Fonte: doppiozero
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Un azzardo morale?
1. È oramai largamente condivisa l’idea secondo cui se dal 2008 ad oggi – negli USA prima e più di recente nella UE – le cose non sono andate troppo male è grazie alle politiche monetarie super-espansive – che ancora qualche anno fa venivano chiamate “non convenzionali”. Politiche che hanno permesso di respirare a economie anemiche.
In effetti, l’obiettivo fondamentale di tale intervento è stato quello di ricostituire un livello minimo di fiducia al di sotto del quale le imprese non investono, i consumatori non spendono, le banche non prestano. Da questo punto di vista, quanto hanno fatto le autorità monetarie in questi ultimi anni è stato fondamentale, anche se non esente da rischi. Il problema è che, come i critici hanno sostenuto, la sovraesposizione finanziaria dell’economia globale dal 2008 ad oggi non solo non si è ridotta, ma è addirittura aumentata. Il che significa che quello che Keynes chiamava il “feticcio della liquidità” – e cioè la patologia dei mercati finanziari interessati solo ai rendimenti di breve periodo – è tutt’altro che debellato: in un sistema globale in cui fluttuano enormi quantità finanziarie, ritrovare un sentiero di crescita è molto difficile dato che vi sono contemporaneamente problemi di distribuzione del reddito, di disallocazione delle risorse e di instabilità cronica.
Quel che è chiaro è che la fiducia costruita solo sull’azione della Banche centrali non basta. Le politiche espansive adottate dalla FED (e più di recente della BCE) vanno intese solo come un modo per guadagnare tempo. Il tempo necessario alla politica e alla società per far ripartire l’economia reale e delineare un nuovo modello di crescita.
Un punto chiarito dallo stesso Bernanke che, in risposta a una richiesta di commento sull’influenza del quantitative easing (QE) rispetto ad alcuni trend economici di lungo periodo, già nel 2013 suggeriva l’urgenza di alcune riforme: “Non abbiamo gli strumenti per indirizzare i trend distributivi di lungo periodo, solo il Congresso e l’Amministrazione possono farlo. E credo che sia compito loro farlo (…) Usiamo gli strumenti che abbiamo. Sarebbe meglio avere un mix di strumenti attivi, non solo la politica monetaria, ma quella fiscale e anche altre politiche. Ma la Federal Reserve, noi possiamo, sa, noi abbiamo solo un determinato ventaglio di strumenti che sono quelli che usiamo. Ancora, il nostro obiettivo, i nostri obiettivi di creare lavoro e mantenere stabili i prezzi, credo siano allineati rispetto all’aiuto all’americano medio, ma ci sono limiti a ciò che possiamo fare riguardo i trend di lungo periodo e credo che essi siano temi importantissimi che il Congresso e l’Amministrazione devono considerare per decidere il da farsi.” (Ben S. Bernanke, Press Conference, 18/09/2013, www.federalreserve.org, tr. nostra).
Il rischio è invece che, riducendosi la pressione della crisi, ci sia una convenienza politica di breve termine a non intervenire per ridefinire la relazione tra economia e società. O peggio, che si fraintenda la politica delle banche centrali come il ritorno a una bonanza finanziaria grazie alla quale si possa tornare impunemente a fare profitti esclusivamente attraverso la speculazione.
2. Per considerare più da vicino le questioni sottostanti alla fase che stiamo attraversando, è utile limitarsi all’analisi del solo caso americano. Dal settembre 2008 al settembre 2013 il bilancio della Fed è quadruplicato, passando da 900 miliardi di dollari a 3.700 miliardi di dollari. A inizio 2014 esso ha superato la soglia dei 4.000 miliardi.
