Fonte: Il Manifesto
di Giorgio Lunghini 18 agosto 2014
Salari e pensioni. In Italia il 5% dei contribuenti più ricchi concentra il 22,7% del reddito complessivo. Perché abbassare i salari e tagliare le pensioni non ha prodotto (né produrrà) la ripresa della nostra disastrata economia
Torna l’idea di promuovere la crescita tagliando i salari e le pensioni “d’oro”. Tagliando i salari e liberalizzando il mercato del lavoro – si dice – aumenterebbe la domanda di lavoro, dunque l’occupazione, dunque il prodotto. È ancora la ricetta della Treasury View del ’29, che viene argomentata nel modo seguente.
Le imprese assumeranno nuovi lavoratori se e soltanto se il salario non è maggiore della produttività del lavoro. Dal punto di vista della singola impresa ciò è ragionevole: la singola impresa contabilizza il salario soltanto come un costo, e se c’è disoccupazione, è perché il salario è troppo alto rispetto alla produttività del lavoro. Segue: se non ci fossero impedimenti giuridici o sindacali, cioè se il mercato del lavoro fosse flessibile come il mercato del pesce, sul mercato del lavoro si stabilirebbe un livello di equilibrio del salario, tale che non ci sarebbe disoccupazione involontaria. Risulterebbero non occupati soltanto quei lavoratori che pretendono un salario più alto della loro produttività, le imprese produrrebbero tutto quanto sono in grado di produrre, e tutto quanto venderebbero, poiché tutta la moneta disponibile verrebbe impiegata per comperare merci e giammai trattenuta in forma liquida o a fini speculativi. L’argomentazione sembra convincente, e lo è tanto che ha ispirato e ispira tutte le cosiddette riforme “strutturali” del mercato del lavoro. Però è una tesi che non regge, a meno che non si dia per scontato che tutte le merci prodotte possano essere vendute, che conti soltanto l’offerta e non anche la domanda.
La domanda aggregata di merci è costituita dalla domanda per consumi, dalla domanda per investimenti, e dalla domanda estera.
La domanda per consumi, a sua volta, è costituita dalla domanda di quanti hanno un reddito da lavoro e dalla domanda di beni di lusso da parte di quanti vivono di rendita o di profitti. In una situazione di disoccupazione e di bassi salari, aumenta la quota — sul prodotto sociale — delle rendite e dei profitti. Si può pensare che i maggiori consumi di lusso bastino a compensare i minori consumi dei lavoratori? Ovviamente no.
Si può tuttavia pensare che gli alti profitti indurranno le imprese a aumentare la produzione di beni di consumo, dunque l’offerta, dunque l’occupazione? No, perché le loro aspettative di vendita di beni di consumo saranno pessimistiche e liquideranno le scorte. Compenseranno forse la minor domanda per consumi con loro nuovi investimenti? No: perché mai aumentare la capacità produttiva, se le prospettive di vendita sono pessimistiche? Dunque l’unico effetto di bassi salari saranno alte rendite e alti profitti, e l’impiego di questi e di quelle nella speculazione finanziaria. Speculazione finanziaria che nel migliore dei casi è un gioco a somma zero, in cui Tizio guadagna e Caio perde – ma talvolta, come oggi, un gioco in cui perde anche Sempronio.
Resta la terza componente della domanda aggregata, le esportazioni. La capacità di esportare dipende forse da un basso prezzo delle merci offerte sul mercato internazionale? Per un lungo periodo così è stato, per le imprese italiane: fino a quando hanno potuto godere di svalutazioni competitive; ma su cui non potranno più contare, nemmeno se l’Unione europea e dunque l’euro si sgretolassero. La capacità di esportare dipende anche dal costo del lavoro, ma sopratutto dal contenuto tecnologico delle merci prodotte. Quanti prodotti a alto contenuto tecnologico abbiamo in casa, di produzione nazionale delle imprese nazionali?
Circa il taglio delle pensioni “d’oro”, giustificato soltanto con una lamentosa mozione degli affetti, con l’invocazione alla “solidarietà intergenerazionale”, va detto che esso ha la natura di una imposta di scopo e che dunque nel nostro ordinamento è inammissibile; e va ricordato che la Corte costituzionale si è già pronunciata, giudicando tale prelievo in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, rispettivamente sul principio di uguaglianza e sul sistema tributario: «L’intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi».
Quanto alla “solidarietà intergenerazionale”, come avevano spiegato Keynes e Solow (che non sono i Gufi di Matteo Renzi e di Giuseppe Giusti: «Gufi dottissimi che predicate e al vostro simile nulla insegnate», ma due grandi economisti) è molto difficile decidere se sia corretto e ragionevole chiamare la generazione vivente a restringere il suo consumo in modo da stabilire, nel corso del tempo, uno stato di benessere per le generazioni future, e d’altra parte coloro che ritengono prioritario non infliggere povertà al futuro dovrebbero spiegare perché non attribuiscono analoga priorità alla riduzione della povertà oggi.
Resta, naturalmente, la grave questione del bilancio pubblico. Sotto i vincoli oggi imposti dall’Unione Europea, diventa cruciale la revisione della spesa – sopratutto della composizione della spesa: non va ridimensionato — come sinora si è fatto — ma va accresciuto il peso delle voci di spesa più idonee a alimentare la domanda, e vanno salvaguardate sanità, istruzione e pensioni. Al tempo stesso, è il peso delle uscite che in minor misura influenzano la domanda a doversi ridurre, nella misura necessaria a raggiungere il pareggio e a fare spazio nel bilancio alle spese da espandere e alla pressione tributaria da limare. Con una simile, articolata manovra di finanza pubblica, la domanda globale, anziché contrarsi, riceverebbe sostegno. Della revisione della spesa, tuttavia, molto si parla ma nulla si fa o si fa poco e male.
Oltre alla revisione della spesa, si deve pensare a una revisione delle entrate: in primo luogo al contrasto all’evasione, e anche qui molto si parla ma nulla si fa o si fa poco e male. E si deve pensare a una revisione delle aliquote dell’Irpef, secondo il dettato della Costituzione al già citato articolo 53: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Tuttavia l’aliquota marginale massima dell’Irpef è oggi pari al 43% per i redditi oltre i 75.000 euro, mentre è noto a tutti che molti e di molto sono i redditi più elevati: il 5% dei contribuenti più ricchi concentra il 22,7% del reddito complessivo. Si potrebbero dunque ridurre le aliquote per i redditi più bassi e aumentarle per i redditi più elevati, per ovvie ragioni di giustizia sociale e perché così aumenterebbe la spesa per consumi, e molto di più di quanto non siano aumentati con la beneficenza degli 80 euro. Di ciò, tuttavia, non si parla affatto.
Perché di tutto ciò non si parla e semmai si fa poco e male? L’unica risposta plausibile è che a ciò si oppongono interessi costituiti che non si vogliono o non si sanno contrastare. Scriveva Keynes, nel 1936: «Il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto con la progressiva estensione delle idee», qui però si sbagliava.