Di Franco Cardini – 27 maggio 2019
EUROPA, EUROPAE…
Grande puntata, questa: in tutto degna della notte dopo le elezioni, anche se m’interessa poco come siano andate. Facendo nottata comunque per seguire gli esiti, ne approfitto per questo maxi-numero europeo ed europeistico. Non mi verrà bene: sono stanco, vorrei dormire almeno un paio d’ore prima delle 6 quando dovrò alzarmi e senza dubbio verrà fuori un po’ pasticciato, con più errori del solito. Ma credo ne valga la pena. Non sono riuscito a recuperare il “pezzo” che mi aveva inviato l’amico Luigi Copertino sulla relazione di monsignor Giampaolo Crepaldi con belle citazioni da Dawson e da Gilson e una sacrosanta critica a Maastricht: il che mi dà occasione di ricordarvi che l’Editrice Oaxs (www.oaxseditrice.it) ha ripubblicato la Storia della Repubblica del compianto, carissimo amico Giano Accame: un giornalista straordinario, un uomo libero e coraggioso, uno studioso di economia non “accademico” ma professionistico: uno soprattutto che, senza esser di sinistra, trattò a suo tempo l’iperliberistico Trattato di Maastricht esattamente come andava trattato, denunziandone senza mezzi termini l’iperneoliberismo quando fior di politici (e di economisti accademici) di sinistra applaudivano appunto proprio a quell’iperneoliberismo e applaudivano indiscriminatamente a ogni sorta di privatizzazioni. Sarebbe stato patetico, se non fosse stato odioso, quel loro lodare il fatto che con Maastricht i governi non avrebbero più potuto “impiegare il denaro di tutti” per sostenere la imprese che non ce la facevano, nel contesto di quell’economia mista ch’era stata una delle forse non molte cose buone del fascismo e della prima parte della prima repubblica. Ma i signori di Maastricht ci tacquero (e non tutti noi ci arrivammo: quanto meno, non subito) che quell’impedire allo stato di aiutare le imprese pericolanti non era difesa del danaro pubblico dall’“interesse privato” bensì, al contrario, il trionfo della peggior forma di sfruttamento privato: perché così le imprese, bisognose di prestiti, finivano nelle mani delle banche e subivano il meccanismo dei crediti da esse gestiti. Svendute al peggior liberismo, quello dimentico della grande lezione di Stuart Mill e di Einaudi; senza uno stato serio, solido e forte non si tiene in piedi nessun sistema liberale. Ma tra il liberalismo “classico” e quel che s’intende oggi per liberismo c’è un abisso. Insomma, qui – si può citare una parola usata spesso a Ezra Pound? – si tratta di usura: e usura eccome.
Rileggete Accame, quindi. E andiamo avanti.
Nel corso del Minimum Cardinianum 247, quello della settimana scorsa, avevo inviato una Lettera aperta a Ernesto Galli della Loggia. Siamo vecchi amici, ma non avrei mai creduto che mi avrebbe risposto: e subito, e con una bella lunga lettera nella quale replica con efficacia e successo ad alcune mie critiche.
LA RISPOSTA DI GALLI DELLA LOGGIA
Caro Franco,
non possiedo neppure uno smartphone, mi accontento di un Nokia prebellico (decidi tu di quale guerra si tratta delle molte che hanno deliziato il nostro immeditato passato prossimo), non sono in alcun modo “sui social”, figurati dunque se potevo leggere il tuo blog! (ti confesso che in vita mia non ne ho mai frequentato alcuno: ci credi?). Anzi: figurati se poteva venirmi mai in mente che tu ne avessi uno! Mi sbagliavo, evidentemente: e così è accaduto che mi sono privato delle cose così interessanti che tu vi scrivi e di leggere la garbata, garbatissima, tiratina di orecchie che mi hai dato pur in un oceano di complimenti di cui mi accontenterei di meritarne sia pure una millesima parte.
Ma vengo al dunque (beninteso per accenni rapidi e slegati), quasi non sapendo però da dove cominciare tante sono le questioni che tu sollevi prima di arrivare a Notre Dame, e che però con il rogo del 15 aprile c’entrano eccome.
Innanzi tutto il rapporto Europa-Occidente-Cristianesimo-Modernità. In materia in cui sei maestro il tracciato storico che delinei è impeccabile: ma sei sicuro che esso sia destinato a muoversi ora e sempre nella medesima direzione verso cui si sta muovendo da tre-quattro secoli? E’ davvero così certo, come mi sembra tu creda, che nel nostro futuro più o meno lontano ci sia irreparabilmente l’incredulità di massa, l’irreligiosità, la laicità ecc. ecc.? E’ davvero certo che il sacro sia morto per sempre? Sacro e religione sono cose diverse, ovviamente, e cosa ancora più diversa è il Cristianesimo, lo so, ma chi può dire in merito qualcosa se del futuro non sappiamo nulla pur presumendo di sapere tutto? Non pensi che basterebbe ad esempio una gigantesca crisi energetica, una paurosa catastrofe ambientale, un tracollo dell’economia mondiale di proporzioni imprevedibili per vedere riprendere vita inquietudini, interrogativi, paure, sentimenti dell’inconoscibile, che credevamo spenti per sempre? E chissà, mi viene da pensare, che l’emozione così’ vasta suscitata dal rogo di Parigi non sia stata forse proprio il segnale – per il momento ancora allo stadio di semplice avvisaglia – di qualcosa del genere? Il segnale che forse siamo entrati in un’epoca assai meno corazzata di certezze di quanto supponevamo, assai più timorosa di vedersi franare d’improvviso sotto i piedi il terreno su cui ha costruito il suo orgoglioso razionalismo prometeico.