La composizione di asset del bilancio della Fed ha un profilo di rischio molto più elevato rispetto a quello della Bank of England (BoE), il cui bilancio è costituito per la quasi totalità da debito pubblico inglese. Mentre al settembre 2008 il bilancio della Fed era composto per oltre il 90% da titoli di stato americani, al settembre 2013 esso è costituito per oltre 1/3 da MBS (mortgage-backed security), transitati dai bilanci delle banche a quelli dello stato. Dei più di 4.000 miliardi in acquisti della Fed da fine 2008 a fine 2013, solo il 10% è rappresentato dall’acquisto classico di buoni del Tesoro a scadenza breve. Proprio riguardo la mutata composizione degli asset, Willem Buiter ha coniato l’espressione “Qualitative Easing”, per indicare il processo tramite il quale una banca centrale aggiunge al proprio bilancio asset rischiosi. La valutazione degli asset si basa, qui, principalmente sull’evidenza secondo la quale in alcuni mercati, come quello degli MBS, la Fed è un player che assorbe da sola oltre l’80% del mercato e sull’ipotesi secondo cui l’enorme volume degli acquisti della Fed abbia causato un rialzo dei prezzi, supportata dalle analisi che mostrano la stretta correlazione tra i round di QE e l’andamento di Wall Street.
Da misura provvisoria motivata dall’eccezionalità della crisi, la politica dell’allentamento quantitativo si sta protraendo nel tempo. Ben Bernanke, Presidente della Fed fino a inizio 2014, soprannominato “helicopter Ben” dai suoi detrattori a seguito della massiccia inondazione di liquidità comportata dal QE, ha spiegato la logica sottostante al QE nei seguenti termini: “L’idea sottostante il QE è dare alle banche una notevole quantità di liquidità in eccesso nella speranza che esse sceglieranno di usarne una parte per concedere prestiti o per comprare altri titoli. Tali acquisti dovrebbero, in via di principio, far crescere il valore sia dei titoli che di misure più ampie della ricchezza e questo, a sua volta, dovrebbe indurre famiglie e imprese a comprare asset non monetari o a spendere maggiormente in beni e servizi.” (Ben S. Bernanke: The federal Reserve’s Balance Sheet: an update [Speech] – Conference on key developments in monetary policy, Washington D.C., 8/10/2009, www.federalreserve.org, tr. nostra). La Fed, insomma, avrebbe dato soldi alle banche “nella speranza” che esse erogassero prestiti a tassi d’interesse bassi sia alle imprese che alle famiglie e che, in questo modo, ripartisse l’economia. Si tratta di una speranza, perché le banche non sono state in alcun modo vincolate nell’utilizzo del denaro ricevuto tramite prestiti a un tasso prossimo allo zero. I detrattori di tale politica – come ad esempio Stiglitz – sottolineano come, in effetti, il denaro sia per lo più confluito in attività ad alto rischio, permettendo così al modello finanziario pre-crisi di continuare come prima.
Lo stesso Bernanke, nella sua testimonianza al Congresso del 26 febbraio 2013, nel giustificare l’assunzione di un rischio significativo la assume e ne evidenzia i potenziali costi nei termini seguenti: “Una politica monetaria molto accomodante ha anche diversi rischi e costi potenziali che la Commissione sta attentamente monitorando. Ad esempio, se un’ulteriore espansione del bilancio della Federal Reserve dovesse minare la fiducia pubblica nella nostra capacità di uscire gradatamente dalle politiche di allentamento al momento opportuno, potrebbero sorgere aspettative di inflazione che metterebbero a rischio l’obiettivo del FOMC della stabilità dei prezzi (…) Un altro aspetto delle politiche della Federal Reserve che è stato discusso consiste nelle implicazioni per il budget federale.” (Ben S. Bernanke, Semiannual monetary policy report to Congress. Before the Commettee on banking, housing and urban affairs [Testimony] – US Senate, Washington DC, 26/02/2013, tr. nostra).
3. Nella categoria degli attuali beneficiari del QE rientrano, oltre al Governo – a cui la Fed sta abbassando il costo del debito e, in parte, finanziando il debito stesso –, le banche americane che, tra il 2007 e il 2012, hanno registrato una crescita nel margine di interesse di 150 miliardi di dollari. Altri beneficiari sono i grandi investitori, i fondi di investimento, le imprese il cui finanziamento non dipende dai prestiti bancari (per lo più di grandi dimensioni) e il 10% più ricco delle famiglie americane che, secondo la più recente Survey of Consumer Finances della stessa Fed, deteneva nel 2010 asset finanziari per un valore venti volte superiore al restante 90% delle famiglie (www.federalreserve.org). L’andamento di Wall Street, infatti, è stato strettamente correlato ai round di QE.
