Fonte: Corriere della sera
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Intervista con il critico che lo sdoganò già negli anni Settanta. «Un museo dedicato al Principe nel rione Sanità? Sarebbe una cosa mortuaria, collezione di pezzi del passato. Il Totò di cui c’è bisogno è un Totò di oggi, che manca alla nostra cultura conformista»
Ci volle l’acume critico di Goffredo Fofi per sdoganare Totò all’inizio degli anni Settanta, nel primo dei libri che gli ha dedicato. Fofi lo piazzò fin da allora, con decisione, nell’olimpo dei grandi artisti del Novecento. Il suo saggio provocò le ire di «Civiltà Cattolica» ma anche di critici militanti e amici come Tullio Kezich. «Gran parte della critica piccolo borghese», ricorda Fofi, «non capiva Totò, che era invece in sintonia con un pubblico volgare, fatto di poveri, di morti di fame, di sale di terza visione. Totò era un comico autentico, diffidava del potere, dello Stato, aderiva agli umori di un pubblico a tratti qualunquista. In generale mostrava sfiducia nei confronti del sistema sociale e della politica, la sua comicità discendeva da un’antica tradizione, risalente fino alle atellane e passata poi attraverso il vivacissimo teatro popolare napoletano».
La fortuna di Totò da allora ha mai avuto un calo?
«La sua fama forse è po’ calata proprio in questi ultimi anni. In ogni caso c’è stata un’evoluzione nella sua carriera e nella sua storia. Le molle che lo spingevano erano la curiosità e la fame. Quest’ultima oggi in Italia non riguarda più nessuno, forse per questo il pubblico si riconosce meno in Totò. Il suo primo pubblico invece gli somigliava, si identificava. Totò proviene da una società molto classista. Nacque a vico Santa Maria Antesaecula da padre ignoto, poi acquisì la paternità di un nobile morto di fame. Sulla sua presunta nobiltà ci furono processi, Totò spese una fortuna, “lei non sa chi sono io” a quei tempi era una questione reale. In questo quadro, il suo successo veniva dal legame con un pubblico che a un certo punto è scomparso. E allora Totò è diventato un’altra cosa. C’è stata una seconda fase nella sua carriera: nel ‘72 un distributore ripescò Totò a colori e scoppiò di nuovo il fenomeno. Ricordo che Moravia scrisse una memorabile recensione. Finalmente, diceva, mi sono accorto di quanto è bravo Totò. Anche il pubblico che ha fatto il ‘68 lo ha amato: erano giovani irriverenti, non credevano nei valori piccolo borghesi».
Inizialmente Totò ricordava la maschera Pulcinella e le sue contraddizioni.
«Sì, infatti anche Pulcinella, come poi Totò, cambia mestiere continuamente, entra negli ambienti più diversi. La sua evoluzione è Felice Sciosciammocca, non a caso interpretato anche da Totò, che seppe adattare alla società in cui viveva il fenomeno della marionetta. Poi grandi registi come De Sica, Zavattini, Monicelli umanizzarono la maschera Totò. Dopo che il suo pubblico era scomparso, ha avuto un riscatto intellettuale, ma ha perso qualcosa».
Alcuni grandi registi e intellettuali alla fine lo hanno amato.
«Volponi disse: grazie alla tv Totò è diventato come il grillo del focolare, una presenza magica nelle case degli italiani. Anche Pasolini amava Totò e lo usò genialmente in tre film. Fellini lo voleva in Giulietta degli spiriti, ma costava troppo. Lattuada lo diresse nella Mandragola. Monicelli in Guardie e ladri, Rossellini nel mediocre Dov’è la libertà. Comunque Pasolini all’inizio era entusiasta di Totò, ma poi sostenne che ne avevano fatto una maschera piccolo-borghese per far accettare la volgarità dei tempi. Un Totò addomesticato. In parte era vero. Senza più il suo pubblico, la sua volgarità diventa spicciola e non ha più il senso di volgo. In ogni caso, sebbene in leggero calo, la sua comicità regge anche con il pubblico di oggi, diverso, omologato, a dominante piccolo-borghese. La società da cui veniva Totò era più complessa, ma oggi il suo talento ha ancora presa e spero che nel disordine attuale ci possa essere una ricezione più simile alle origini. In questa Italia sfasciata, miserabile, qualunquista può venire fuori un nuovo legame con Totò».
Come ogni vero comico tra i suoi punti di forza c’è lo sberleffo al potere e al pensiero dominante.
«La sua comicità sfida il conformismo e l’oppressione sessuale di quegli anni. Oggi il sesso è talmente sdoganato da diventare stomachevole. La celebre battuta sul pesce democristiano (che impediva la vista delle bellezze di Isa Barzizza) fece esplodere l’Italia, oggi fa ancora ridere ma è ben diverso visto che la pornografia è pane quotidiano. Quello era il paese in cui un giornale come ‘Italia domani’ veniva censurato per aver pubblicato in copertina il Nudo rosa di Modigliani. In quegli anni Totò riesce a ironizzare sui vizi piccolo-borghesi degli italiani, interpreta i volti del potere in Totò truffa, in Totò diabolicus e così via. Erano cose eversive per l’epoca. Oggi lo capiamo di meno, c’è un diverso disordine, la comicità di allora rispetto a oggi era sbalorditiva, le gag erano fisiche, mentre ora sono tutte verbali. Totò una volta disse: le barzellette lasciamole a Dapporto, io faccio altro».
Dunque non si vede nessun erede?
«In un certo teatro piuttosto marginale, a tratti ricompare qualcosa di Totò. Ad esempio in Santagata e Morganti. Invece il cinema di oggi viene tutto dal cabaret, i comici parlano a un pubblico conformista. L’unico ad avere una possibilità poteva essere Benigni, ma se l’è giocata per diventare un predicatore. Nella storia del teatro del Novecento Totò è uno dei grandissimi insieme a Pirandello, De Filippo e Carmelo Bene. Certo, non è un intellettuale né un teorico, è istintivo, un grandissimo attore».
Quale fu il suo rapporto con Eduardo?
«Eduardo conosceva le radici della propria arte e cercava in qualche modo di distaccarsene, di superare la tradizione. E infatti ha scritto, diretto e interpretato capolavori. La rivalità con Totò era sul piano del successo. Eduardo lo infila in Napoli milionaria ma lo fa a malincuore, è invidioso del fatto che Totò trascina il pubblico più di lui che è intelligente e più umano. Eppure le più belle dichiarazioni dopo la morte di Totò sono proprio di De Filippo che rievoca il periodo in cui entrambi lavoravano nelle baracche intorno alla ferrovia: è la rievocazione di un’epoca e di un’amicizia. Erano entrambi guitti che appartenevano a quella storia e a quella società. Oggi Napoli è cambiata, ci vorrebbe un Totò di oggi che interpretasse i dolori e la realtà attuali».
Servirebbe davvero a ricordarlo il museo alla Sanità che da vent’anni non si riesce ad aprire?
«I musei sono cose mortuarie, raccolgono pezzi del passato. Va anche bene per imparare. Ma il Totò di cui c’è bisogno, ripeto, è un Totò di oggi, con la genialità sufficiente per parlare della situazione attuale, per farci vedere il futuro magari attraverso l’utopia».