Se capisco bene mi rimproveri poi velatamente ma non troppo di indulgere in qualche modo a un pregiudizio antiislamico (considerando gli islamici in quanto tali animati da sentimenti anticristiani), nonché, ancor più specificamente, di non considerare che i soprusi patiti dal mondo islamico per tanto tempo ad opera dell’Occidente possono ben avere risvegliato in esso quel medesimo sentimento identitario (e dunque fatalmente “contrappositivo”) che l’incendio di Notre-Dame ha risvegliato nel mondo cristiano.
Non lo credo. Credo piuttosto che sul rapporto tra i due mondi di cui sopra non abbiamo un identico punto di vista. Ti dico del mio, sempre per accenni rapidi e slegati.
Non credo affatto che l’uomo della strada islamico nutra sentimenti anticristiani. Ma credo che nell’ormai secolare movimento di rinascita politica dell’Islam, questo moto politico e la tradizione religiosa si siano mischiati e sovrapposti in misura forte, fino a risultare soggettivamente indistinguibili, a fare in molte persone un tutt’uno. Il khomeinismo e i Fratelli mussulmani ne sono i primi esempi che mi vengono alla mente. Non solo, ma tale confusione politico-religiosa si mostra così aggressiva, innanzi tutto all’interno della stessa comunità islamica, da esercitare nel suo ambito una sorta di larga, penetrante ed efficace opera di intimidazione: chi la contrasta viene a trovarsi troppo facilmente incasellato nella scomodissima casella del “venduto” e del “traditore”. E poiché chi di quella confusione si fa forte, cioè l’islamismo, spesso germoglia gruppi di militanti violenti, talora dediti a pratiche di feroce terrorismo, finisce per risultarne che dissociarsi pubblicamente da quell’islamismo e dalle sue azioni risulta assai pericoloso. Da qui il silenzio che, tranne qualche parolina di circostanza, le comunità islamiche, i paesi islamici, adottano da anni di fronte alle ormai centinaia e centinaia in tutto il mondo di cristiani uccisi per mano islamica, alle centinaia di chiese fatte saltare in aria o date alle fiamme. Sono d’accordo con te: a opporsi qui da noi ai presepi nelle scuole non sono certo gli imam: sono quasi sempre le professoresse e i presidi “democratici”. Sono gli imam però (con tutti i loro fedeli) che, tranne le paroline di circostanza di cui dicevo sopra, tacciono regolarmente di fronte allo spettacolo pressoché quotidiano della caccia al cristiano in molti, in troppi, Paesi del sud del mondo
Ma c’è la storia, tu dici, ci sono da considerare i nostri peccati, i nostri trascorsi oppressivi, il nostro colonialismo nei confronti dell’Islam. Anche su questo punto temo che non siamo d’accordo. Innanzi tutto sui tempi. Quei nostri soprusi, caro Franco, non contano cinque secoli, come mi pare di leggere nel tuo scritto: ne contano uno e mezzo o poco più. Diciamo dalla fine del settecento alla metà del Novecento. Prima dell’affacciarsi degli inglesi in India, infatti, i Paesi cristiani nel mondo mussulmani in pratica non hanno mai messo davvero piede. E’ semmai successo il contrario. Se come mi pare giusto si deve considerare la storia dei nostri rapporti fin dall’inizio, allora, mi chiedo, perché mia non dovremmo mettere in conto, ad esempio, la violenta cancellazione della civiltà cristiana africana e medio orientale iniziata nel VII secolo dopo Cristo ad opera degli invasori arabi – sì caro Franco: invasori. Chi l’ha detto che l’attuale Maghreb dovesse essere per forza una terra dell’Islam? Lo è stato in seguito a una dura conquista militare, alla forza delle armi; e così per la Spagna cristiana visigotica. E in che cosa ha mai differito dal colonialismo europeo l’occupazione secolare degli ottomani di grande parte della fino allora cristiana penisola balcanica? Era forse eticamente meno umiliante, meno oppressiva, meno carica di sfruttamento? Non credo proprio, relativamente alla diversità delle epoche. Il guaio è che di tutto questo il mondo islamico, per quel che posso dire, preferisce non sapere, non discutere, e naturalmente meno che mai pentirsi. O tu hai notizia che le cose non stiano così?
E per finire la “patria europea”. Davvero ho scritto tempo addietro che non mi sentivo appartenere a quella patria? Non lo ricordo proprio, caro Franco. In ogni caso se l’ho fatto, sono stato uno sciocco: probabilmente (cerco qualche attenuante) sotto l’impressione di una delle tante insopportabili corbellerie dette o fatte a Bruxelles. Comunque domani, giorno delle elezioni per il Parlamento dell’Unione, andrò alle urne per deporvi la scheda di chi ancora spera che l’Europa possa un giorno essere quella cosa che in tanti speriamo.
Con antica amicizia e affetto,
Ernesto
Grazie, Ernesto. No, che non ti sentivi di appartenere a una “patria europea” non lo hai mai scritto. Lo dico quasi con certezza perché leggo moltissimo delle tue cose anche se i bei tempi del caffè al mattino nel cortile di Palazzo Strozzi sono passati. Replicasti a una mia battuta forse un po’ romantica che l’espressione “patria europea” ti sembrava azzardata. A me sembra azzardata ancora oggi: ma grazie, grazie a te e a Massimo Cacciari per aver pronunziato quelle due parole. Se le diremo da ora in poi sempre più spesso, in un numero sempre maggiore, a voce sempre più alta, con sempre più profonda convinzione e con sempre più forte desiderio di comprendere a fondo che cosa può significare, forse qualcosa cambierà.
