Fonte: sinistrainrete.info
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di Salvatore Biasco 9 maggio 2015
Euro: pensare di tornare indietro fa perdere tempo alla sinistra
Nessuna delle misure di economia di guerra ci salverebbe da un disastro. I difetti analitici di chi pensa sia opportuno autoinfliggercelo. Rimanere “dentro” è l’unica opzione possibile, anche se per nulla tranquillizzante. Il modo con cui uscire dalla crisi da sinistra è ciò su cui dovrebbe impegnarsi la sinistra politica
Per prima cosa si rendono necessari alcuni puntini sugli i. Smettiamola di dividere il mondo tra coloro che sono coscienti dei disastri che ha comportato l’euro per l’economia italiana e propongono un rimedio a portata di mano (la riappropriazione del cambio) e coloro che non vedono quei disastri, sono indifferenti allo sconquasso sociale, non se ne preoccupano o sono resi ciechi dalla scelta di campo, rifiutando di prendere in considerazione una leva così ovvia e a immediata disposizione.
Chi vive in modo più angoscioso la china dell’economia italiana è proprio chi pensa che un rimedio semplice non vi sia (e che quello proposto sia di gran lunga peggiore del male). Ma non vi è alcun dubbio che l’Italia non ha retto alla crisi mondiale del 2007 nell’ambito delle regole e dei vincoli dell’euro, finendo in un vicolo cieco, dal quale sarà difficile districarsi. Personalmente rinvio alla straordinaria tavola rotonda che, all’apparire del progetto di moneta unica (siamo nel 1989!), mostra che vi era una profonda consapevolezza di ciò che sarebbe successo1 . Successivamente – all’epoca in cui l’ingresso fu deciso (nella prima metà degli anni Novanta) – sarebbe stato difficile per un Paese che nel 1992 aveva rischiato il default non prendere l’opportunità per porre fine alle varie spirali che in modo perverso percorrevano l’economia italiana (interressi-debito pubblico; prezzi-salari-cambio, ecc.).
Non si poteva immaginare allora (anche se personalmente ho sempre ritenuto che il centro della questione e il principale criterio di giudizio fosse il governo della domanda2 ) che l’Unione sarebbe stata governata in modo così incredibilmente asfittico, privo di visione, ideologicamente e unilateralmente ispirata ad una concezione fallimentare di economia dell’offerta, che negava alla radice i problemi delle fonti della domanda. E, forse, si accreditava il capitalismo italiano di una migliore capacità di reazione. O, anche, si pensava che l’unione monetaria sarebbe stata il primo passo per affrontare progressivamente gli aggiustamenti necessari e avviare quell’Europa del lavoro, dello sviluppo e del welfare, che non è mai seguita.
La rievocazione di ciò che è avvenuto nel passato più lontano e più vicino serve tuttavia a poco per dirimere la questione dell’appartenenza alla moneta comune oggi; inutile iniziare gli articoli percorrendo la china dell’economia italiana, perché questo non dimostra niente circa la direzione da prendere nella politica economica. Occorre partire dall’oggi, in cui l’euro c’è, ben radicato nell’economia profonda di paesi interconnessi e aperti, e seguire la sequenza che comporterebbe un’uscita dall’unione monetaria nelle condizioni date. È l’unico modo serio di impostare il problema. Il ragionamento che peggio di così non potrà comunque andare mi porta a quello di coloro che quando l’azione del Monte dei Paschi di Siena è passata da 5,5 euro a 2,5 euro hanno ritenuto – appunto – che più di tanto non potesse scendere; o di chi lo ha ritenuto ancora quando è scesa di un’altra metà a 1,25 euro. Oggi si trova a 0,6 euro. Peggio di così può andare.
