Fonte: La stampa
Non dovrebbe essere difficile per la destra di Giorgia Meloni applaudire il presidente Sergio Mattarella quando dice «l’autorevolezza delle forze dell’ordine non si misura con i manganelli». Il mondo di FdI si è formato esaltando e praticando la libertà di piazza anche in circostanze sul filo della legalità. In tempi recentissimi: il corteo a Roma contro mascherine e lockdown, in piena emergenza Covid, che doveva essere simbolico ma si trasformò in un enorme raduno senza regole e senza distanziamenti. In tempi più antichi: l’assedio dimostrativo al Parlamento, all’epoca di Mani Pulite, che costò fermi e perquisizioni (corpo del reato le t-shirt con la scritta «arrendetevi siete circondati»). Ma l’elenco degli esempi potrebbe estendersi all’infinito, come conferma in qualche modo la dichiarazione di un senjores, il ministro Adolfo Urso: «per la nostra tradizione, siamo quelli che più di tutti abbiamo tutelato il diritto di manifestare da parte di chiunque».
A suggerire un diverso approccio alla “questione manganelli” dovrebbero essere anche valutazioni pratiche. Giorgia Meloni si appresta a guidare un G7 altamente complesso sotto il profilo dell’ordine pubblico, e chiunque a destra ha un po’ di memoria ricorda la catastrofe del debutto berlusconiano nei grandi vertici internazionali, quel G8 di Genova che resta nella nostra storia come una disastrosa prova di impreparazione, crudeltà e abusi, sanzionati da ripetute sentenze. Una macchia anche nella biografia della vecchia An, che venne a lungo accusata di aver dato l’input all’uso incontrollato della forza non contro i black bloc ma contro la parte più pacifica dei dimostranti.
Tirare il freno a mano, insomma, non solo dovrebbe venire naturale, ma sarebbe altamente opportuno. Eppure la classe dirigente conservatrice trova difficile pronunciare parole di adesione al monito del presidente della Repubblica, quasi che dirle rappresentasse un cedimento al “nemico”, cioè a chi chiede al governo di fare chiarezza sulla sua idea di potere e di autorità, sullo spirito con cui si confronta con la protesta e il dissenso.
Abbiamo visto la stessa renitenza al commento in occasione di altri fatti enormi, come l’identificazione dei silenziosi dimostranti che ai giardini Anna Politkovskaja di Milano deponevano rose per Aleksey Navalny, o la carica sugli studenti di Ca’ Foscari all’apertura dell’anno accademico. Ma a Firenze il salto di qualità è stato evidente: era una piazza di adolescenti, ragazzini, a volto scoperto e senza neppure le armi di ordinanza nelle dimostrazioni turbolente, fumogeni e bastoni. Molti di loro, probabilmente, erano alla loro prima esperienza di corteo. Un “battesimo di cittadinanza”, insomma. La sproporzione tra la reazione degli agenti in divisa antisommossa e quella folla rumorosa ma inerme è risultata chiara a tutti: rettori, presidi, insegnanti. La domanda da farsi dovrebbe essere una sola: ma che Paese siamo diventati se non sopportiamo più nemmeno un corteo di liceali?
E invece il dibattito viene portato in altre direzioni, quasi che si avesse paura di affermare che sulle precondizioni di una democrazia – libertà di pensiero e di manifestazione, proporzionalità nell’uso della forza – destra e sinistra possano trovarsi d’accordo, come sarebbe normale in un Paese europeo. Una nota ufficiale di FdI, diramata ieri sera, punta l’indice sull’opposizione in modo perentorio: «La causa dei disordini ai quali abbiamo assistito è la sinistra che spalleggia i violenti». Ovvie le reazioni indignate del Pd e della segretaria Elly Schlein che giudica quelle parole un tentativo «di far salire la tensione nel Paese», evocando un altro tabù della nostra democrazia: l’antica strategia della tensione e il suo luttuoso portato.
No, non dovrebbe essere difficile applaudire all’unisono il presidente Mattarella quando invita a distinguere tra esercizio dell’autorità e manganelli, ma evidentemente lo è. Lo schema amico/nemico su cui la destra ha deciso di fondare la sua intera azione sembra prevalere su tutto: la memoria dei propri trascorsi giovanili, l’opportunità politica, le linee concordate dallo stesso ministro degli Interni nel confronto sui fatti di Firenze e Pisa, persino la riflessione avviata dai vertici della Polizia che hanno annunciato “verifiche”. Ma quel modello noi-contro-loro, lecito in tanti campi, non può essere applicato all’uso della forza. La forza pubblica in democrazia deve essere e apparire equidistante, soggetta alle regole dello Stato di diritto e a niente altro: studenti e tassisti, agricoltori e universitari, no-vax e sì-Palestina, stesso modo per tutti. La percezione di alcune categorie come “nemiche” non può cambiare i comportamenti di chi ha il privilegio di usare lecitamente i manganelli.
Peccato. Il governo di Giorgia Meloni ha finora sostenuto con forza la narrazione che lo rappresenta come Davide contro Golia. È un racconto che piace agli italiani, quello del coraggio disarmato che si oppone a una forza enorme e apparentemente invincibile. Rovesciare la leggenda, cambiare ruolo e scegliere quello di Golia, forse è solo il riflesso pavloviano del vecchio istinto legge-e-ordine, ma potrebbe risultare una mossa sfavorevole anche per gli interessi della premier.