Fonte: La stampa
Un piano-sequenza che racconta – e racchiude in pochi istanti – la parabola esistenziale e politica di uno dei leader più influenti nella storia italiana degli ultimi 30 anni. La presidente della quarta sezione penale Roberta Palmisano ha appena finito di scandire l’ultima riga della sentenza di condanna, Gianfranco Fini è silenzioso, ma nel suo viso l’espressione è quella di chi ci è rimasto non male, di più: malissimo. Ma l’ex capo della destra italiana, si sa, è un uomo orgoglioso, un professionista dell’argomentare e con le sue prime parole maschera magistralmente la rabbia che gli brucia dentro: «Non sono deluso, me ne vado più sereno di quel che si può pensare».
Queste e le altre parole pronunciate a caldo Fini le sussurra con un filo di voce: è un uomo scosso e si vede. E lasciando il Tribunale, lontano dai microfoni, si esprimerà con espressioni molto crude sulla vicenda giudiziaria. In questi anni – dentro di sé – si era immaginato tante volte il momento della sentenza. A volte accarezzando l’idea dell’assoluzione e di un ritorno in politica, magari con un incarico internazionale; altre volte aveva immaginato dentro di sé quel che gli sarebbe potuto restare addosso dopo una sentenza di condanna: un’ombra sul suo onore.
La sentenza, almeno per ora, lo inchioda ad una responsabilità: aver autorizzato la vendita-svendita della casa di Montecarlo, che era stata lasciata in eredità dalla contessa Anna Maria Colleoni ad Alleanza Nazionale. Averla rivenduta sotto costo è stato vissuto da militanti ed elettori come un insulto al partito, un’entità che tra gli ex missini era – e in piccola parte resta – un luogo “sacro”: il partito come depositario dei valori ideali e patrimoniali di tutta una comunità politica.
Ecco, aver pilotato quel bene di tutti verso un proprio famigliare è il sospetto che continua ad aleggiare sull’ex leader di An, esattamente come l’addio al centro-destra, la nascita di Fli (tra l’altro la rottura con Giorgia Meloni), fecero aleggiare su Fini l’accusa più infamante a destra: quella di essere nientedimeno che un nuovo Badoglio. Accadde il 6 novembre 2012, ai funerali di Pino Rauti: Fini fu salutato da alcuni camerati col grido anacronistico di «Badoglio!», vissuto da quelle parti come il traditore per antonomasia.
Per capire sino in fondo il senso della vicenda politico-giudiziaria in corso – tra l’altro destinata a concludersi in autunno con una prescrizione penalizzante per l’ex leader – si deve ripercorrere una lunga storia. Oggi Fini ha 72 anni, da 11 è del tutto fuori dalla politica, ma per 22 anni, tra il 1991 e il 2013, è stato uno dei leader più influenti del Paese. È stato ministro degli Esteri, presidente della Camera ma soprattutto è stato l’artefice di uno degli eventi più importanti della vicenda politica del secondo dopoguerra: la trasformazione dell’Msi, il partito dei nostalgici di Salò, in una forza conservatrice di destra durante il congresso Fiuggi del 1995, nel corso del quale fu approvato un documento da tanti dimenticato anche in questi giorni. L’antifascismo era identificato come «momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che erano stati conculcati».
Quindici anni più tardi la vicenda giudiziaria della casa di Montecarlo, figlia di una storia politica più grande. Risale al 2010, quando si infiammò la prima “guerra sporca” nella storia del centro-destra italiano. Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini mal convivevano nello stesso partito, il Pdl, il secondo fece capire di non voler stare più “sotto padrone” e il Cavaliere lasciò libero campo alla rappresaglia: un’inchiesta puntuale realizzata dal Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi, sulla vicenda assai originale della vendita di un appartamento a Montecarlo di proprietà di An al fratello della compagna di Fini, Elisabetta Tulliani. Autore di quella inchiesta era stato Gian Marco Chiocci, che 14 anni dopo, certo non per quei meriti, sarebbe stato scelto da Giorgia Meloni come direttore del Tg1.
Gianfranco Fini e la casa di Montecarlo: “È stata una sentenza illogica, ferito da chi mi conosceva. Lasciai la politica, lo rifarei”
(di Paola Di Caro – corriere.it) – Si può parlare per ore con Gianfranco Fini, ma non dirà mai quello che ha deciso di non dire. E quindi, poco dopo la sua condanna a due anni e 8 mesi per aver autorizzato la vendita di «quella maledetta casa a Montecarlo», non c’è un’accusa ai giudici: «No, non è stata una sentenza politica. È stato un processo politico, questo sì. Perché io ero il leader di un partito, ho avuto alti incarichi, e per la cornice politica in cui quei fatti si svolsero e proseguirono».