Quanto a Cacciari, ecco qua:
I NAZIONALISMI PRODUCONO VUOTE RETORICHE O RAZZISMI MISERABILI. ANDARE OLTRE I CONFINI, INCLUDERE, ACCOGLIERE: E’ IL SUO DESTINO STORICO.
PATRIA EUROPA
DI MASSIMO CACCIARI
IL VIAGGIO, LA SCOPERTA. LA CURIOSITA’ SPINTA FINO AL NAUFRAGIO. NON E’ DEFINITA DA RADICI E DIMORE, L’EUROPA E’ IN NAVIGAZIONE O NON E’
Un merito occorre riconoscerlo a populisti e sovranisti: avere imposto la questione “può essere Patria l’Europa?”. Poiché non basta spiegare razionalmente come la costruzione di un’autentica sovranità europea che comprenda in sé, in un assetto federalistico, quelle nazionali sia necessaria per la difesa dei nostri interessi economici, del nostro (sempre più relativo) benessere, per non ridursi a nani impotenti nei confronti dei grandi Imperi contemporanei. Piaccia o no, l’agire politico si è sempre mosso e sempre si muoverà anche su altre basi e per altri fini. La politica non si ridurrà mai a un’arte del “calcolemus”, fondata su una disincantata razionalità allo scopo. Grandi miti hanno sempre vissuto all’interno dei grandi disegni o progetti politici. Miti che stanno a fondamento di etiche nel senso più radicale del termine: non qualche massima morale, ma insieme di consuetudini, costumi, forme di vita, che sembrano quasi affondare in passati immemorabili, dentro i quali abitiamo. Certo, ormai secolari processi di secolarizzazione e le grandi tragedie del secolo scorso hanno portato a un profondo disincanto nei loro confronti. E tuttavia il loro valore, nel senso più reale, materiale del termine, è ancora ben riconoscibile, in America come in Russia, in Cina come in India. L’ethos di una Patria non viene sradicato dalle tempeste che la sconvolgono, ma sembra quasi, a volte, rigenerarsi attraverso di esse. Così valeva per Roma e così varrà sempre per ogni potenza imperiale.
Vi è un mito per la Patria Europa? Sappiamo narrare l’Europa? Lo spirito europeo si è certo narrato attraverso figure indimenticabili, che per stellari amicizie e, insieme, insanabili conflitti ne hanno segnato la storia. Gli europei si riconoscono in esse: dai viaggi di Ulisse a quelli di Enea, dal pellegrino Dante all’altro pellegrino don Chisciotte, dall’avventura di don Giovanni aquella del dottor Faust, dall’Amleto e Re Lear al Processo e al Castello di Kafka. E così l’Europa si narra nella metamorfosi inarrestabile della sua musica, della sua pittura. Un generarsi continuo di maschere e persone, che non forma alcun mito. Anzi, sono narrazioni che in modi diversi contestano ogni mitologia. Sono una critica del mito. Essi dicono l’insicurezza dell’Europa, la sua inquietudine. Non possono indicare alcuna radice.Nel loro insieme costituisconopiuttosto il paradossale mito della sradicatezza. Ma ethos significa essenzialmente radice. Forse la sola narrazione che davvero intendesse costruire un grande mito per l’Europa è quella dell’itinerario dantesco. Proprio questo carattere ne fa un unicum nelle nostre culture. Tuttavia, esso rimane troppo indistricabilmente connesso a una visione dell’Europa o Cristianità, all’istanza che tale visione possa assumere valore egemonico, per poter resistere all’“assalto” degli altri “miti”, amletici nella loro stessa essenza.
D’altra parte, le mitologie nazionalistiche non possono produrre, in Europa, che egoistiche chiusure identitarie, vuote retoriche, se non miserabili razzismi. Testimonianza di null’altro che dell’impotenza ad affrontare le trasformazioni del proprio ambiente. I miti europei sono soltanto quelli del viaggio, della scoperta, della curiosità per l’altro spinta magari fino al naufragio. Ma non sonomiti, ecco il punto. Sono grandi opere dello spirito, della critica, della ragione. Sono creazioni, artifici. Non definiscono né radici, né confini, né dimore dove poter essere “in pace”. La loro Europa è una Patria che fugge. Non si sa dove inizi, né dove finisca. È suo destino il farsi mondo. Come una strada che si compia propria nell’andare, nulla di predeterminato o precisamente predeterminabile. Pericle si rivolgeva ai suoi concittadini ateniesi incitandoli a ritenere Patria le loro navi. L’Europa è in navigazione o non è. Per dominare, certo, anche, violentemente anche – cosi è avvenuto nella sua storia–, ma altrettanto per conoscere, per scoprire, per assimilare e accogliere. Senza questa fede nella potenza assimilatrice delle proprie idee l’Europa diventa il passato del mondo contemporaneo, il suo “centro storico”.
E’ possibile ancora per l’Europa “narrarsi” in questa chiave? E’ possibile un simile “mito”, costruito attraverso l’interrogazione, il dubbio, la ricerca, e ormai, per necessità, alieno da ogni prepotenza economica, politica, militare? È possibile su di esso concepire una Patria europea? Una Patria che, come è bene ripetere, custodisca in sé le diverse nazioni e le loro lingue, altrettanto che la sovranità dei diversi stati. Davvero sembra un’opera impossibile, eppure necessaria, poiché altrimenti la nostalgia per arcaiche appartenenze, per consolidati pre-giudizi (quel senso comune nemico del buon senso di cui parlava Manzoni), per domestici rifugi–con tutto l’armamentario dei loro barbari miti –, potrebbe rafforzare bandiere e tristi passioni di populismi e sovranismi, esattamente come, su un piano più direttamente politico, il fallimento nella costruzione di una sovranità europea.