Qui parliamo di scelte discrezionali. Non escludo ovviamente che una deflagrazione dell’euro possa avvenire comunque, indipendentemente dalla volontà italiana o di altri paesi, sotto la spinta di eventi economici o politici, ma questo attiene a un altro ordine di problemi, di scelte non controllate, da cui scaturirebbe un’anarchia mondiale di natura epocale, da cui l’Italia (a dir poco) non uscirebbe certo tra i paesi vincitori. In un caso del genere, occorrerà senza dubbio prendere tutti gli accorgimenti amministrativi e di controllo (che discuterò più avanti in altro contesto) necessari a fronteggiare la situazione – almeno nel breve periodo –, idonei alle condizioni eccezionali e a non esserne travolti immediatamente. Certo, non sarà il giorno della liberazione, ma di una austerità moltiplicata. Ma non voglio parlare di questo. Forse gioca per non farlo l’inconscio personale di chi si sente autorizzato quel giorno a temere per la stessa possibilità di riscuotere la pensione futura promessa e per il mantenimento di quel poco che ha accumulato nel tempo, a meno che non sia stato posto in salvo non so dove. Sarò in compagnia di altri italiani; non certo dei più abbienti, che non avranno problemi a salvarsi.
Prendere la deflagrazione come inevitabile è un azzardo analitico. Qualcuno può pensare che tanto vale anticiparla con l’uscita dall’euro, non importa se benefica o malefica. Qualcun altro pensa che la deflagrazione possa essere organizzata e consensuale non so con quale grado di realismo, per giunta nell’ipotesi che ciò lasci tutto o quasi sotto controllo e che siamo un’economia in salute competitiva. Ritengo piuttosto che la deflagrazione verrà impedita whatever it takes (dalla Merkel e dai governanti europei in questo caso, non solo da Draghi) tutti ben consci del disastro che coinvolgerebbe anche le economie forti, e delle chine probabili del futuro quadro geopolitico, da cui anche quelle economie uscirebbero indebolite e l’Europa scomparsa come entità di rilievo nel mondo3 . Forse una seria crisi, che si spingesse al ciglio del baratro, potrebbe paradossalmente rivelarsi l’occasione di un cambiamento delle regole scriteriate sotto le quali siamo stati governati.
Sarebbe impossibile calmierare i tassi
Torniamo al punto. Alla scelta discrezionale, cioè all’indicazione autonoma di politica economica.
Affermavo che il cuore della questione è ciò che succede in concomitanza all’uscita dall’euro. Poiché chi la sostiene non spiega le sequenze che ne derivano, provo a immaginare il ragionamento che vi è dietro: si riacquista la disponibilità del cambio (la lira) e questo porterà a una svalutazione che riattiverà l’economia tramite le esportazioni. Ma l’economia si riattiverà anche perché lo Stato è ora libero dalle regole europee e potrà esercitare una funzione propulsiva di spinta della domanda attraverso la spesa pubblica. I salari reali vi contribuiranno potendo riacquistare slancio senza intaccare la competitività. Il resto sono questioni collaterali di riuscita dell’operazione, in primis il controllo dei capitali.
Trovo in questi ragionamenti la maledizione dell’impianto di statica comparata su cui sono formati gli economisti, dopo tanti anni di insegnamento e apprendimento nell’alveo della ISLM (per intenderci, dell’equilibrio generale dell’economia, atemporale) e del meccanicismo deterministico econometrico4 . Nella statica comparata, il mutamento di una variabile esogena (ad esempio il tasso di cambio) consente di confrontare cosa c’è di diverso tra un equilibrio antecedente e uno successivo a quel nuovo valore. Si scomoda il concetto di causalità, ma in realtà lo schema è privo del tempo, è parametrico, e tiene fermi “gli stati del mondo” (siano essi aspettative, contesti sociali, tutte le altre esogene, i comportamenti, ecc.). Nessuna attenzione a come si dovrebbe arrivare da un equilibrio all’altro. Gli economisti non sono più abituati a ragionare in termini dinamici (usando un tempo reale e non meccanico) e dentro un quadro consapevole che dal movimento conseguono ulteriori ragioni di movimento, che cambiano aspettative e comportamenti e creano sentieri irreversibili (path dependent, in termini tecnici) per cui le traiettorie procedono spesso a spirale e le nuove posizioni statiche e virtuali di equilibrio potrebbero non significare nulla, né essere un attrattore tendenziale.
