufi?
Bianca Garufi
Nasce a Roma il 21 luglio 1918 da madre siciliana, Giuseppina Melita, donna forte e indipendente, sopravvissuta, unica di una numerosa famiglia, al terremoto di Messina del 1908.
All’età di vent’anni scrive le prime poesie, seguite da molte altre e pubblicate dall’editore Vanni Scheiwiller con il titolo “se non la vita. Poesie 1938-1991”. Nel 1944 scrisse il poema “La spirale e la sfera”: negli anni 1944-48 la raccolta “La fune” pubblicata nel 1965 sempre da Scheiwiller e nel 1945 un romanzo, tuttora inedito: “Libro postumo”.
Nella Roma occupata dai nazisti prende parte attiva alla Resistenza a fianco di Fabrizio Onofri, figura di spicco nel Pci. Dal 1944 al 1958 Bianca Garufi lavora per Einaudi nella sede romana come segretaria generale. Qui conosce Cesare Pavese.
L’ultimo suo romanzo si intitola Rosa Cardinale, ha per protagonista una giovane donna di nome Sandra e esibisce situazioni e temi ricchi di interpretazioni autobiografiche. “l’infanzia in sicilia con la nonna infatuata di spiritismo, l’adolescenza a Roma in un ambiente di intellettuali progressisti, l’amore impegnato ma al tempo stesso disincantato”. Intensa e fortunata la sua attività di traduttrice dal francese (bastino i nomi di Claude Levy-strauss, di Simone de Beauvoir, Maurice Sachs, Monique Lange, Jacques Charbonnier).
All’inizio degli anni sessanta si trasferisce in Francia, conosce Pierre Denivelle, che lavora all’Olivetti e che sposerà. A Hong Kong istituisce nel 1969 dove momentaneamente si era trasferita, il lettorato di lingua e cultura italiana presso l’Università Cinese.
Nel 1974 rientra a Roma e scrive un lavoro teatrale sul lavoro della donna e la sua emancipazione; esso, con il titolo Femminazione, viene presentato dalla Rai e replicato più volte.
Bianca Garufi ha rivolto l’attenzione verso molteplici interessi letterari e sociali, ma è la psicoanalisi che ha caratterizzato tutta la sua esistenza. Nel 1951, si era laureata presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Messina, con una tesi dal titolo “struttura e dinamica della personalità nella psicologia di karl Gustav Jungh”, sulla psicanalisi junghiana ha scritto molti saggi pubblicati in prestigiose riviste specialistiche: la “Rivista di Psicologia Analitica”, il “Jounal of Analytical Psychology”, “Spring” e “Anima”.
Si dedica appassionatamente alla professione di psicoterapeuta junghiana, diventa vice presidente dell’Associazione Internazionale di Psicologia Analitica e membro attivo dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica. Nel 1980 partecipa a un congresso sulla moda e il rapporto con la psiche umana a San Francisco. Nella sua conferenza espone il tema del senso d’affetto per il mondo e per il corpo che ci rappresenta, perché, come spiega: “abbiamo solo questo per esistere e rappresentarci quindi deve essere per forza, attraverso la moda, lo specchio del nostro io”.
Muore a Roma il 26 maggio 2006.
Fuoco grande è stato scritto nei primi mesi del 1946 (da febbraio ad aprile), di fatto è già finita la “splendida alba”, “E’ l’alba, un’alba di nebbia diffusa, viola fresco” testimoniata sul diario di Pavese “di quel magnifico autunno” .
Pavese rimane a Roma mentre Bianca Garufi si reca a Uscio in “una colonia della salute”, il romanzo prosegue tramite corrispondenza. Maria Teresa Masoero nel 2011, ha scritto il libro “Una bellissima coppia discorde. Il carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi (1945-1950)”, in cui ricostruisce passo passo, la stesura del romanzo, consente di entrare nell’officina parallela e combinata dei due, getta luce su idee e difficoltà sottese alla scrittura. Lettere che erano del tutto inedite quelle della Garufi, solo in parte edite e con omissis quelle di Pavese. Nella galassia del web compare uno specchietto di una lettera della scrittrice: “Tu sei padronissimo di scrivermi la solita lettera cinica arcigna desesperada e angolosa.” E un testo più articolato:
“Sta’ tranquillo, che io posso anche non vederti eppure averti nella mia vita molto più di quanto non pensi. Ho molte ragioni per rispettarti ed esseri grata (naturalmente né per ragioni tecniche né puramente passionali).
