di Alfredo Morganti – 20 gennaio 2016
Ho un piccolo e recente ricordo di Ettore Scola. Qualche mese fa ero in mezzo al pubblico del teatro di Tor Bella Monaca, una delle poche istituzioni pubbliche che hanno trovato radici e legittimazione nel mio Municipio extraperiferico. Prima che lo spettacolo avesse inizio, il direttore salutò dal palco “un grande regista, un grande uomo di cultura, che è seduto qui tra noi”. Guardo due file avanti e lui è lì. Scola si alza, si volta e fa un sorriso e un breve cenno di saluto. Poi torna a sedersi col gesto naturale di un uomo che non teme di stare in mezzo alle persone normali (e noi eravamo persone davvero normali, tutti o quasi abitanti delle borgate lì attorno). Lo confesso: sono ancora meravigliato dalla naturalezza con cui alcuni ‘grandi’ riescono a stare accanto, assieme, a condividere spazi e umori popolari, a sentirsi popolo pur appartenendo ad altri ceti, ambienti, culture. Una prossimità che è frutto di una cultura (soprattutto politica) che non insegnava il distacco ma la vicinanza, lo stare da presso, la cura, l’umiltà, e perciò, almeno per una certa quota, rendeva normale anche il ‘grande’, o almeno lo rendeva capace di comunicare, dialogare, sentirsi persino uno tra gli altri. Un modo di essere popolare senza cedere alla volgarità. Questo mondo, questa cultura erano l’humus in cui si muoveva il vecchio militante della sinistra, chi era esposto all’etica comunista, alle sue pratiche e ai suoi paradigmi. Quelli per cui si dava del ‘tu’ a tutti, anche a Berlinguer (ma che restava sempre ‘Berlinguer’, non ‘Enrico’!) e non c’erano ‘signori’ ma solo ‘compagni’. Con tutte le contraddizioni che ne potevano sorgere, certo. Ma con tutto il senso di comunità che ne derivava. E Scola fu sia un grande regista (con quattro nomination agli Oscar!) sia un uomo che fece politica (fu ministro, tra l’altro, del governo ombra comunista nel 1989).
Con Ettore Scola se ne va un altro pezzo di questo mondo. Non muore solo un regista, un maestro, ma si dilegua in termini sempre più consistenti e forse definitivi un modo di concepire e di fare politica e cultura. Un modo non ‘tecnico’, non asettico, non ‘specialistico’, non meramente professionale (per quanto si stia parlando di un talento e di un professionista di prima grandezza), ma caldo, vigoroso, aperto alla cultura intesa anche in termini popolari, senza che ciò determini un qualche scadimento della qualità artistica, come sappiamo. Aperto persino alla politica, non quella leaderistica e plastificata di oggi, e nemmeno quello che viene detta ‘buona’ perché movimentista o antipartito, ma la politica tout court, la politica in generale, intesa come impegno personale e come bisogno intellettuale. La politica “bella” citata in ‘Baarìa’ di Tornatore. Quella ‘grande’. Quella della Resistenza e della Costituzione. Quella delle grandi lotte, della partecipazione democratica, del senso della collettività, dei partiti, dei sindacati, della cultura e dello studio inteso come insuperabile strumento di comprensione. Quella dell’etica personale, del radicamento, dell’appartenenza, della comunanza di destino. Quella del bene ‘pubblico’. In cui non c’erano dei barbagianni ad arringare direttamente dai media e dai social con un tweet e hashtag stucchevoli, ma donne e uomini stracolmi di grandi responsabilità. Figure tragiche, non annunciatori seriali di presenti e futuri impareggiabili e improbabili. Politica delle memorie, non solo delle visioni. Vita concreta, ben più che sondaggi, percentuali o zero virgola. Io leggo nella scomparsa di Scola non solo un lutto per il cinema mondiale, per quanto enorme, ma un colpo, l’ennesimo, a questo modo di intendere i rapporti umani e le persone, che oggi non ha più alcuno spazio, perché ci dicono sia ormai ‘cambiato’ tutto e tutto viepiù deve ulteriormente ‘cambiare’ (anche se tutto resta invece com’è: stessi assetti di potere, stessa subordinazione, stessa umiliazione, e le riforme soltanto una certificazione del peggior status quo). Un mondo dove una solida cultura è stata ‘rottamata’ in nome di qualcosa che mi è difficile definire, e forse è persino indefinibile. Non ho nostalgie, e non mi mette paura vivere in mondi diversi dal precedente, anzi. Era solo per dire quanto l’attuale sia, a mio giudizio, un brutto scadimento rispetto al precedente, e che il suggello della ‘novità’, per quanto urlato e sbandierato, non offra alcuna garanzia che i rapporti umani e sociali si trasformino davvero. Anzi.