Si può vincere una elezione grazie a propaganda, meglio se grazie a qualche programma ragionevole. Ma non si vince unagrande battaglia politica e ideale come l’Unione federale dell’Europa senza un’idea intorno ai suoi fini, e cioè al cammino che ha di fronte, ovvero alla sua missione o destinazione. Possiamo narrare tutto ciò non mito,logicamente? Possiamo rappresentarlo come un ethos senza radici? Errante radice, intitolai un mio saggio trent’anni fa…Ebbene, penso di si. L’Europa è filosofia o scienza, non c’è dubbio. Ma guaialla scienza che mitologizza séstessa, la propria potenza, che non si interroga continuamente sui propri limiti, magari proprio riflettendosi sullo specchio degli Amleto e dei Faust. ll grande fine dello spirito europeo non è lo sviluppo di scienza, tecnica, economia in séstesse, il mero incrementum scientiarum, bensì la connessione con il sistema della libertà. Sappiamo bene oggi che quell’incrementum può realizzarsi anche nell’assenza di libertà. La fede nella loro prestabilita armonia è finita per sempre. Era un mito. Abbiamo bisogno di un ethos che gli si contrapponga, un ethos che può esprimersi soltanto nella forma del dovere, della responsabilità: misurare giudicare ogni potenza economica,scientifica,tecnica in base alla coscienza che dimostra nel voler liberare. La libertà che la ricerca per sé invoca vale solo se libera: nessuno può dirsi libero se la sua prassi non è liberante. E’ una potente idea che percorre lo spirito d Europa, non un’invenzione né un’astratta utopia. Forse un valido “mito” per la sua rifondazione.
Parole severe, chiare, intense; anche risentite, com’è spesso risentito lui. Parole che dovranno provocare molte repliche e di molti tipi. Ecco subito una voce, quella di un altro vecchio europeista come Riccardo Lala, un amico dell’indimenticabile Costanzo Preve:
LETTERA APERTA A MASSIMO CACCIARI: NARRARE L’EUROPA; AMARE L’EUROPA
Caro Professore,
Appena terminato un Salone del Libro in cui la mia casa editrice si è prodigata in modo speciale per fare avanzare il dibattito sull’Europa, la lettura del Suo articolo su “L’Espresso” del 19 u.s., “Patria Europa”, così vicino alle nostre preoccupazioni, mi ha stimolato a prendere posizione come segue sul tema della comunicazione dell’Europa, nella speranza di contribuire così a un dibattito autentico nella cultura “alta” anche su questo, centrale, tema.
Intanto, a me sembra che ciò che Lei ha scritto molto bene in quell’articolo, cioè che “..non si vince una grande battaglia politica e ideale come l’unione federale dell’Europa senza un’idea intorno ai suoi fini, e cioè al cammino che ha di fronte, ovvero alla sua missione o destinazione”,chi non fosse obnubilato da pregiudizi ideologici o da interessi particolari, lo avrebbe potuto comprendere già perfino a partire dal 1957, data di firma dei Trattati di Roma. Invece, proprio nella “Dichiarazione Schuman” si parlava di “realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”, un cammino fatto di “piccoli passi”senza una precisa meta finale (il “funzionalismo” deprecato, tra gli altri, da Spinelli e da Przywara). La cultura europea sta forse cominciando a comprendere il vicolo cieco in cui si è messa in quel modo la politica, anche se, purtroppo, l’incertezza circa l’obiettivo finale, anziché svanire, sembra oggi addirittura infittirsi. Eppure, quelli erano gli anni in cui in America si tenevano le cosiddette “Conferenze Macy” sul futuro dell’elettronica, nell’URSS venivano lanciati nello spazio gli Sputnik e Gagarin, e Asimov e Lem scrivevano i loro insuperabili romanzi distopici. Certo, lo stato di obiettiva depressione della politica europea in seguito alla 2° Guerra Mondiale e alla divisione di Yalta giustificavano il tono minimalistico dei discorsi europei, ma una cultura che annoverava personaggi come Heidegger e Russell, Croce e Sartre, Schmitt e Anders, avrebbe dovuto prevedere quali sarebbero stati i veri temi con cui i vertici dell’Europa si sarebbero dovuti prima o poi a scontrare. E invece, ancor oggi, il “rischio esistenziale” non è ancora entrato nel cuore dell’ attività politica.
Nonostante quella scelta funzionalistica (e, quindi, implicitamente materialistica e minimalistica) dei Padri fondatori, le idee idonee a “narrare la Patria europea” esistevano già da tempo, seppur solo “in nuce”, disperse attraverso la cultura alta, e si sarebbero potute ricostruire, nelle loro grandi linee, semplicemente “collegando i puntini” contenuti, come in un grande rebus, nelle opere dei grandi autori che citerò qui di seguito.
Intanto, già all’ epoca dei Trattati, alcuni, come Simone Weil, Husserl, Jaspers, Heidegger, Anders, Guardini e Przywara, ci avevano avvertiti che, come Lei ha scritto in modo pregnante, “fine dello spirito europeo non è lo sviluppo di scienza, tecnica, economia in se stesse, il mero incrementum scientiarum, bensì la sua connessione con il sistema delle libertà”. E infatti, fin dai primordi della cultura europea, come per esempio nelle opere di Ippocrate e di Erodoto, era stato considerato come insito nell’identità europea (la “physis ton Europaion”) il fatto d’ identificarsi con la libertà un po’ selvaggia di Leonida, contro il progetto di conquista dell’Europa e di stabilizzazione universale incarnato dalla Persia di Serse (vedi il discorso di quest’ultimo riportato nelle Storie e le iscrizioni funerarie di Behistun e Naqsh-e-Rustam, che anticipano i programmi di tanti imperi successivi, da quello romano, a quello sovietico, a quello americano).