Tu mi hai aiutato a risolvere un problema grosso e doloroso in un momento così critico che forse non ce l’avrei fatta da sola, ed io questo non lo dimenticherò mai – bada bene che ho detto «mai», e quando la dico, questa parola, ha il suo significato integrale.
Dunque a te dico che non dimenticherò mai – non ti parlo di amicizia perché la cosa non ti garba e di conseguenza anch’io non mi sento in animo di farti proposte di questo genere. La faccenda è un’altra: ha da fare più con un sentimento familiare, che so, come fratelli e sorelle, o meglio come appartenenti alla stessa razza. Una cosa simile.
Così almeno io sento.”
Lettera di Bianca Garufi a Cesare Pavese. 3 Marzo 1946.
Da “Una bellissima coppia discorde”.
Carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi. (1945-1950).
-Combatteremo ancora
combatteremo sempre-
dicevo sul finire di quel magnifico autunno che sai. Io mantengo quasi sempre la mia parola: che cosa pretendi? Che ci coccoliamo come due conigli? Io trovo molto bello questo maltrattarci insaziabile; è sincero dopotutto e producente. Ciascuno ha i suoi sistemi – noi siamo una bellissima coppia discorde, e il sesso – che dopotutto esiste – si sfoga come può.
(…omessi due capoversi)
Io sono solo come dicevo, e per giunta comincia la mia brutta stagione – la primavera – in cui non ho mai potuto scrivere niente. Solo come Tristano nel deserto d’Urgano, come Proserpina all’inferno, come Giulio in Svizzera. Vorrei in fondo andare in giro con * ma si sa come sono queste storie, e proprio non me la sento di litigare anche con lei. Avevo sempre sognato di diventare un tipo stoico, secco e impassibile, ed ecco che ci sono arrivato e sono celebre, efficiente e tutto, ma adesso non mi piace più. L’altro giorno ho spiegato a * che le uniche persone con cui non si litiga sono quelle con cui non si fa all’amore, e lei mi ha detto che è anche bello litigare ma avere un ricordo felice. Carogna, teniamo duro.
Ti mando un dialogo che mi trovo in tasca – l’ultimo – altri ne ho fatti prima ma non li ho sottomano. Questo è molto bello.”
(Cesare Pavese a Bianca Garufi)
Il libro
Silvia ritorna a Maratea dopo lungo tempo, accompagnata da Giovanni. Ad attenderla, però, c’è un segreto di famiglia fino ad allora assai ben conservato. Con un procedimento davvero originale per la nostra letteratura, Cesare Pavese e Bianca Garufi raccontano, a capitoli alterni, il punto di vista di Giovanni e quello di Silvia. I fatti sono i medesimi, le versioni divergono.
“c’era un fuoco che bruciava sempre e nascita, morte, guerre, alluvioni svanivano in mezzo a quella fiamma.
Dissi: – Catina, qui si sta sempre in mezzo al fuoco. – Fuoco grande, fuoco grande, – disse Catina. E attraverso
la notte sentii che mia madre bruciava, che Dino bruciava, che anch’io mi ero messa di nuovo a bruciare.”