Indipendentemente da questa questione, che riuscirà utile poi, c’è un punto preliminare da chiarire. L’uscita dall’euro avviene con o senza ristrutturazione del debito? Logica vuole che, fatto il passo del ritorno alla lira, non ci si porti appresso tutto il debito. Va almeno conquistato un periodo di respiro, allungando le scadenze a parità di interessi e prevedendo un periodo di grazia di due-tre anni. Questa è una sorta di haircut (il più blando immaginabile) che può valere una caduta del corso dei titoli di Stato dal 15 al 20% (sempre che il mercato creda che con questa ristrutturazione l’Italia possa farcela e non ritenga, invece che questo non sia affatto garanzia di nuove decurtazioni in futuro e lo sconti ulteriormente sul prezzo dei titoli). Quelli offerti per il rinnovo del debito in scadenza dovrebbero (dopo il periodo di grazia) incorporare tassi di interessi notevolmente elevati, che tengano conto anche, oltre che del default possibile, dell’inflazione corrente e attesa che segue la svalutazione.
Potrebbe non esserci questa ristrutturazione e l’uscita dall’euro avvenire con solenne dichiarazione che tutto il nostro debito sarà onorato. Ma chi ci crederebbe? Chi non si tutelerebbe contro il doppio evento (inflazione e possibile haircut) chiedendo tassi di interesse elevati? L’Italia dovrebbe dimostrare di poter crescere nelle nuove condizioni almeno il 3%-4% l’anno. A parte che questo si decide ex post, vedremo poi quanto sia irrealistico.
Oppure si crede che chiudendo il mercato dei cambi e proibendo rigorosamente i movimenti di capitale sia assicurata quella “a parità di condizioni” (tanto cara alla statica comparata), tale che ogni variabile possa fare il lavoro che è a essa attribuito dai libri di testo? I fautori dell’uscita dall’euro comprerebbero dopo l’evento un titolo di Stato decennale (o societario) con un rendimento lordo implicito inferiore al 2%? Non credo proprio, né loro, né alcun altro. Semmai lo venderebbero, se lo avessero.
Con frontiere chiuse o aperte che siano, se la banca centrale provasse a sostenere i corsi sul mercato secondario, in una sorta di quantitative easing nostrano, e offrisse tassi irrealistici, si troverebbe invasa da titoli del debito pubblico, di cui rapidamente si sbarazzerebbero i privati che li detengono a cui viene offerta l’occasione di uscire al valore nominale (o quasi). La banca centrale nazionale si troverebbe costretta a tornare rapidamente indietro o per lo meno adeguare i tassi a ciò che è gestibile, a meno che non sia disposta ad assorbire un ammontare di titoli di molto superiore a quanto Draghi programma per tutta l’area dei 19 paesi dell’euro con tempistica di un anno e mezzo. Chiunque volesse portare a paragone il quantitative easing giapponese, inglese o statunitense, dimostrerebbe di non capire che: a) la dimensione dell’intervento per tenere i tassi bassi sarebbe enorme rispetto alla dimensione del Paese, quindi non gestibile (altrove è stata dopo tutto comparativamente contenuta ed è avvenuta in tutt’altre condizioni del mercato); b) che si tratterebbe di un quantitative easing in presenza da un lato di possibilità di default (che non riguarda minimamente le esperienze degli altri paesi) e c), dall’altro, di aspettative di inflazione (anch’esse lontane dal caso degli altri paesi). Lì il gioco è stato condotto dalle banche centrali, qui sarebbe condotto dai privati e sarebbe insostenibile.
Ripercussioni perverse
Chiediamoci allora le conseguenze di tutto ciò. Ammesso pure che lo Stato goda di un periodo di grazia (a causa del consolidamento del debito) e che le conseguenze riguardino solo i privati che operano sul mercato secondario (e che su questo misurino la loro ricchezza), possiamo quindi ignorare tali conseguenze come irrilevanti? Altroché! Chi sono i privati? Banche e assicurazioni, l’estero, altre istituzioni finanziarie (tra cui fondi di investimento e pensioni), imprese, persone fisiche.