Nello stesso modo, era stato chiarito proprio allora (per esempio nell’opera di Federico Chabod) che, all’amore per la libertà politica, si collega, nell’ identità europea, la ricerca della verità, da ritrovarsi innanzitutto nell’autenticità con sé stessi. Insomma, il motto dell’oracolo di Delfi: “Conosci te stesso”. Non per nulla, è l’oracolo stesso a profetizzare che “la grande rocca gloriosa verrà devastata dai discendenti di
Perseo, oppure questo non avverrà, ma la terra dei Lacedemoni piangerà la
morte di un re della stirpe di Eracle.” La morte per la libertà della patria quale esempio estremo di coerenza con se stessi e di dedizione alla libertà. Quello che tanto viene esaltato nel mito della Resistenza, ma che oggi nessuno sarebbe propenso a imitare.
1.Un sistema informatico mondiale: il vero nemico della libertà
Innanzitutto , oggi il “mondo della libertà” è messo in pericolo quanto mai prima nella storia, non solo in Europa, ma nel mondo intero, non già dai diversi sistemi politici e sociali (i quali sono tutti ancora fondamentalmente “umanistici” e/o “culturali”: vedi Lévy Strauss e Luc Ferry), bensì proprio dalla “gabbia d’acciaio”, prima teologica, poi giuridica, poi ideologica, e, infine, tecnologica, che ci si siamo costruiti addosso con l’economia, l’industria e la tecnocrazia, che costituisce lo sbocco ultimo da sempre implicito in qualsivoglia progetto di “Fine della Storia”. Non vi è quindi alcuna contraddizione fra la tesi (oramai divenuta luogo comune) dell’egemonia della finanza internazionale e quella, da me qui ripresa, dell’egemonia della tecnica, l’una essendo la continuazione naturale dell’altra. La postulata condizione finale di assenza di conflitto (la “Pace Perpetua”) non può infatti essere raggiunta semplicemente con una qualche forma di eterodirezione “soft” della società da parte dei “poteri forti”, bensì solo eliminando la fonte prima dei conflitti, vale a dire l’Uomo. L’orrore per il “Diverso” è solo il primo passo verso la negazione della pluralità delle Persone, a favore del carattere seriale dei cyborg e degli androidi (la “vergogna prometeica”). Come avevano previsto Max Weber, Horkheimer e Adorno e Arnold Gehlen, l’apparato tecnico e amministrativo non è dunque uno strumento di libertà, bensì, vincolando l’uomo a prassi e a meccanismi consolidati, costituisce una fonte di omologazione e di entropia, che distrugge la libera creatività, e lo stesso slancio vitale,portando all’ eterna ripetizione di standard già dati (i pretesi “principi etici di progettazione” delle macchine intelligenti). C’è di più: con la “trasfusione senza spargimento di sangue” dei profili umani nell’Intelligenza Artificiale (De Landa) si finisce per congelare, e quindi per eternare, i pregiudizi del XXI secolo, così come il sistema “OKO”, fortunatamente bloccato una notte dell’’83 dal maggiore Petrov, pretendeva di incarnare senza sbavature la dottrina nucleare del PCUS. La più importante di tutte le decisioni della storia dell’umanità, quella circa lo scatenamento della guerra totale, è stata così delegata da gran tempo a sistemi elettronici automatizzati, lo “Hair trigger alert”,al quale è stata affidata, da tutte le grandi potenze (quindi, sempre al di fuori dell’Europa), la reazione al primo attacco nucleare dell’avversario. In una simile situazione, a meno che non intervengano nuovi, stringenti, accordi internazionali (di cui solo l’Europa può farsi propugnatrice),la distruzione reciproca mondiale per effetto di una “Cernobyl militare” è praticamente assicurata. La controprova del carattere centrale della militarizzazione della società e della sua cura per la segretezza e la manipolazione delle informazioni è costituita dall’accanimento con cui si sta perseguitando Julian Assange, reo di avere reso palese il carattere onnipervasivo del sistema di controllo del complesso informatico-militare.L’indifferenza dell’Europa (sempre così attenta ai diritti umani là dove essa non può farci nulla) verso la persecuzione di Assange che ha luogo nell’ Inghilterra della Brexit, che sta ancora eleggendo i suoi Europarlamentari, fa perdere di credibilità al richiamo all’amore per la libertà che si leva dall’establishment politico e culturale, nonché all’esaltazione acritica della tradizione costituzionalistica inglese. All’accordo “Five Eyes” spetta dunque una superiorità costituzionale rispetto all’Habeas Corpus?
Una volta che decisioni come quelle militari siano state delegate alle macchine, tutto l’insieme dei comportamenti umani tenderà sempre più ad essere subordinato al fine di agevolare il “proprio” sistema di Hair trigger alert, per farlo prevalere sul sistema nemico: dal controllo di massa del comportamento della popolazione, all’infiltrazione delle reti di comunicazione amiche e nemiche, alla disinformazione delle opinioni pubbliche…Che altro si intende quando si afferma che ovviamente ogni decisione in vari campi dev’essere subordinata alle esigenze della “sicurezza”? Occorre innanzitutto evitare che possano nascere dei protagonisti autonomi, che esercitino in modo obiettivo, e perfino eroico come il maggiore Petrov, quel ruolo di critica del sistema che perfino l’Armata Rossa aveva affidato ad “analisti militari” indipendenti come quest’ultimo.