Fuoco grande racconta la storia di Silvia, una giovane che ormai vive e lavora in
città, riceve un telegramma e deve partire improvvisamente per la sua cittadina
d’origine; viene richiamata a dicembre presso la sua casa d’infanzia perché Giustino,
suo fratello minore, è in punto di morte; chiede allora a Giovanni con cui ha una relazione difficile di
accompagnarla e l’uomo, senza esitare, parte con lei:
“Viaggiammo tutta la mattina lungo la costa bruna e bassa, e gli altri pochi passeggeri venivano da molto lontano, per trovarsi sul treno la mattina di Natale. Silvia taceva in un cantuccio e guardava scontrosa me e gli altri, ma a un certo momento mi aveva sorriso per farmi coraggio.” (narrazione di Giovanni)
Questo viaggio costringerà Silvia a ripercorrere il suo tormentato passato e Giovanni a scoprire un segreto di famiglia, tenuto fino a quel momento accuratamente celato.
Respiravo quel vento che veniva di lontano. Maratea era alle falde di un monte selvoso e bagnava le sue case al mare. Silvia era quel paese. Quante volte ne aveva parlato.
Estratto
Vuoi aiutarmi, Giovanni? – chiese a un tratto. Io non mi ero levato il mantello. Avevo ancora il bavero alzato. La guardai così come l’avevo ricordata salendo le scale e mi parve di non essere mai uscito da quella stanza. – Vuoi aiutarmi? – Non sorrideva più. Guardava a terra. Di là facevano baccano e riconobbi qualche voce. – Devo tornare a Maratea, – disse adagio. – Devo tornarci subito. Con te -. Mi guardò viva e dura. – Vuoi sapere il motivo? – La guardai senz’aprir bocca. – Mi terrai compagnia, – disse. – Mi dirai che cosa hai fatto in questi mesi. Poi mi disse di andarmene. – Partiamo domani alle sette.[…] Respiravo quel vento che veniva di lontano. Maratea era alle falde di un monte selvoso e bagnava le sue case al mare. Silvia era quel paese. Quante volte ne aveva parlato.
[…]
Le parole di Silvia alla rupe mi richiamavano adesso quell’antico pensiero, che non esiste paesaggio vuoto: dovunque è vissuto un ragazzo, dovunque lui ha posato gli occhi, si è creato qualcosa che resiste nel tempo e tocca il cuore a chiunque abbia negli occhi un passato. Mi tornò vivido un ricordo d’infanzia: un paesaggio come quello, sotto un cielo screziato, una brulla campagna autunnale, il mio paese. E pensai vividamente come da tempo non avevo più fatto, al ragazzo ch’ero stato. Mi chiesi se anche in me c’era quel sangue contadino e tenebroso che incupiva gli occhi di Silvia così spregiudicata e cittadina. Ero nato in campagna, questo sì, ma la mia campagna era qualcosa di fantastico e lieve, qualcosa di sognato in città che non mi aveva dato sangue. Ne ritrovavo ricordi remoti, quasi di là dalla coscienza, di là dal mio risveglio cittadino. In me il sangue s’era messo a schiumare soltanto in città, la mia prima passione erano stati gli amici, i compagni di scuola – avevo pianto e fatto a botte con loro – ne sa qualcosa anche Giorgio che poi divenne così fatuo e ragionevole. Prima di allora tacevo e attendevo, accoglievo negli occhi vigneti e colline, ma fin dall’inizio sapevo che il mio destino, la mia vita sarebbero stati in città, con altra gente, e avrei smesso il dialetto e salito scale e guardato da finestre su viali, come le finestre di tutte le Silvie che conobbi. Perché fin da ragazzo seppi sempre che avrei trovato una Silvia e pianto e fatto a botte con lei. Adesso mi pareva impossibile di aver mai creduto in un altro sguardo e in un’altra bocca, ma già nei giorni più sanguinanti di quell’estate m’ero accorto che chi l’aveva preceduta l’aveva soltanto annunciata. Sempre tra noi s’era creata quella discordia scattante e selvaggia, quella rabbiosa tenerezza, ch’è il rigurgito della campagna divenuta città. E adesso che credevo di aver vinto l’amplesso, di non essere più schiavo del sangue di lei né di nessuna, ecco che ritrovavo dei ricordi d’infanzia, di là dai viali e dalle case, dei ricordi fantastici e lievi, come di chi sogna un destino e un orizzonte che non è la collina o la nuvola ma il sangue la donna di cui nubi e colline non sono che un segno. E la Silvia che avevo strappato da me e soffocato, era invece con tutta la sua spregiudicata apparenza una cosa selvaggia di sangue e di sesso. Ciò – devo dire – mi fermò davanti alla scena della montagna lontana e mi riempiva di speranze inconfessate.