Se il consenso sul contributo del QE alla crescita del prezzo degli asset finanziari è praticamente unanime, la discussione su quanto il QE abbia influito sulla crescita delle disuguaglianze economiche registrata in America nel dopo-crisi rimane aperta. Beneficiari del QE sono, infine, le famiglie americane che registrano un saldo negativo tra il totale delle attività finanziarie e il totale delle passività finanziarie detenute, tipicamente giovani con un mutuo su cui possono pagare un basso tasso d’interesse. Quello che sappiamo è che tra gli svantaggiati del QE al momento figurano la maggioranza delle famiglie americane (in possesso di bond più che di altri asset finanziari e non debitori netti) e alcuni paesi emergenti. Riguardo questi ultimi, laddove il QE ha contribuito a incentivare la ricerca del rendimento sui mercati emergenti, l’annuncio del tapering ha generato forti deflussi di portafoglio e una diminuzione dei prezzi delle attività degli stessi (BRI, Rassegna trimestrale, marzo 2014, www.bis.org), in particolare in Turchia, Argentina e Brasile. Tuttavia, le conseguenze negative a più forte impatto, sui taxpayers americani innanzitutto, dell’assunzione di rischio da parte della Fed, potrebbero doversi ancora verificare. Se la Fed realizzasse perdite tali da eroderne il capitale, potrebbe dover essere ricapitalizzata dal Tesoro: il rischio è che il QE provochi una svalutazione interna ed esterna del dollaro, di cui un segnale di possibilità è il deprezzamento del cambio reale effettivo del dollaro verificatosi nei primi mesi del 2014. Il ventaglio di rischio si apre con un’inflazione del dollaro e si chiude con la sfiducia nel dollaro, che avrebbe conseguenze pesantissime sul futuro prossimo (e probabilmente su quello delle generazioni future). In questo peggior scenario, si paventa un rischio sistemico, causa non solo l’interconnessione finanziaria globale, ma anche il fatto che il dollaro è la valuta di riserva mondiale. Diversamente dalle banche, a cui la Fed sta ripulendo i bilanci, i cittadini americani rischiano inoltre di trovarsi privi di ammortizzatori nel mezzo di una crisi più violenta di quella iniziata nel 2008. Infatti, nell’eventualità di nuove forti perdite da parte degli operatori privati, difficilmente la Fed potrebbe fare da argine, come spiega l’ex regolatore e banchiere Jean-Michel Naulot: “Se le azioni di alcune istituzioni particolarmente interconnesse dovessero crollare, la Fed sarebbe ancora implicata nei salvataggi, con l’aggravante, questa volta, di potersi trovare nella situazione di non riuscire a farvi fronte (…) La politica monetaria a tasso zero sul lungo periodo crea delle liquidità che sono altrettanti capitali disponibili per la speculazione, per alimentare la prossima crisi. E quando ci si è abituati a questa morfina finanziaria, diventa difficilissimo farne a meno. Per i cittadini, il costo delle crisi finanziarie va ben al di là dell’esame contabile del costo immediato delle perdite bancarie. Il mondo occidentale ha raggiunto un punto in cui, in caso di una nuova crisi sistemica provocata dalla bolla speculativa, i tradizionali strumenti della politica economica, riserve e moneta, rischiano di non poter più essere utilizzati” (Naulot 2013, p. 63, tr. nostra).
