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di Franco Cardini – 5 febbraio 2017
L’Europa di Bruxelles/Strasburgo è in crisi. Soprattutto perché il suo prestigio è in calo vertiginoso, la sua credibilità scende sempre più rapidamente. Nel mondo ancor dominato dalle “tre egemonie” (la statunitense, la cinese e quella musulmana, che è piuttosto un egemonismo) e complicato dalle potenze ascendenti tra le quali anzitutto la Russia che non si può più considerare tout court una “potenza regionale”, essa può ancora aggregarsi alla prima solo a patto di accettar il perdurare del suo ruolo subalterno collegato con la NATO. Ma se da noi si è smesso da tempo di gridar in coro per le strade “Fuori la NATO dall’Europa, fuori l’Europa dalla NATO!”, par quasi di capire che uno slogan del genere sta in qualche modo risonando tra le fatidiche pareti ovali dello studio del presidente degli Stati Uniti d’America. In caso di una qualche modifica dello statuto dell’Alleanza Atlantica, anche l’UE ne risentirà senza dubbio in qualche modo. D’altronde, va detto che quest’Europa “unita” dei governi e degli stati anziché dei popoli non ci ha mai del tutto soddisfatto. Sbancarla, eliminarla, tornare alla costellazione di stati “sovrani” (che poi sovrani, dal punto di vista diplomatico quanto militare ed economico, sarebbero solo per modo di dire…) è arduo e problematico: qualcuno lo propone, ma si tratta sempre di proposte prive di concreta, credibile progettualità. Lasciarla così com’è, Eurolandia perpetuamente iperburocratica e iperlegiferante, è insostenibile.
Ed eccoci di nuovo al vecchio interrogativo leniniano: “Che fare?”. In un pamphlet di due o tre anni or sono che avrebbe forse dovuto essere un dialogo, ma che si risolveva in due monologhi contrapposti, Giuliano Amato ed Ernesto Galli della Loggia – pur convenendo “non solo che il progetto europeo vada proseguito (euro incluso, per ciò che riguarda l’Italia), ma che ciò vada fatto mettendosi su una strada diversa da quella del passato” – percorrevano rispettivamente una via molto diversa se non opposta: il primo sosteneva che esso debba esser portato avanti superando le frattura tra nord e sud, tra paesi creditori e paesi debitori, sconfiggendo la crescente ostilità dei populismi antieuropei, il secondo riteneva necessario eliminare l’equivoco dell’”ideologia europeista” facendo ripartire un’Europa fondata su identità, condivisione e storia comune.[1]
Ma quel pur denso e interessante dibattito, svoltosi in fondo appena qualche mese fa, appare ormai desueto. Oggi molte cose sono cambiate anche se non siamo in grado di dire quanto definitivamente e in che misura. Siamo letteralmente “in mezzo al guado”. La dimensione dell’incombente crisi epocale si è ormai palesata in tutta la sua potenza col “vertice di Davos”, con la parata della sessantina circa di soggetti familistici e lobbistici nelle mani dei quali si concentra la maggior parte della ricchezza – fisicamente conservata off shore, quando non sia puramente virtuale – in un mondo caratterizzato dalla più spaventosa sperequazione e dal gigantesco dilatarsi dell’impoverimento. D’altro canto, le recenti esternazioni del neopresidente Trump a proposito della NATO (uno smantellamento o un ridimensionamento della quale potrebbe tuttavia presentarsi, paradossalmente, come una buona occasione per l’Europa, se non altro consentendole di recuperare un po’ di sovranità) e il suo sia pur problematico avvicinamento sia alla Russia di Putin, sia all’Inghilterra del Brexit, potrebbero condurre, come si dice, a un enorme “allargamento dell’Atlantico”: e ciò potrebbe costituire un’inedita possibilità obiettiva di ridefinizione del progetto unitario europeo.
Da oltre mezzo secolo ho mantenuto un ingenuo ideale europeistico, che l’UE non ha mai soddisfatto. Lo ribadisco: per quanto, abbondantemente passata la settantina, il mio pur straordinario ottimismo non giunga a farmi sperare di assistere di persona alla sua fondazione, continuo a sperare ardentemente nella costituzione di una futura CSE (Confederazione degli Stati Europei), che magari mantenga la sua bandiera azzurro-stellata e il suo inno ispirato alla Nona di Beethoven, opportunamente fornito beninteso di un testo adeguato. Continuo a sperare in un’Europa autenticamente (cioè politicamente) unita, se vogliamo mantener intatto il nostro patrimonio culturale identitario (o quanto ne resta) senza venire schiacciati dai grandi blocchi superstatali e/o plurinazionali che ormai egemonizzano il mondo o, peggio ancora, divenir vittime della spietata volontà delle grandi lobbies che dominano la vita finanziaria ed economica del mondo presente e che, nascoste dietro l’alibi della libertà individualistica e delle “libere leggi del mercato”, hanno ridotto i professionisti della politica a loro “comitati d’affari” distruggendo l’ambiente e soggiogando i popoli, cancellando il concetto di “Bene Comune” e sistematicamente sacrificando gli interessi delle comunità a quello delle minoranze ad esse organiche, gli “individui emancipati” mentre promovevano una lettura dei “valori” in chiave di “diritti umani” letti sempre in una chiave rigidamente individualistica (e cancellando pertanto i diritti sociali).