C. Pavese B. Garufi, da “Fuoco grande” (narrazione di Giovanni)
—
Rimase odore di cera. al posto del bambino morto una rete metallica con il materasso arrotolato. Polvere per terra, più che altro odore di polvere, come dopo un ballo, in una sala vuota. Pensavo che avrei potuto dormire in quella stanza almeno una notte prima dell’indomani. Ancora non l’avevo annunciato che partivamo all’indomani. L’avrei detto a tavola, la sera. Giusto, che stiamo a fare qui ancora? Quando il morto è un bambino, non è mai lutto rigoroso.
Mia madre si era vestita di nero. Io non avevo un vestito nero e porta male vestirsi di nero se si è fidanzate. Tutto il paese venne al funerale; al cimitero fecero un discorso davanti alla cappella di famiglia, prima che interrassero la bara. “I figli, – augurò chi parlava, – come i frutti, vengono ad ogni stagione e i frutti dell’autunno sono i più belli” L’avvocato stava in piedi, mia madre da una parte, io dall’altra, in piedi davanti alla tomba.
Anche in città pensavo a volte a quella tomba, l’unica costruzione nel cimitero, oltre la chiesa e la casetta del guardiano. Dentro c’erano quadri e ingrandimenti fotografici, lumini ad olio e inferiate di ferro battuto.
Giustino lo misero sotto mio padre: In casa ritratti di mio padre non ne avevo visti mai. C’era quello nella cappella. Sembrava messo per caso fra gli altri, tanto era diversa la sua faccia e le mani, una poggiata su di un libro, l’altra, come se lo impacciasse, con due dita tra i bottoni del panciotto. Mio padre non l’avevo conosciuto. Morì prima che io nascessi. Era andato in guerra e ho sempre pensato che aveva voluto andarci per scappare in qualche modo. Poi era morto, anche questo, io credo per scappare. Di lui mi raccontava Catina a volte, ma sempre con fatica. Infatti me ne parlava senza calore, come di un ricordo svanito, una cosa esistita per sè sola, sicchè gli altri non possono dire niente. Era nobile, istruito. Credo che il matrimonio con mia madre fosse un matrimonio combinato.
A guerra finita, portarono la salma. Dopo qualche anno, mia madre risposò. L’avvocato era di Lauria, un paese vicino, più grosso e più ricco di Maratea. a Lauria nel cimitero ci sono molte tombe costruite riccamente; a Maratea, invece, c’era quella soltanto. In città pensavo che forse a mia insaputa, un giorno, dopo morta, mi ci avrebbero portata, come accadde a mio padre.
Venne anche Giovanni ai funerali. Aveva la sua solita faccia compunta, la faccia di chi si comporta come è stabilito ma prevede altre cose. Sempre così. Gli dicevo: – sai, adesso non ho tempo, precedimi, ti raggiungo tra poco -. E se non fosse stato per quell’aria meticolosa con la quale si avviava, se non fosse stato per quella diffidenza che intravedevo, forse lo avrei sempre raggiunto. Avrei fatto, insomma, ogni volta quello che avevamo stabilito.
Era un meccanismo che conoscevo a perfezione. Lui, la sua faccia in quel modo, quel suo modo di stare rigido e inclinato, quel muoversi come il giuoco distratto e rassegnato sullo scacchiere di chi sa già l’esito della partita.
