Enrico Berlinguer non muore

per Gabriella
impossibile non ricordare Enrico Berlinguer  a trent’anni dalla sua morte, lo facciamo con questo e con altri articoli
da IlFattoQuotidiano.it

di | 11 giugno 2014

Il ricordo non è mai solo un ritorno al passato. Serve, spesso, a rivivere il presente selezionando e riadattando la memoria. Si spiega così il diffuso bisogno di Enrico Berlinguer. A pesare, nell’immaginario di questi giorni, c’è indubbiamente la forza del trentennale, le rievocazioni su stampa e in tv, il film molto ben recensito di Walter Veltroni. Eppure, in questa overdose di berlinguerismo di ritorno si fa a fatica a distinguere il bene dal male, il bisogno dall’eccesso, l’utilità dalla rimozione.

In campagna elettorale, ad esempio, i leader dei due principali schieramenti, Renzi e Grillo, si sono strappati di mano i lembi di quell’eredità a colpi di urla e insulti: “Giù le mani”, “sciacquatevi la bocca”. Come ha spiegato al Fatto Achille Occhetto, entrambi hanno pochi titoli per intestarsi azione e pensiero dell’ultimo grande leader comunista. Se Berlinguer fosse vivo, per cultura e formazione sarebbe ben distante dal Movimento 5 Stelle e lo guarderebbe magari incuriosito ma restando estraneo a quel miscuglio, spesso creativo altre volte confuso, di partecipazione dal basso e di potenza leaderistica. Lui, che di fronte al movimento del ’77, utilizzò la categoria degli “untorelli” e scomodò il riferimento ai “diciannovisti”, non era certo uomo di movimento e di scompaginamento. Ma nemmeno si può dire che c’entrasse con un partito, il Pd, che del Pci raccoglie l’eredità simbolica ma di cui non esprime nessuna continuità. Quel partito, comunque lo si giudicasse, è stato la rappresentanza, spesso moderata altre volte più radicale, di un interesse corposo e radicato nel Paese: il mondo del lavoro, di cui costituiva la speranza di riscatto. Berlinguer parlava al “popolo lavoratore”, alla “classe lavoratrice”, termini che Renzi salta a pié pari non in virtù di un’analisi post-industriale ma per convinzione interclassista. Nemmeno si può realizzare una linea retta tra chi ancora viveva dentro la scia formata dalla Resistenza, dai suoi uomini, i suoi valori e la loro rettitudine di fondo e chi, oggi, è chiamato a rispondere di tutte le inchieste giudiziarie sul rapporto tra affari e politica.

Il punto vero è che Berlinguer è un uomo d’altri tempi, figlio della politica del secondo Novecento, con le sue grandezze e le sue miserie. Ha attraversato il cuore dell’esperienza comunista, avendo il tempo per essere apprezzato da Togliatti e poi divenirne il migliore erede. Tra il “compromesso storico” e la “svolta di Salerno” non c’è soluzione di continuità, una volta esclusa la via insurrezionale, al Pci non restava che cercare la via democratica al socialismo che, in Italia, nel secondo ’900, passava per un rapporto, anche conflittuale ma inesorabile, con la Dc. Quanto duro fosse quel conflitto lo sperimentarono entrambi. Il primo cacciato dal governo De Gasperi e poi battuto nel ’48; il secondo usurato da Andreotti e Moro, fino alla tragica uccisione di questo, e poi costretto a un lento rinculo.

In questa parabola politica, Berlinguer può essere considerato l’ultimo leader comunista. Dopo di lui si avrà solo una gestione opaca, quella di Alessandro Natta, e poi il declino e lo scioglimento celebrato da Achille Occhetto. L’ultimo segretario resta lui anche perché con lui il Pci consuma la sua parabola eccezionale: con lui tocca le vette elettorali del ’76; poi, sull’onda dell’emozione della sua morte, realizza il sorpasso sulla Dc alle europee del 1984. Nel più grande funerale politico della storia italiana si condensa il senso di questa parabola. In quel giorno di giugno, infatti, un intero popolo, quel “paese nel paese” di cui parlò Pasolini, intuì che una storia era finita, che un ciclo si era consumato. Il Pci ci aveva provato a trasformare l’Italia, sia pure in forma originale, ma alla fine fu costretto ad arretrare. Più forte di tutto era stata la protervia di Bettino Craxi, la spudoratezza di Giulio Andreotti, la pochezza della classe dirigente italiana. La via italiana al socialismo ha prodotto importanti riforme – l’Italia avanza realmente solo tra gli anni 60 e i 70 per poi inabissarsi nel buio – ma non ha prodotto quello che in America latina chiamano “il cambio”, il mutamento, la palingenesi.

Eppure, ed ecco il bisogno del presente, Berlinguer non muore. Di Forlani nessuno ricorderà nemmeno il nome e Craxi sarà per sempre uno dei tanti mali di questo Paese. Ma “l’Enrico nazionale” resterà in futuro anche perché riuscì a chiudere la parabola del Pci con la forza evocativa della questione morale. La stessa sua morte, avvenuta in piedi, davanti alla propria gente guardata in faccia con un sorriso malcelato nonostante il malore, è intimamente connessa al rigore morale dell’uomo. Quello che ognuno ha deciso di portarsi nel proprio serbatoio dei ricordi personali. Messo all’angolo dal pentapartito, privo di alleanze, finito “in mezzo al guado”, Berlinguer decise di cercare l’alleanza direttamente con il popolo, non solo il suo. La “questione morale” servì al Pci per reggere all’onda d’urto della sconfitta di fine anni 70, all’inversione a U che la lotta di classe, allora, subì dopo i 35 giorni alla Fiat, al contesto internazionale incrinato dall’avvento del neoliberismo di Reagan e Thatcher e dagli scricchiolii dell’Urss. In quel passaggio intuì che al partito che guidava serviva un fondamento più ampio e una base per reggere al cambiamento di fase. Colse un’esigenza diffusa. Si servì di un credito accumulato e della “diversità” che il Pci poteva ancora sbandierare. Il filo di quell’intuizione non fu srotolato perché morì improvvisamente e perché, senza di lui, scoppiò la rissa nel Pci e l’incapacità, o impossibilità, di uscire fuori dal guado.

L’intuizione si rivelerà feconda negli anni e nei decenni a venire. La crisi della politica, che conosceremo poi, è, infatti, in primo luogo crisi morale – sia sul piano degli affari e delle inchieste che su quello della distanza dalla vita reale – per questo Berlinguer è vivo e attuale. Ha reagito alla crisi del progetto comunista lanciando nel futuro un’idea della politica resa possibile solo in virtù della propria credibilità. E lo ha fatto potendo riassumere su di sé, sulla propria persona, tutta la forza accumulata da quel mondo che lo saluterà disperato al suo funerale. La questione morale è il prodotto del “paese nel paese” e quella “classe lavoratrice” gli consentirà di accendere una luce per i posteri. Nessuno ci riuscirà più con quella forza e quella credibilità. Per questo vive ancora.

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