Come facciamo dunque a sentirci liberi se tutto il flusso delle opinioni pubbliche è condizionato a tavolino dai big data e dagli spin doctors dei sistemi informativi delle grandi potenze, se ciascuno di noi è monitorato giorno e notte dal sistema (attraverso i cellulari, i personal, i social…) per spiarne le più recondite movenze e per condizionarlo di conseguenza? In queste condizioni, perdono di senso i tradizionali strumenti della libertà di stampa, di parola, le stesse elezioni. Non per nulla, è il carattere stesso dei cittadini che è alla fine pervertito dal minimalismo, dal conformismo e dall’ autocensura, portando all’ inconcludenza di ogni discorso e alla supina accettazione del “destino della tecnica” e delle cosiddette “lezioni della Storia”.
La “perdita di democrazia”, di cui taluni incolpano il populismo, altri l’Unione Europea, altri ancora l’egemonia culturale della sinistra, trae in realtà ovunque la propria origine prima proprio dall’ inevitabile centralizzazione delle decisioni richiesta dalla delega al sistema informatico-militare della gestione dell’intera “guerra senza limiti”in corso fra i grandi blocchi continentali, che non lascia spazio, né a un reale pluralismo, né a un aperto dibattito.
Se anche la UE ha la tendenza a centralizzare progressivamente le decisioni più importanti come le politiche della ricerca, dell’informazione, finanziaria, estera e di difesa, è perché essa deve confrontarsi quotidianamente con USA, Cina e Russia; in queste ultime, il potere “politico” si centralizza e si personalizza a sua volta per contrastare, chi il deep State, chi gli oligarchi, chi la burocrazia…Quando Federica Mogherini deve rispondere alle missive minatorie delle sottosegretarie americane alla Difesa, è sola; non può convocare il Parlamento Europeo (ormai a fine mandato) o i Parlamenti nazionali, come pretenderebbero i politici di tutti gli orientamenti. Si potrà porre freno a queste tendenze solo con la ricostituzione di una classe dirigente dotata di “virtus”, come quelle del mondo classico, indispensabile da sempre per una gestione collegiale della Res Publica, ispirata da un ethos e non da incentivi materiali, capace di superare indenni anche i periodi dello “stato d’eccezione” come questo delle Macchine Intelligenti.
Per questo la polemica contro la pretesa “dittatura di Bruxelles” è fuori luogo: se riferita a oggi, quando la UE, con meno dipendenti del Comune di Torino e con risorse inferiori all’ 1% del PIL europeo, non può fare praticamente nulla, ma anche se riferita a un futuro in cui un’eventuale federazione europea, diretta da una nuova classe dirigente, per fare “più Europa”, dovrebbe, non già sovrapporsi agli Stati membri, bensì occuparsi di ciò che gli Stati membri non hanno mai fatto: una politica culturale; una difesa tecnologica; una programmazione operativa; la creazione di “campioni nazionali”; una politica monetaria proattiva.
2. La missione dell’Europa
All’Europa spetterebbe dunque, all’ interno di questa sfida mondiale, grazie al suo tradizionale attaccamento alla libertà, una specifica “missione” prioritaria: quella d’ inventare (o reinventare) una cultura capace di tenere a freno le pretese totalitarie del sistema macchinico, opponendo ad esse la “prassi liberante” propria dell’Umano (Burgess, Kubrick, Barcellona). Tuttavia, l’attuale cultura occidentale, imperniata sul sansimonismo, sull’etica puritana, sui miti deterministici dell’”intelligenza collettiva” e del “lavoratore”, non è la più adatta a generare questo nuovo tipo di uomo, signore e padrone del mondo macchinico. L’Europa si trova perciò oggi in un vicolo cieco.
L’attuale debolezza politica, culturale e militare del Continente non può costituire una scusa, ma, anzi, deve costituire uno stimolo per l’impresa memorabile di “rovesciare il tavolo”. Per essere all’altezza della situazione, la cultura deve ritornare ai valori “assiali” della saggezza, della filosofia, dell’“humanitas”, che l’accomunano alle altre antiche civiltà, contrapposti al “banauson ergon” (quel “lavoro bruto” che oggi si identifica con le macchine intelligenti, mentre il lavoratore-macchina sta finalmente sparendo dall’ orizzonte). Un compito ciclopico che, anche in questo caso, è destinato a travolgere tutte le prospettive di corto respiro che si fronteggiano nei dibattiti politici sul futuro della società europea. Nel fare ciò, la cultura europea, oltre a rileggere in una luce nuova le idee classiche di “eu zen” e di “kalokagathia” e quella cristiana di “askesis”, dovrebbe aprirsi a quelle confuciane, di “junzi” e di “ren”:come Lei scrive, ”etichenel senso più profondo e radicale del termine: non qualche massima morale, ma insieme di consuetudini, costumi, forme di vita, che sembrano quasi affondare in passati immemorabili, dentro ai quali abitiamo.”.