Ah sì? Non credi che partiamo domani? Se non avessi tanta voglia di andarmene da questo paese, manderei tutto all’aria, ti punirei nel solito modo. Ma partiamo, stavolta partiamo, stavolta non mi trascini. Partiamo lo stesso, anche se non ci credi. Caro Giovanni, come sai renderti odioso. E adesso come puoi, dopo ieri alla rupe, malgrado la notte scorsa e il collo che mi fa male? Non te ne ho nemmeno accennato ieri alla rupe. Tu l’hai guardato ieri il mio collo. Io non ti ho detto niente. Posso persino capire che cosa è accaduto l’altra notte. , ma ieri ho taciuto per non umilisrti, come se nulla fosse stato. Che vuoi di più? Ti ho detto che partiamo, domani partiamo, è stabilito. Torniamo in città. Ma che diavolo vuoi? Perchè fai quella faccia’ Sciogliti, respira, sembra che ti stiano trapanando. Domani sera saremo tornati in città, mangeremo in trattoria, berremo il vino che ci piace. Flavia sarà con noi, dopo la porteremo a casa sua e noi due resteremo tranquilli, come marito e moglie che tornano a casa. Non ci pensi a queste cose? Tu fai solo quella faccia che non posso sopportare. Anche gli altri non li posso sopportare. Guarda lì l’avvocato. Il colletto gli stringe la gola, sembra un agnello al supplizio. e mia madre, non ha colore la sua faccia, una faccia terrosa, con gli occhi neri, di pietra. Avvolta tutta nel suo vel, nel suo sacro dolore di madre. Ma insomma che farsa è questa? Giustino non sarebbe morto se io gli fossi stata vicina. Lo curavano con gli scongiuri, ci scommetto, con le coppette dietro la schiena; chissà con quali altre fattucchiere. Finalmente la bara è interrata. Torniamo a casa. Nella camera c’è un odore putrefatto, richiudo la porta, scendo al pianterreno. Mangiare è quello che conta, puntualmente, regolarmente. C’è un’altra cosa che conta. e anche in questo caso sono appaiati, l’avvocato, mia madre. E Giovanni è con loro.
L’indomani non partimmo. Invece di partire, andai con l’avvocato a Lauria. Mia madre ci lasciò andare. Non so se a lui disse qualcosa. So che lui schioccava la frusta sul primo tratto di strada come se fosse nervoso, anzi solenne e pacato in ogni movimento. Certo qualcosa dovette dirgli in segreto mia madre quando capì che saremmo andati a Lauria. Fu a tavola che decidemmo e lei non protestò, o forse pensava che tutto fosse sotterrato quella sera con il corpo di Giustino.
Dino ed io ce ne andammo subito dopo mangiato. C’era la luna grossa all’orizzonte ed il mare era quieto come d’estate. Gennaio è quieto a Maratea. Le bufere infuriano in autunno, dopo tutto si quieta nel freddo invernale. A marzo c’è ancora qualche bufera e piove pazzamente tra vento e mareggiate, poi l’estate dilaga sulla terra come se un coperchio la coprisse tutta., finché a ottobre, alle piogge più forti, scoppia tuonando come una caldaia e il mare ribolle, dirupa il torrente con i sassi delle rocche, trascina alberi e terra, pecore e case. Sul greto, torna la calma, trovano coltelli, piatti rotti, bacili di legno e padelle arrugginite.
Un lungo ponte attraversava il torrente, dopo Maratea, un lunghissimo ponte con quattro cipressi, uno per parte e dove finiva. Sul ponte l’Avvocato mise il cavallo al passo.
-Copriti bene, – mi raccomandò. Infine l’aria soffiava più fredda.
-Sono coperta, – dissi. – che pericolo c’è? Carne d’asino ha lunga vita.
Lui disse: – ringrazia dio che ti ha dato la salute.
-E grazie! – io dissi.
-Hai perduto il rispetto di Dio, – Dino disse. – anche il parroco ha detto che in chiesa non ti sei inginocchiata.
-Chi ha mai avuto rispetto di Dio? Non mi ricordi di averlo visto rispettare.
-Non ti pesa la coscienza quando dici queste cose?
-Lascia stare la coscienza, – dissi io. – peso più peso meno. E’ sempre leggera la mia.
