Fonte: Il Manifesto
di Claudio Mezzanzanica – 10 giugno 2018
L’analisi dell’andamento dei redditi degli ultimi cinque anni, utilizzando i dati del ministero delle finanze, apre una seria obiezione alla proposta della Flat Tax.
Tanto nelle situazioni in cui il reddito complessivo è cresciuto di poco, come nel caso delle città del sud, dove l’incremento è inferiore a quello dell’inflazione, calcolato al 3,9% dall’Istat, quanto nel caso di alcune città del nord, gli aumenti vengono assorbiti in larga parte dai redditi sopra i 55.000 euro. Andiamo da un minimo del 49% a Bari fino all’83% di Torino.
Con queste percentuali, la crescita dei redditi nella fascia più ricca si scopre che non è legata solo alle rendite che finiscono nel 730. Anche gran parte dell’aumento del reddito da lavoro finisce comunque ad appannaggio dei redditi più alti. A Milano, l’aumento del reddito da lavoro è pari al 52% dell’aumento complessivo. A Torino è il 49%. A Napoli il 37%. A Milano sono 1.137 miliardi sui 2.300 milioni complessivi. Il 78% finisce nelle tasche dei più abbienti. Dunque ricchezza complessiva e ricchezza da lavoro sono concentrate in percentuali ridottissime di cittadini.
In città come Torino, Milano, Roma, oltre il 90% dei dichiaranti si spartiscono briciole infinitesimali degli aumenti del reddito. A Milano il 92% dei dichiaranti partecipa all’aumento del 22% del reddito. A Torino il 94% beneficia del 16% dell’aumento del reddito.
La tendenza alla concentrazione, come dinamica potremmo dire intrinseca, allo stesso lavoro va analizzata con attenzione. Non si tratta solo di dichiarare che il lavoro oggi è sempre più povero. Bisogna capire perché la ricchezza prodotta attraverso il lavoro finisca in poche mani.
In questo quadro la proposta di ridurre la tassazione sui redditi medio alti diventa un gigantesco regalo a una platea di contribuenti che oggi viene già premiata dalla dinamica del sistema. La detassazione realizzabile con la Flat tax, nel settore più abbiente aumenta in modo sensibile la liquidità nelle mani di queste famiglie ma non è detto che tale liquidità si traduca in una serie di consumi che possano sostenere l’economia. Proprio perché già premiati dall’andamento economico è più probabile che quanto detassato finisca nei soliti investimenti finanziari piuttosto che nell’acquisto di beni e servizi. In questa situazione vale il discorso di Warren Buffet che invitava a detassare il reddito della sua segretaria che avrebbe senz’altro comprato qualche altro vestito mentre lui si sarebbe limitato a fare altri investimenti in borsa.
Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che i redditi medi di questa fascia sono superiori ai 100.000 euro e che la dinamica verso l’alto all’interno di questo settore è piuttosto elevata. Nelle città del nord, ad esclusione di Genova, i percettori di oltre 120.000 euro sono cresciuti del 12% nell’ultimo quinquennio. Poche migliaia di persone, ma questa mobilità verso l’alto c’è solo in questa fascia .
Il sud esce penalizzato dalla proposta della Flat Tax. Le dichiarazioni inferiori ai 26.000 euro nelle città di Napoli, Bari, Catania, Palermo, Cagliari, sono il 73%. Percentuali diverse per il nord. A Milano, Torino Bologna il 64% dei dichiaranti è inferiore a quella soglia per cui la Flat tax è di scarsa efficacia. Con questi numeri è difficile pensare una misura fiscale più iniqua. In una fase in cui l’andamento dell’economia sta dividendo pesantemente il paese sia geograficamente che socialmente si dovrebbero operare misure di riequilibrio. Una defiscalizzazione dei redditi più bassi, se ci sono le risorse, migliorerebbe il tenore di vita di milioni di famiglie. Invece si percorre la strada contraria sventolando il reddito di cittadinanza come misura di riequilibrio.
Al di là delle obiezioni sulla copertura di queste misure sembra chiaro che così facendo si lascia inalterato il meccanismo che dilata le disuguaglianze e si lascia svilire il senso anche sociale del lavoro. Questo rischio è oggi ampiamente sottovaluato. Un lavoro che sempre meno consente di costruire un futuro, che sempre meno dà certezze inevitabilmente produce una società altamente instabile. A dieci anni dall’inizio della crisi sappiamo che questa è una delle sue conseguenze e oggi la politica , anche con il «nuovo» si limita a certificarlo.