Solo educando il carattere umano come si faceva in Grecia, a Roma o nei monasteri asiatici e cristiani, non già tentando, come si sta facendo oggi, di trasferire nelle macchine principi astratti (come i codici etici) che neppure noi umani riusciamo ad applicare, si potrà evitare la presa del controllo delle macchine sugli uomini e l’estinzione dell’Umano. L’Unione Europea è già oggi, certamente, un elemento di resistenza contro questo progetto totalitario, e lo sta dimostrando con la legislazione sulla privacy, con le multe ai grandi operatori, con la lotta all’ erosione fiscale. Tuttavia, l’energia impiegata in questa lotta prometeica è troppo modesta rispetto all’unicità del compito, e, soprattutto, manca a monte un modello culturale forte che supporti l’intera azione dell’Unione: il “mito della Patria Europa”,di cui parla il Suo articolo. L’azione europea su questo tema appare episodica, marginale e decontestualizzata rispetto a tanti altri temi, certamente meno urgenti che non il “Rischio Esistenziale” (Hawking, Martin Rees).
Ma, soprattutto, l’Europa di oggi è talmente arretrata, rispetto a USA, Cina, Russia, India, Israele e Giappone, per ciò che concerne la cultura e la tecnologia informatica (intelligenza artificiale, cyberguerra, internet, intelligence, ingegneria genetica….), da non disporre neppure dei necessari strumenti di sperimentazione (come per esempio i Big Data); figuriamoci se essa è in grado di costruire un’alternativa agli attuali approcci verso l’informatica, o addirittura di imporli agli altri. Lo sforzo che l’Europa deve compiere in questo campo nei prossimi pochissimi anni è prometeico, e richiederebbe un suo specifico “mythomoteur”. Ecco quello che, a mio avviso, costituisce, come Lei scrive, “forse un valido mito per la sua rifondazione”. Del resto, i miti sono inevitabilmente congiunti a un’etica eroica, indispensabile per questo sforzo disperato (Foscolo, Carlyle).
Questa sarebbe l’unica interpretazione concreta di quell’impegno totale per la formazione permanente alla rivoluzione digitale che tutti invocano, ma nessuno attua, non avendone compreso, né la vera posta, né i necessari contenuti e sacrifici. Non è infatti l’integrazione europea a mancare di fascino, bensì la classe dirigente in essa coinvolta. Se essa prendesse a cuore con un’etica eroica la rivoluzione digitale e quanto la circonda, si conquisterebbe quell’aurache aveva circondato, nella vita come nella fiction, i protagonisti delle prime imprese spaziali.
3. Il posto dell’Europa fra i grandi Subcontinenti
Intanto, è ben vero che i valori dell’Epoca Assiale (Jaspers) sono comuni a tutte le grandi civiltà del mondo, e questo è il significato vero da dare al concetto di “universalità” e di “diritti umani”. Come Lei scrive, “…il loro valore, nel senso più reale, materiale del termine, è ancora ben riconoscibile, in America come in Russia, in Cina come in India.” Tuttavia,la specificità dell’Europaè quella di rivendicare, all’interno della comune lotta contro il totalitarismo delle macchine intelligenti, una particolare attenzione per la tutela della libertà personale e comunitaria. Purtroppo, in un mondo in cui, tanto la cultura tecnologica, quanto il controllo del web, sono in mano alle Big Five dell’informatica, al di fuori dello spazio di controllo europeo, non bastano, né sterili invocazioni di sacri principi, né una sofisticatissima rete di norme UE. Solo se gli Europei si battessero con spirito prometeico per contestare quel controllo, quell’auspicabile “curvatura europea” dei valori universali uscirebbe finalmente dal mondo delle sterili declamazioni. Infatti, il Caso Schremsha messo in evidenza che anche i migliori principi del diritto europeo restano lettera morta se i nostri dati sono immagazzinati fuori dell’Europa.
Se esistono, infatti, anche fuori dell’Europa- per esempio in America e in Cina- forze che si muovono di fatto a favore della tutela dell’Umano contro l’onnipotenza delle macchine, tuttavia solo l’Europa ha posto e pone ancor oggi la libertà al centro delle questioni sociali dell’informatica. In America, dove pure è nato il movimento dei “whistleblowers”, lo spirito di libertà è soffocato dall’etica puritana, dal “politicamente corretto” e dal senso ossessivo della missione dell’esportazione della democrazia. La Cina, come tutti i Paesi socialisti, manifesta in modo paradossale e parossistico (per esempio attraverso il sistema del “credito sociale”) proprio quelle tendenze liberticide che in America sono occultate sotto lo smalto del mercato e della “rule of law” (il “totalitarismo invertito”), tendenze ch’ essa ha clonato e clona sempre più nel suo sforzo ciclopico di superare l’Occidente per recuperare la propria autonomia anche spirituale (Zhongxue wei ti, xixue wei yong 中学为体,西学为用; come direbbe René Girard: “rivalità mimetica”).La libertà è stata tradizionalmente concepita in Cina come una liberazione collettiva con un moto atemporale verso il Datong, la Grande Armonia, ma, per raggiungere quest’ultima, s’impongono nel frattempo le dure leggi dei Legisti. Certo, la Cina costituisce anche, oggi, in pratica, con il suo formidabile sistema informatico, il principale baluardo oggettivo contro l’imposizione in tempi brevi della Singularity (unione di umano e macchinico) da parte delle Big Five (Baidu contro Google, Alibaba contro Amazon, Hwawei contro tutti). Infatti, se la Singularity non riesce ad essere unica, non è tale: non realizza, cioè, la fusione in un’unica entità dell’intero sistema pensante mondiale; quindi, non può sopprimere totalmente l’Umano. La presenza della Cina sta dunque dando a tutto il mondo il tempo di riorganizzarsi contro la dittatura delle Big Five.
Tuttavia, solo un’Europa molto più forte sui piani politico, militare e tecnologico, ma soprattutto culturale, potrebbe interloquire autorevolmente con le Grandi Potenze anche e soprattutto su questi delicatissimi aspetti. Se e nella misura in cui riuscirà a imporre un dialogo e un accordo internazionale su questi temi, essa avrà realizzato la sola forma possibile e necessaria oggi (e filosoficamente difendibile) della “potenza assimilatrice delle proprie idee”, da Lei auspicata.