Che differenza c’è?
«Non c’è stato accanimento. Sono stato assolto per tutti i casi di accusa che implicavano il reato di riciclaggio».
Quindi cosa pensa di questa condanna?
«È stato un processo paradossale con una sentenza illogica. Paradossale perché è durato 10 anni tra il primo avviso di garanzia e questa sentenza, e nel frattempo dal giudizio è uscito per prescrizione l’imprenditore Corallo, che diede a Giancarlo Tulliani i soldi per comprare l’appartamento. E ne è uscito il suo factotum, Laboccetta, che non ha ripetuto in aula le sue dichiarazioni contro di me».
Lei è stato condannato perché autorizzò la vendita. Perché è una sentenza «illogica»?
«Perché sono stato assolto da tutti i reati collegati agli effetti di quella vendita. Per tutti i fatti che la procura mi addebitava, è stato deciso che o non costituissero reato, o non li avevo commessi. Quindi quale sarebbe la mia colpa? Non aver previsto nel 2008 quello che sarebbe poi successo nel 2015?».
I giudici avranno pensato che, trattandosi della sua compagna, di suo cognato e di suo suocero, lei sapesse?
«Ma io non sapevo. Non esiste una prova, una dichiarazione, un fatto che testimoni l’opposto. Se ci fosse stata, la condanna doveva essere per tutti i capi di imputazione. Ma non c’è nulla. C’è anche la dichiarazione di Elisabetta Tulliani che lo attesta, oltre a quello dello stesso fratello Giancarlo, pur latitante. Attendo le motivazioni. E naturalmente conto che in appello arrivi quell’assoluzione piena che già c’era stata quando in un primo procedimento sugli stessi fatti venni prosciolto».
Come avete vissuto in famiglia questi anni?
«È stato doloroso. Al processo e in privato, quando Elisabetta mi ha detto: “Se continuo a difendere mio fratello finisco per danneggiare te. E non lo farò”».
Lei avrebbe potuto rompere i rapporti con la sua compagna, «salvarsi». Non l’ha mai fatto.
«Io sono convinto che anche lei sia stata vittima del comportamento del fratello. Sono fratelli, è difficile entrare nelle dinamiche così strette. Lei ha sofferto per quello che ha fatto Giancarlo, e ha sofferto per me. In un rapporto, anche se provi dolore, prevale quello che percepisci. E io so che lei è stata sincera quando mi ha parlato. Poi, tutti possono sbagliare».
Teme l’arresto per i suoi familiari?
«Ma no. Essendo venuta meno l’ipotesi di riciclaggio transnazionale, questo processo può andare in prescrizione in uno o due anni».
Lei ha smesso di fare politica attiva negli ultimi anni: a causa del processo?
«Sì e no. Ho sempre pensato che la compagna di Cesare dovesse essere al di sopra di ogni sospetto. Mi dava intima sofferenza chi magari mi accusava conoscendomi — Storace lo fece, ora siamo tornati amici — e chi ha cavalcato la tigre della delegittimazione, e lo hanno fatto soprattutto in ambienti di destra. Poi io ho votato convintamente Meloni, e convintamente ho deciso di lasciare la politica attiva».
Avrebbe detto lo stesso oggi se fosse stato assolto?
«Sì, avrei continuato a fare quello che facevo prima, conferenze, dare consigli non richiesti… Ritengo che ci siano stagioni nella vita, anche nella politica. Oggi tocca ai giovani portare avanti il Paese».
Non tutti alla sua età lo pensano.
«E allora vorrà dire che ho il pregio dell’eccezione…».
Chi le è rimasto amico, chi l’ha chiamata?
«Tantissimi mi sono stati vicini, il mio telefono non smette di squillare. Militanti, amici, persone di destra e no. Non dico i nomi, non dico i buoni e i cattivi».
Il suo grande avversario, a tratti nemico, fu Berlusconi, i cui giornali cavalcarono lo scandalo della casa. Vi siete mai chiariti?
«No, non ci siamo più né visti né sentiti. Ma quando è morto, ho scritto quello che pensavo, al di là dei rapporti personali: era un uomo di grande umanità. Le nostre madri si spensero nello stesso periodo: mi fu molto vicino».
Come esce Gianfranco Fini da questa giornata?
«Cito le parole del mio avvocato Sarno, che con Grimaldi ringrazio molto: “A un cliente qualsiasi avrei detto abbiamo stravinto, ma siccome sei Fini sono furioso, perché ne va di mezzo la tua onorabilità”. Ma io sono certo che arriverà presto il momento della verità».