Le banche nazionali, cariche all’attivo di titoli di Stato, subirebbero perdite notevoli, insopportabili senza l’aiuto o il rilevamento da parte del settore pubblico. Forse qualche banca italiana si salverebbe con pesanti ricapitalizzazioni (dipende anche da ciò che avviene all’estero, dove non è escluso un contagio e altre crisi bancarie), ma il resto andrebbe nazionalizzato. Come si può pensare allora che il mercato del credito rimanga fluido? Alle perdite patrimoniali si aggiunge il deterioramento del portafoglio di prestiti e la caduta del valore delle azioni (o anche qui dobbiamo assumere l’“a parità di altre condizioni”?). Aggiungiamoci anche le perdite su debiti contratti all’estero (ad esempio con la Bce) che non potranno essere ridenominati in lire.
Se i tassi di interesse non possono essere tenuti a un livello irrealistico quanto più si avvicinano al livello che avrebbero in una mercato aperto tanto più il controllo dei movimenti di capitale è un palliativo, con qualche effetto calmieratore solo nel breve periodo. Prima o poi i mercati dovranno essere aperti, a meno di decretare che i residenti esteri che hanno investito in passato in Italia possono utilizzare quegli averi solo nel nostro Paese. E in ogni caso, solo in situazioni rivoluzionarie si può tenere l’economia in condizioni artificiali (e più sono artificiali più alimentano le ipotesi di insostenibilità). A un certo punto, non lontano, i controlli finiscono o si attenuano. Dovrà esser concesso ai non residenti di smobilitare (se lo desiderano) i loro titoli, sia pure in forte perdita, prima sul mercato secondario e poi sul mercato dei cambi. Se non fosse così la reazione internazionale sarebbe fortissima e piena di rappresaglie. E se fossero solo loro a poter accedere al mercato dei cambi sarebbe sempre molto facile generare movimenti di capitale dei residenti vestiti in forma estera.
Si potrà obbiettare, forse legittimamente, che il grosso dei debiti esteri dell’Italia all’epoca dell’uscita dall’euro probabilmente non apparterrà più ai privati, ma a istituzioni ufficiali europee. Questo vuol dire una cosa: che il sentore dell’uscita dall’euro ha pervaso il mercato prima dell’evento e chi ha potuto proteggersi lo ha fatto, ritirando ciò che aveva investito in Italia. Vuol dire anche che l’uscita dall’euro avverrebbe sotto una convulsione parossistica di fuga di capitali, di cui non saranno certo protagonisti solo i non residenti, ma anche i residenti presi dal panico che circonda la vicinanza presunta dell’evento. La slavina diventa man mano una valanga, alla quale qualcuno deve por rimedio come controparte nel mercato secondario o primario (la Bce, se lo ha ritenuto opportuno, o la Banca d’Italia, in una forma o in un altra, o altri privati che abbiano fatto la scelta contrarian). Il tutto con tassi di interesse in fortissima tensione e la borsa in pesante caduta, che costituiscono un punto di partenza per l’uscita dall’euro tutt’altro che rassicurante e propizio per il futuro. Quando si alza bandiera bianca le misure monetarie dovranno essere rafforzate.
Comunque sia, non tutti i detentori di titoli finanziari avranno potuto “salvarsi”, dove salvarsi vuol dire scaricare sulle istituzioni ufficiali (intervenute sui mercati obbligazionari) i titoli del debito pubblico che scottano. Il grosso non lo avrà fatto. E quand’anche siano le istituzioni ufficiali, ad aver assorbito quei titoli (in quantità comunque parziale), questo non vuol dire che siano usciti di scena, perché la Bce ne pretenderà la restituzione in euro e la BdI dovrà essere ricapitalizzata con le finanze pubbliche dovendo contabilizzare in perdita ciò che ha acquistato. Vi è poi tutto il capitolo Target 25 , che pure entrerà in gioco e che logica vuole – a meno di un default “duro” di puro e semplice ripudio del debito (quello ipotizzato è, invece, soft) – comporti perdite di un certo rilievo per l’Italia.