Parlavamo a voce alta per coprire il rumore del calesse. La strada era gelata sotto la luna, lucida e chiara.
Lui disse: – da come parli si capisce che sei cambiata. All’ aspetto non si direbbe. Sei come allora, precisa. Un po’ più magra. Ti sei slanciata, ecco. Ma in niente sei diversa.
-Invece sono diversa, – dissi io. – so che il rispetto non esiste per nessuno.
-Eppure esiste. Vedi tua madre? Perché, allora, si è presa Giustino? E adesso perché credi ti abbai accolta nuovamente in casa? La famiglia va rispetta. E io, perché ho lasciato fare a lei? Per rispettare te, lei, e il bambino che sarebbe nato.
Allora io dissi: – senti, – gli dissi. – falli a Giovanni questi discorsi. Giovanni non sa come mi hai rispettato e può crederci, lui -. Sentivo una smania prendermi tutta. Avrei gridato: < Porco, porco unico al mondo >. L’avrei frustato in pieno viso.
Lui riprese pacato: – Non capisci. Mai ho tradito tua madre, lei invece l’ha capito, che non le ho mai fatto un torto. Con te è stata un’altra cosa. Tu e lei per me siete li stesso. E’ questo il punto, fra te lei non c’è interruzione. Tu sei più bella, sei più sottile, forse nemmeno vi somigliate, eppure non c’è differenza.
Io dissi come fra me: – da allora ogni volta è come lo stesso. Non c’è differenza. Sempre lo stesso orrore. Ogni volta la stessa aggressione, l’impulso di fuggire, un senso di essere ingannata.
E lui subito: – Questo perché ancora non hai con te l’uomo destinato, quello a cui non si sfugge, anche se inganna, anche se aggredisce. Che vuoi che sia Giovanni? Non lo sposare.
Mi ero tolta i guanti, fumavo. Dino mi prese una mano, la strinse tra le sue dita. – E’ fredda, – disse portandola sotto la coperta. La coperta ci copriva le gambe e lui tenne appoggiata sotto la coperta la sua mano e io non mi muovevo, né lui parlava, né si muoveva là sotto.
La mia testa cominciò a turbinare.
C. Pavese B. Garufi, da “Fuoco grande” (narrazione di Silvia)
-.-.-.-.-.-.
In questo gioco di specchi si svolge questa storia d’amore tormentata tra Giovanni e Silvia e nel carteggio tra Bianca Garufi e Pavese si ricostruisce passo passo il divenire del romanzo e al contempo si percepisce quanto creativo, sincero e ricco sia stato l’incontro tra lo scrittore piemontese e la giovane donna siciliana studiosa di psicanalisi. All’inizio è Pavese che incita la Garufi a scrivere:
Ma con il passare dei giorni e i mutamenti di stato d’animo dei due protagonisti le parti si invertono: Bianca Garufi a Pavese – 3 aprile 1946:
Nel frattempo lo stato di creatività di Pavese è mutato, il 23 febbraio scrive all’amica
Si arriva al 27 aprile del ’46, data dell’undicesimo capitolo che corrisponde alla fine provvisoria del libro. Le lettere seguenti lasciano intravvedere possibili continuazioni, ma non accadrà e forse la spiegazione si trova in una pagina del diario di Pavese di qualche mese dopo, il 17 giugno:
In verità il racconto verrà ripreso e terminato 16 anni dopo da Bianca Garufi in Il fossile, che conserverà la struttura delle due voci narranti ma ad opera della sola scrittrice.
Fuoco grande è, al tempo stesso, un esperimento incompiuto eppure perfetto perché s’interrompe a segreto ormai svelato, quando il complesso nodo che lega i personaggi ha avuto piena espressione. Non è un romanzo perfetto ma è avvincente, traspare la profonda relazione degli autori e pur con stile differente è scritto con una sincerità accecante. io l’ho letto due volte: da ragazzo e da vecchio ma tutte e due le volte l’ho divorato in una notte – tutto d’un fiato.
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