E certamente solo un’Europa vittoriosa sul fronte dell’interfaccia uomo-macchina potrebbe prendersi serenamente cura della propria identità – e, innanzitutto, della propria poliedricità-, che va ben al di là delle “diverse nazioni e le loro lingue”, bensì comprende anche il pluralismo delle religioni, culture, ideologie, ceti sociali, regioni, città. Gli Europaioi di Ippocrate e di Erodoto sono, infatti, oltre che gli amanti della libertà, anche il popolo federale per eccellenza. La Grecia ne è il modello (con i suoi dialetti omerico, esiodeo, arcado-cipriota, ionico, attico, dorico, eolico); con le sue leghe (peloponnesiaca, delio-attica, ionica, tebana, cretese, etolica…);con le sue poleis e i suoi koinà. Ma gli autori classici esaltavano anche i popoli vicini, in particolare gli “Sciti” e i “Sarmati”, in quanto animati dallo stesso amore per la libertà.
4. Come narrare la Patria Europea
Per narrare, come Lei propone, la Patria Europea, s’impone, come pensava già Freud, la liberazione, dalle retoriche dell’idea di Europa, dell’autentica identità europea. Identità che, come Lei scrive, non definisce “né radici, né confini, né dimore dove poter essere ‘in pace.” Quindi, l’esatto contrario della retorica dell’Europa come Fine della Storia e come strumento di “stabilizzazione”. Grazie all’ Europa, la Storia deve poter continuare, anche se alcune sue tendenze avrebbero voluto farla finire. Questo indispensabile mito dell’Europa baluardo della diversità, e quindi del conflitto, “costruito sull’ interrogazione, il dubbio, la ricerca” ci impone di liberare da censure e tabù vaste aree della nostra cultura. A mio avviso, occorre innanzitutto non vergognarci della cultura europea quale essa è, buona o cattiva ch’essa sia; non volerla addomesticare e censurare per renderla accettabile ai poteri del momento, ai gusti dell’elettorato oppure, ancor peggio, a una lobby che pretenderebbe che il “mito della Patria Europea” sia identico a quello dell’America.
Nello stesso modo, proprio perché l’Europa è una Patria, non già una setta,essa non è di nessuno Stato in particolare (per esempio, non del duo franco-tedesco), non di una Chiesa (per esempio, quella cattolica), non di un’ideologia (per esempio, quella progressista), non di un partito (per esempio, il centro-sinistra). Essa è di tutti coloro che vi aderiscono: del mondo atlantico come di quello eurasiatico; della Mitteleuropa come dei Balcani, dei cristiani come degli ebrei e dei mussulmani; dei riformisti come dei conservatori, dei rivoluzionari come dei reazionari. Non possiamo dire a nessuno, che viva fra di noi: tu non sei Europeo. E, di converso, tutti gli Europei hanno il diritto di formulare un “loro” progetto di Europa, che esprima la loro particolare visione.
5. I ”Cantieri d’ Europa” continuano
Con l’iniziativa “Cantieri d’Europa”, la nostra piccola casa editrice, Alpina, ha incominciato a fare ciò per cui essa era stata fondata fin dal 2005: riunire in un solo luogo ideale, attraverso i propri libri e le proprie manifestazioni, le voci di tutti coloro che abbiano dei contributi concreti da dare alla costruzione dell’Europa, nei vari campi dello scibile (linguistica, filosofia, storia, dottrine politiche, economia, diritto, diplomazia, tecnologia…), ma vengano marginalizzati da una cultura “mainstream” che tollera solo la superficialità e la ripetizione inconcludente di luoghi comuni. Nello stesso tempo, con il nostro stand e con le nostre 8 manifestazioni, per metà al Lingotto, e per metà fuori (il “Salone Off”), abbiamo dimostrato che l’Europa si può e si deve narrare, attraverso le cose concrete, proprio oggi, quando la maggioranza ritiene che ciò sia diventato impossibile.
In particolare, i “Cantieri”, con i libri, nostri e altrui, ivi presentati, sono riusciti a realizzare nel Salone quel compito di sintesi che originariamente avrebbe dovuto essere assunto dalla grande editoria. Nell’ assenza d’iniziative maggiori, il nostro stand ha costituito il punto d’incontro dove sono confluiti il Movimento Europeo, le Istituzioni e tanti editori, italiani e stranieri, che hanno pubblicato libri sull’ Europa: Ullstein, ADD, il Mulino, Icaria Editorial, Rubbettino, Aracne, EGEA…
Dopo le elezioni europee, si apre, per la prossima legislatura, un compito appassionante: quello di recuperare l’Europa alla battaglia per la libertà,portandola finalmente sull’unico piano veramente attuale: quello della sovranità digitale.
Last but not least: per riuscire a narrare l’Europa, bisogna amarla,per come essa è, anche con i suoi peccati, la sua decadenza e la sua vecchiaia. Se questo necessario presupposto sussiste, allora si può discutere su come procedere. Esistiamo proprio per questo, e saremmo lieti di averLa con noi.
Per Alpina Srl,
Riccardo Lala
E’ notte fonda, forse le elezioni sono andate male, forse sarebbero andate male in ogni caso perché oggi quel che riguarda l’Europa non può andar comunque bene. Ma qualcosa cominciamo a fare, qualcosa cominciamo ad aver fatto.
Ça n’était qu’un début: continuons le combat.