Fonte: huffingtonpost
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di Stefano Fassina – 18 luglio 2017
L’assemblea del 18 giugno al Teatro Brancaccio e la manifestazione a Piazza SS Apostoli il 1 luglio hanno avviato percorsi distinti che dobbiamo far convergere. La pluralità delle culture politiche in campo è evidente. La lettura del trentennio alle nostre spalle differisce. Le priorità da affrontare coincidono soltanto in parte. Ma le differenze attraversano ciascuna delle platee e sono di gran lunga prevalenti gli elementi trasversali condivisi. Lo confermano, da ultimo, le parole di Giuliano Pisapia sui diritti di lavoratrici e lavoratori, sul contrasto alla disuguaglianza, sulla tassazione dei patrimoni, sulla sostenibilità ambientale. Pertanto, definita senza ambiguità non soltanto l’autonomia ma l’alternatività al Pd, non alla persona del suo segretario, ma alla sua agenda, agli interessi forti che rappresenta, alla democrazia plebiscitaria incardinata nel suo statuto, dobbiamo precisare con chiarezza e in tempi rapidi il programma comune da presentare a un’Italia in bilico e la leadership per interpretarlo.
Vi sono mille difficoltà lungo il cammino per la convergenza. Le possibilità per superarle sono due. La prima: una classe dirigente consapevole non soltanto della radicalità dei problemi, ma anche della urgenza di avviare soluzioni, inevitabilmente parziali, ma effettive. A tal fine, è decisivo evitare due irrilevanti liste “a sinistra” del Pd. Oggi, purtroppo, è un rischio reale. Le parole e i comportamenti di alcuni protagonisti sotto-stimano pericolosamente la deriva inerziale dell’auto-sufficienza. Sarebbe una sciagura: non per il ceto politico eventualmente condannato sotto soglia elettorale, ma per quel popolo delle “periferie esistenziali” che vorremmo tornare a rappresentare e a soddisfare. Non soltanto rappresentare. Anche soddisfare. Attenzione a insistere sulla lettura della “crisi della democrazia” come crisi di rappresentanza. Non è così. Crisi della democrazia è essenzialmente crisi di efficacia, dovuta allo smantellamento, senza alternative adeguate, degli strumenti nazionali faticosamente costruiti nel ‘900, in particolare dal movimento operaio e dalle forze progressiste. In tale quadro, la separazione tra i frammenti “a sinistra” del Pd certificherebbe l’irrilevanza politica di ciascuno. Perché chi è in difficoltà cerca risposte efficaci, non soltanto post sui social, ordini del giorno, mozioni, interrogazioni o presidi di solidarietà. Per ricostruire la sinistra di popolo, il pre-requisito è la capacità di incidere, almeno potenzialmente, nel governo dei processi.
La seconda possibilità per superare gli ostacoli lungo la strada della convergenza tra le forze in gioco “a sinistra” del Pd, è il metodo democratico: senza primarie per il programma e per la leadership, senza chiamare a partecipare la parte più attiva del popolo da rappresentare, nessuno può riuscire a legittimare proposte e classe dirigente. Nessuno ha diritti di veto da esercitare, ma continuare a far andare avanti soluzioni predefinite in termini di leader e programma, chiudere unilateralmente “cabine di regia” e aspettarsi rassegnate e inevitabili sottomissioni dai presunti Peter Pan ancora impegnati a giocare per strada vuol dire ignorare un dato di realtà e assumersi la responsabilità della divisione e del fallimento politico e elettorale di tutti.
In sintesi, la sinistra, per riprendere la parola e ritrovare il suo popolo, deve smettere di dibattere di Matteo Renzi, di Pd e di formule astratte. Per arrivare a una lista credibile, dobbiamo invece guardare avanti, affrontare le determinanti strutturali della svalutazione sociale e politica del lavoro e le risposte possibili e concordare le regole per scelte partecipate. Altrimenti, giustamente, sia la proiezione elettorale del Brancaccio sia quella di SS Apostoli sarebbero punite dai potenziali elettori attraverso il “voto di sanzione”, come ben scrive Michele Prospero.