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di Carlo Clericetti 25 novembre 2016
Di sentir parlare del referendum costituzionale, ormai, la maggior parte della gente avrà piene le tasche, quindi non è il caso qui di riprendere daccapo tutto il discorso. Per un giudizio di grande respiro sulla riforma su cui siamo chiamati a votare rinvio a un bell’intervento di Pierre Carniti, con il quale concordo pienamente. Qui vorrei mettere in rilievo un paio di cose, niente affatto trascurabili, che hanno trovato pochissimo spazio nella caterva di interventi e dibattiti che hanno dilagato in tutti i media.
Una l’ha evidenziata il costituzionalista Michele Ainis, e riguarda le Regioni a statuto speciale. Grazie ad un comma (il 13) inserito nel nuovo articolo 39 in seguito a un emendamento di Karl Zeller, presidente del Gruppo per le autonomie, si rendono praticamente immodificabili gli Statuti di quelle Regioni, per cui ci sarà bisogno di una procedura di revisione costituzionale che abbia il consenso delle Regioni stesse. Spiega Ainis:
“Primo: aumenta la forbice tra Regioni ordinarie e speciali, benché in partenza l’idea fosse quella di parificarle. Secondo: gli statuti speciali sono più garantiti della Costituzione medesima, giacché nel loro caso occorre un passaggio in più (l’intesa), con un procedimento ultrarafforzato. Terzo: l’autonomia delle Regioni speciali non verrà mai più ridimensionata, a meno che esse stesse decidano di fare harakiri. Risultato: ci sbarazziamo del Senato, per liberarci dai suoi poteri di veto. E lo sostituiamo con cinque veto players, le Regioni-Stato. Evviva”.
Il secondo punto è ancora più serio, e l’ha messo in evidenza Luciano Barra Caracciolo, presidente di sezione del Consiglio di Stato, che da tempo studia la compatibilità fra i trattati europei e la nostra Costituzione e sull’argomento ha scritto libri come il recente “La Costituzione nella palude” (ed. Imprimatur), oltre ad animare un blog molto seguito, Orizzonte48. Scrive Barra Caracciolo:
“Si costituzionalizza l’obbligo di attuare il diritto UE come mission del Parlamento e sostanza immancabile della funzione legislativa. Ergo, l’adesione all’Uem, così com’è, risponde ora a un obbligo costituzionale, dato come presupposto indefettibile (superando le “giustificazioni” imposte dell’art.11 che si tenta di bypassare definitivamente): ciò impedirà, con forza ancor più travolgente, alla Corte costituzionale di sindacare qualsiasi aberrazione proveniente dall’Uem e renderà il diritto Uem integralmente e incondizionatamente superiore a ogni fonte nazionale. (…) La sovranità italiana è, per esplicito precetto costituzionale, vincolata, per sempre, ad autolimitarsi attraverso l’adesione alla stessa UE che, per logica implicazione, diviene un obbligo costituzionalizzato “.
In altre parole, Barra Caracciolo mette in evidenza che non solo l’adesione all’Unione viene costituzionalizzata, ma la formulazione è tale che le norme europee diventano sovraordinate rispetto a quelle della nostra Costituzione, e dunque – nei casi in cui vi fosse un conflitto – debbono essere quelle a prevalere. I difensori della riforma sostengono che non cambia nulla rispetto ad ora, ma non è così: finora non c’è stato niente del genere nella nostra Carta.
Questa modifica è esattamente l’opposto dell’impostazione della Germania, che si guarda bene dal rinunciare alla sua sovranità, Al contrario, la Costituzione tedesca prevede che qualora le norme europee dovessero entrare in conflitto con quelle nazionali sarebbero queste ultime a prevalere. Tutti ricorderanno le svariate volte che la Corte costituzionale tedesca è stata chiamata a pronunciarsi su atti dell’Unione (e della Bce), e come quella Corte, in più di un’occasione, abbia dato il via libera ma specificando che qualora fossero stati superati determinati limiti (da essa stabiliti) la norma europea doveva essere disattesa.
Ma è plausibile che questo conflitto si verifichi? In realtà si è già verificato, secondo Vladimiro Giacchè, che sull’argomento ha scritto un saggio (“Costituzione italiana contro i Trattati europei. Il conflitto inevitabile“, ed. Imprimatur). E fin dalle fondamenta: perché se per la Costituzione italiana il valore più importante è quello del lavoro, come recita la prima frase, per l’Unione è invece la stabilità dei prezzi, a cui tutto il resto deve essere subordinato. E abbiamo già cominciato a corrompere la nostra Carta inserendovi l’obbligo del pareggio di bilancio, che può entrare in conflitto con quel diritto solennemente sancito. Oltretutto, stabilire un obbligo indipendentemente dalle circostanze, è un errore dal punto di vista della gestione dell’economia: ma di questo si è già detto molte volte.
Il referendum è stato caricato di significati anche politici, e ci sono stati anche tentativi di terrorismo economico, con scenari più o meno apocalittici nel caso che la riforma non dovesse passare. Negli ultimi tempi questa strategia è stata abbandonata, anche perché, dopo le figuracce fatte con le analoghe previsioni per Brexit e per la vittoria di Trump in Usa, la credibilità di questi allarmi è scesa abbondantemente sottozero. Si possono fare le ipotesi più diverse sul “dopo”, ma è bene non dimenticare un dato di fatto: approvare questa riforma vuol dire fare un altro grande passo verso la completa rinuncia alla nostra sovranità, delegandola alle norme – quelle attuali e quelle future – decise da quell’entità carente di caratteristiche democratiche che è l’Unione europea. Più che una riforma, sarebbe il funerale della nostra Costituzione.