Anche i privati subiranno perdite patrimoniali ingenti. Parte dei loro risparmi finanziari, che pensavano di aver accumulato nel tempo, andranno distrutti. In più, gioca l’incertezza su cosa avverrà in futuro dei loro redditi. specie quelli che derivano da erogazioni dello Stato. Non aspettiamoci certamente una espansione dei consumi. E nemmeno degli investimenti, frenati dal crollo degli attivi patrimoniali e di borsa delle imprese, da incertezze del futuro, nonché dall’inasprimento del servizio del debito, dall’aumento dei tassi di interesse passivi e dal sostanziale crollo del settore creditizio. Non dimentichiamo che parte dei contratti finanziari tra privati sono in euro con controparti estere e anch’essi non potranno essere ridenominati, con pesanti ripercussioni per i debitori residenti (che mai si compensano con i guadagni dei debitori).
Svalutazione inevitabile
La svalutazione è comunque inevitabile, anche con controlli ai movimenti di capitali. Quand’anche le esportazioni superassero le importazioni secondo i dettati dei libri di testo (ma gli stessi libri di testo mettono in guardia sul fatto che in condizioni normali ciò prende tempo)6 , quei controlli sono temporanei, a meno – come detto – che non si teorizzi che i residenti esteri che hanno averi finanziari in Italia (che già implicano perdite) possano fruirne solo in Italia. Movimenti di capitale (di residenti e non residenti) avverrebbero comunque attraverso il canale estero o “esterovestito”. Ma, in ogni caso, i movimenti di capitale avverrebbero anche attraverso il commercio, con il ritardo delle riscossioni relative alle esportazioni e l’anticipo dei pagamenti relativi alle importazioni a cui un operatore attento si atterrebbe; con sovra e sotto fatturazioni e scegliendo la valuta di fatturazione e riscossione (o pagamento). Si possono mandare i figli a studiare all’estero, comprare servizi fittizi, beni rifugio e da collezione, ecc. Fare triangolazioni all’interno delle scritture contabili di una banca. Potrebbero ricominciare vere e proprie esportazioni illegali di banconote. Il grado di corruzione del paese per sfuggire a controlli e divieti esploderebbe. Per chi crede che i movimenti di capitale siano in toto controllabili consiglio di vedere l’ entità degli unrecorded items nel conto finanziario con l’estero della Cina, dove l’esportazione di capitale è proibita7 . Ma poi, dopo tutto, non è la svalutazione della lira e la riconquista (supposta) di una competitività di prezzo il vero scopo dell’operazione?
Beninteso, non sto sostenendo che la svalutazione sempre e comunque non funzioni, o che necessariamente sia mangiata tutta dall’inflazione (almeno non subito), ma che qui non avverrebbe a parità di altre condizioni se il contesto mondiale muta con la nostra uscita dall’euro e si determina un contagio, accompagnato da un marasma monetario internazionale di cui è difficile sottostimare la dimensione8 . Certo è che nessuno dei contratti siglati in precedenza sarebbe più sicuro e che difficilmente potrebbe non seguirne una recessione mondiale se nessun operatore si fida di nessuno e le autorità e le banche centrali hanno di gran lunga meno munizioni di quelle che avevano nel 2007-8. Oltretutto, comincerebbe una guerra delle valute, accompagnata da forme occulte o palesi di protezionismo, dalla quale saremmo più danneggiati che favoriti (se vi ci impegnassimo anche noi). I capitali mondiali andrebbero in rifugi sicuri, con buona pace della crescita delle economie emergenti, che sarebbero costrette a far fronte a forti deflussi e intraprenderebbero svalutazioni competitive.