Quanto a una futura, poco credibile forse ma auspicabile comunque unità europea, ritengo appunto il modello confederale, quindi grosso modo “svizzero”, più adatto all’Europa politicamente unita di quello “federale” all’americana o alla tedesca poiché – diversità linguistiche a parte – le differenti storie delle nazioni e dei popoli che costituiscono il nostro continente e la pesantezza dei loro rispettivi “passati-che-non-passano” impediscono la costituzione di un vero e proprio e pluribus unum e il superamento degli stati nazionali: d’altronde, le forzature e le prevaricazioni che in modi e in tempi sia pur diversi sono stati alla base della costituzione di ciascuno di essi obbligherà in qualche modo l’Europa a porre alfine attenzione alle ragioni delle “nazioni negate”, vittime dei differenti processi – spesso arbitrari e violenti – di unità “nazionale” e ad accordare in qualche modo spazio anche alla loro voce e alle loro aspirazioni.
Quel che in altri termini auspico, e lo esprimo in termini ben consapevolmente “medievali”, è la costituzione di una res publica Europensis che non si lasci fuorviare né dal “sovranismo” che oggi impera tra i populisti grosso modo definibili come “di destra” né dalle residue tentazioni “cosmopolitiche” e genericamente umanitarie di quel che resta delle sinistre, ma che s’ispiri invece a un confederatismo differenzialista e solidaristico di base ben innervato a un potere sovranazionale effettivo, evidentemente gestore della moneta, al quale i singoli stati dovrebbero decidersi una buona volta sul serio a cedere parte della loro sovranità: quanto meno per quel che attiene i settori-chiave delle “Tre Esse”: Scuola (quindi anche Università e annesse politiche culturali), Sicurezza (e ovviamente esercito), Sanità (con annesse politiche di welfare, quelle che sono sacrosanto diritto e inaggirabile dovere dello stato e che la spocchia di destra e l’idiozia di sinistra definiscono ormai, concordi, “assistenzialismo”). Il Pubblico e il Solidaristico, vale a dire il Sociale/Societario e il Comunitario (la Gesellschaft e la Gemeinschaft del buon vecchio Ferdinand Tönnies) dovrebbero in altri termini essere i due criteri-base complementari della Confederazione, accompagnati a un controllo del Privato non certo liberticida, tuttavia senza dubbio molto severo: condizione questa sine qua non – Tommaso d’Aquino insegna – per un autentico perseguimento del “Bene Comune”. Il che in altre parole coinciderebbe con un abbandono del primato dell’economico e un ritorno a quello – auspicabile – del politico. Una Confederazione Europea, diciamolo apertamente, intesa politicamente ed eticamente come katechon.[2] E che, se il “nuovo corso” avviato da Trump si evolvesse nel senso di un’alleanza “iperoccidentale” tra il neoisolazionismo americocentrico degli USA e il Commonwealth dell’Inghilterra scaturita dal Brexit –[3] e saremmo davvero con ciò, sul piano mondiale, al puro e semplice Laviathan schmittiano -, per quanto è in me non disdegnerei il sospingermi (siamo su un piano ohimè vertiginosamente ottativo) fino all’auspicare la costituzione di un’autentica “Santa Alleanza Behemothiana”, cioè “iperorientale” in senso ancora una volta schmittiano, vale a dire eurasiatica, tra Russia, Europa e Iran: con buone prospettive d’aggregazione sinoindobrasiliana. Allora sì che cominceremmo a ragionare. Questi, d’accordo, sono sogni, questo è Great Game per non dire Risiko. Eppure, chissà…
[1] G. Amato – E. Galli della Loggia, Europa perduta?, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 8 e passim.
[2] Questa visione delle cose è largamente ispirata a G. Dussouy, Fondare lo stato europeo. Contro l’Europa di Bruxelles, Napoli, Controcorrente, 2016.
[3] Pur ammesso – e ben poco concesso – che lo sviluppo dell’affare-Brexit non provochi un contraccolpo ad esempio nella Scozia decisamente orientata in senso europeistico, il che comporterebbe conseguenze gravissime per lo stesso Regno Unito.