4. Al momento del suo lancio, il QE1 è stato presentato come una politica non convenzionale per fronteggiare l’emergenza finanziaria sul breve termine, in attesa dell’entrata in vigore di riforme strutturali che avrebbero potuto portare un rilancio dell’economia. La scommessa implicita era che l’economia americana si sarebbe ripresa prima del tapering. Con una metafora, il QE1 doveva essere il farmaco salvavita somministrato a un malato unitamente ad altri farmaci, che nel frattempo ne avrebbero curato la malattia. I soldi spesi durante il QE1 dovevano servire a comprare innanzitutto il tempo utile ad avviare le necessarie riforme strutturali a livello fiscale, economico e sociale. Il rischio è quello di pensare che il salvavita possa sostituire la cura. Che il passaggio dall’eroina (la finanziarizzazione privata) al metadone (la finanziarizzazione pubblica) finisca non per guarire il malato (come si spera che accada), ma per creare una nuova pericolosissima dipendenza. Tale effetto rischia di prodursi nel momento in cui si comincia a credere che l’“effetto ricchezza” creato dal QE basti a restituire a imprese e famiglie la fiducia nel futuro necessaria per ricominciare ad investire, pur in assenza di un progetto economico e sociale sostenibile nel tempo. È appena il caso di sottolineare come sia stata la cronicizzazione del QE – tramite il QE2, il QE3 e il QE4 – a trasformare questa misura straordinaria in un azzardo morale in senso classico, laddove nel tempo è emersa la sproporzione tra le possibili conseguenze negative e i ritorni sul breve termine oltre che tra le riforme auspicate e quelle realizzate. Con le parole di Andrew Huszar, che nel biennio 2009-2010 è stato responsabile del programma di acquisto di 25.000 miliardi di MBS da parte della Fed: “Nonostante le retoriche della Fed, il mio programma non aiutava ad aumentare la disponibilità di credito per l’americano medio. Scusami, cittadino americano (…) Pompando senza sosta liquidità sui mercati finanziari, il QE, negli ultimi cinque anni, ha soffocato l’urgenza, per Washington, di confrontarsi con una crisi reale: quella di un’economia americana strutturalmente debole (…) La Fed sta puntualmente compensando le disfunzioni del resto di Washington. Esempio tipico: ha permesso al QE di diventare la nuova politica “troppo grande per fallire” di Wall Street.”
La logica di sacrificio del lungo termine al breve è la stessa logica di diniego delle possibili esternalità negative che ha caratterizzato il modello economico del pre-crisi, dettandone l’insostenibilità. L’analisi delle possibili spiegazioni del mantenimento di tale modello, insito nell’azzardo morale della Fed, esula dagli obiettivi di questo breve testo. Si tratta, però, di un tema, già presente nel dibattito internazionale, passibile di aprire ulteriori piste di ricerca, che per questo merita qui una menzione. La collusione tra élites finanziarie e politiche è il minimo comune denominatore di spiegazioni che si rifanno ora a meccanismi ben noti (in particolare a politologi e sociologi) come le ‘porte girevoli’ tra mondo della finanza e mondo della sua regolamentazione o l’influenza delle lobby, ora a un difetto di regolamentazione – come nel caso delle sovvenzioni ai partiti consentite in America e della governance della Fed, che prevede mandati rinnovabili per il Governatore e nomine dei vertici da parte del Presidente degli Stati Uniti. La critica sociale attuale suggerisce che il QE sia stato attuato non solo per evitare di tassare di più i ricchi, ma anche per arricchirli ulteriormente, visto che esso ha contribuito all’ampliamento delle disuguaglianze economiche registrato in America nel dopo-crisi. Una spiegazione che occupa un posto preminente sulla stampa internazionale è poi quella che, richiamando la teoria dell’egemonia culturale, vede i regolatori “catturati” nella visione di coloro che devono regolamentare. A giudizio di chi scrive, un’ipotesi particolarmente promettente è quella di matrice convivialista, secondo la quale il consenso, nelle democrazie avanzate, si mantiene oggi sulla base della promessa di un crescente benessere individuale. Da cui la difficoltà, per i decisori americani, di propendere per uno stato finanziario momentaneamente stazionario (se non addirittura decrescente) e la necessità di inondare l’economia per evitarlo nel breve, anche a costo di effetti collaterali maggiori nel medio-lungo periodo. Ma di qui anche la scelta di continuare a spendere per lo stimolo ai consumi, anziché per progetti strutturali con un moltiplicatore forte. Questi ultimi avrebbero potuto sostenere unitamente la fiducia degli investitori sui mercati e la ripresa dell’economia reale, legando nuovamente finanza, economia e società oltre a riallineare, per ciò che riguarda nello specifico il tema dell’azzardo morale, costi e benefici del rischio. Come a dire che l’uscita dalla crisi potrà essere tanto più indolore quanto più, nel frattempo, saranno state adottate misure per riconnettere Wall Street e Main Street.