I salari e l’occupazione
E veniamo all’azione statale e all’occupazione. Per tamponare una situazione con una spesa privata pressoché bloccata, si dovrebbe ipotizzare una ipotetica e consistente espansione in deficit della spesa pubblica, con un saldo negativo dell’ordine del 5-6%, se basta (ora è poco sotto il 3%). Non sarebbe allora vero che per un periodo di grazia lo Stato non debba ricorrere al mercato per finanziarsi. Deve fare acrobazie per non indebitarsi a valori di mercato, che lo metterebbero in ginocchio. Può puntare su una consistente inflazione deliberatamente provocata oltre ciò che è spontaneo, ma con scarsa lungimiranza per ciò che ne consegue nel lungo periodo. Può chiedere un prestito forzoso (ma a quali condizioni?). Può far finanziare dalla banca centrale il fabbisogno aggiuntivo attraverso il quantitative easing nostrano. Ma dei limiti di quest’ultimo ho già detto. Può ricorrere a una patrimoniale straordinaria per abbattere il debito e operare con più agio (ma questa è recessiva in sé, e lo è maggiormente in periodi in cui tutti i valori patrimoniali stanno cadendo). Il mercato dovrebbe scontare una aggiunta di almeno cento miliardi (euroequivalenti) l’anno a un debito (stock) già accresciuto rispetto al livello preuscita per gli impegni che non hanno potuto essere ridenominati in lire.
Vi è poi la ricapitalizzazione delle banche, le spese per l’assicurazione dei depositi e le perdite da ripianare della Banca d’Italia. La situazione di partenza è già quella di una caduta delle entrate statali, che difficilmente potrebbero essere risollevate, e di innalzamento dei tassi di interesse. Temo che anche in questa dimensione quell’entità di deficit (se attuabile) servirebbe a tamponare una recessione non a provocare espansione o ristabilire una normalità di funzionamento dell’economia, con il costo di compromettere il futuro. Le aspettative di non sostenibilità si rafforzerebbero, moltiplicando il panico finanziario e la cautela nella programmazione della spesa privata. Il timore che si spargerebbe è che dietro l’angolo ci sia non un default soft, ma un default hard. Il tentativo individuale di proteggersi porterebbe un danno per tutti, perché accentua la caduta dei valori patrimoniali (immobili, obbligazioni, azioni, fondi, ecc). La deflazione patrimoniale è di gran lunga diversa da una recessione canonica, come si sforza di far capire la Banca dei Regolamenti internazionali9 .
Inizia un periodo glorioso per i salari? Mettendo assieme i fallimenti che vi sarebbero (per eccessivo debito contratto verso l’estero in precedenza, per le difficoltà di credito e la caduta della domanda) è difficile prevedere che la massa salariale si espanda. Mettiamoci inoltre la possibilità che le holding di diritto estero (anche quelle che un giorno sono state italiane) non esiterebbero a trasferire altrove le unità produttive dislocate nel nostro paese, senza che gli si possa impedire di farlo, basta chiudere e riaprire altrove abbandonando un paese inaffidabile e con mille incertezze future. L’occupazione calerebbe inesorabilmente, comprimendo ulteriormente i salari. Cercare di proteggerne il potere di acquisto con l’indicizzazione all’inflazione è utile, ma riguarderebbe il mercato formale del lavoro, che in circostanze del genere si restringerebbe sempre di più. Per altri lavoratori non sarà semplice recuperare l’inflazione e il peggioramento delle ragioni di scambio in presenza di rapporti di forza squilibrati.
Uscire da sinistra
Le condizioni per far funzionare un’economia di guerra, ovunque le si prenda sono illusorie e pericolose (forse si dovrebbe parlare anche di condizioni politiche necessarie a sostenerla, che sono di grande autoritarismo). Non ci si arriva da sinistra né preludono a una stagione di sinistra. È ovvio che dovremmo ricorrervi nel caso di deflagrazione dell’euro, che travolgerebbe una economia debole, ma perché andarcele a cercare?
Mentre l’argomento dell’uscita sta prendendo connotati di fondamentalismo religioso con tifo da stadio per questa soluzione, abbiamo bisogno di analisi meditate per non sbagliare. Se, come io penso, l’uscita dall’euro mette l’economia italiana su un piano fortemente inclinato di cui non si conosce la fine, rimanere dentro è l’unica opzione possibile, anche se per nulla tranquillizzante.
Il modo con cui uscire da sinistra dalla crisi in questo contesto è ciò su cui varrebbe la pena che la sinistra politica si impegnasse10 , senza cadere in complessi di inferiorità verso chi ha una soluzione miracolistica di cui si sente priva.
Abbiamo bisogno di idee e progetti non avventuristici. Non abbiamo bisogno della ricerca di scorciatoie apparentemente più radicali, che sono, però, un salto nel buio e rischiano di creare illusioni e false aspettative. Portano in nuce una china sociale ed economica (e di destino del Paese) di gran lunga più disastrosa di quella in cui siamo precipitati, ma soprattutto deviano dai problemi effettivi (lasciando quindi,con grave responsabilità, che il campo sia organicamente riempito dalle sole idee in gioco, le “soluzioni liberiste”).
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Note
1) Tavola Rotonda: Perché l’unità monetaria europea? (Salvatore Biasco, Innocenzo Cipolletta, Marcello De Cecco, Giacomo Vaciago), Politica ed Economia, luglioagosto 1989, reperibile in rete al link http://www.ripensarelasinistra.it/wp-content/uploads/2014/02/politica-economia2.pdf
2) S. Biasco Un economia da sbloccare, anche dai dogmi, Il Mulino n. 5, 2003.
3) In più ritengo che abbiano fondamento gli argomenti extra economici che porta R. Patalano nel suo intervento nell’ultimo numero di Critica Marxista. Cfr L’euro è una scelta politica irreversibile.
4) Per chi non sia economista la IS e la LM sono curve di sintesi reale e monetaria, che, nel punto di incontro, determinano l’equilibrio generale dell’economia. Appaiono in qualsiasi libro di testo. Quando si varia qualche esogena le curve si spostano e determinano un nuovo punto di incontro di equilibrio generale, corrispondente alla nuova situazione. La comparazione tra equilibri generali viene presa come effetto del mutamento di quell’esogena. L’econometria funziona con la stessa forma mentis: parametri dedotti da lunghe serie storiche (che presuppongono regolarità economiche) e utilizzo di quei parametri per proiezioni future (variando un’esogena e tenendo ferme le altre).
5) Target 2 è un sistema che incanala tutti i pagamenti e le riscossioni transfrontaliere tra paesi dell’euro attraverso la Bce. Qualora vi siano deficit o surplus di paesi dell’area nelle transazioni reciproche (di natura finanziaria e reale) appaiono contestualmente crediti e debiti delle banche centrali verso la Bce. L’Italia è debitrice per poco meno di 200 miliardi a fine 2014.
6) Prevale prima un effetto prezzo, sfavorevole, e solo dopo un intervallo che va da un anno e mezzo ai tre anni prevale l’effetto quantità. Il fenomeno è chiamato effetto J.
7) Il Global Financial Integrity (GFI) nel suo rapporto Illicit Financial Flows from Developing Countries: 20032012 stimava i movimenti illegali in uscita dalla Cina a circa 250 miliardi di dollari nel solo 2012. Cfr. http://www.gfintegrity.org/wp-content/uploads/2014/12/Illicit-Financial-Flows-from-Developing-Countries-2003-2012.pdf
8) D. Palma e G. Iodice parlano di Lehman al cubo in un bell’articolo: Gli eccessivi ottimismi sull’uscita dall’euro, in Keynes Blog . Cfr. http://keynesblog.com/2015/02/25/gli-eccessivi-ottimismi-sulluscita-dalleuro/
9) Bri, Relazione Annuale, luglio 2013.
10) Ne danno una rappresentazione efficace R. Romano e P, Pini, Europa sì, euro no? le prospettive che abbiamo di fronte, in Critica marxista, 2014, n. 6. Fra l’altro va ai due autori il merito di porre l’attenzione sulle condizioni microeconomiche.