Elogio della sartina

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Katia Migliore
Fonte: Come don Chisciotte

Il pretesto di questo articolo, che avevo in mente di scrivere già da un po’ di tempo, me l’ha dato la visione di una puntata storica di Teatro 10, famoso programma di intrattenimento condotto da Alberto Lupo tra il 1971 e il 1972.

A inizio trasmissione, l’attore si avvicina a una spettatrice tra il pubblico, e le chiede che mestiere faccia; l’imbarazzata signorina risponde “la sarta”, e da lì, dopo un raffinato siparietto, parte la poesia dedicatoria alle sartine. Un bel momento di televisione in bianco e nero, insomma. Era il 1971, a ridosso di contestazioni giovanili e crisi economiche, ma l’Italia televisiva ci lasciava un ritratto preciso di ciò che era e cosa guardava la gente comune,.

Io ricordo molto bene qual era il mondo delle sartine, perché era quello della mia infanzia, quello fatto di mamme a casa e di donne casalinghe e allo stesso tempo lavoratrici che, conoscendo il mestiere di cucire, approfittavano del tempo libero a disposizione per lavorare in casa, giusto per arrotondare un po’ le entrate in famiglia e tirare avanti.

Queste donne seguivano la casa, i figli (sempre piuttosto numerosi) e il marito che si vedeva poco, durante la settimana. Una gran fatica, insomma.

Era un mondo di ruoli definiti. Non solo per le sarte ma anche per le loro clienti, un po’ di tutte le età. I negozi dove comprare bellissime stoffe non mancavano. Mia madre andava al mercato, dove trovava anche tessuti per abbigliamento, che comprava già conoscendo a occhio i consumi. Poi, giornali alla mano, decideva cosa farsi confezionare. Ho davanti agli occhi l’immagine dei giornali sparsi sul tavolo: Gente, Domenica del Corriere, Annabella, Gioia fra quelli più letti, con le pagine dedicate alla moda, specie quella internazionale.

Ricordo i vestiti della domenica, la Messa, e poi a pranzo il risotto di mia nonna, cucinato per la numerosissima famiglia. In Veneto, mio nonno, che preferiva andare sempre in giro in bicicletta ed era famoso per essere un campione di bocce, sedeva a capotavola e io di fianco a lui. Il ruolo di capo famiglia era suo, e nessuno osava metterlo in discussione. La sua parola era l’ultima: ricordo che col risotto dovevo rigorosamente sempre assaggiare un “goto de vin rosso”, perché “el riso nasse in aqua, ma more nel vin!”.

La famiglia era solida. O, per lo meno, dava l’impressione di esserlo.

La cosa più bella di tutte era la possibilità, per noi bambini, di poter stare vicini alla mamma durante il giorno. Sempre di fianco a loro, che non si perdevano neanche un momento della nostra crescita. Noi diventavamo grandi con la mamma accanto. Un privilegio, pensando a oggi.

Quando siamo state più grandicelle, qualcuno a scuola e in TV ha cominciato a raccontare insistentemente che no, non era vita quella loro. Schiave della casa, dei figli, dei mariti. Noi ci credevamo solo in parte: non ci sembravano così schiave, in effetti, anzi, erano ben padrone della situazione…

E invece no: al liceo era obbligatorio pensare che le casalinghe erano delle fallite. Solo il lavoro avrebbe reso indipendenti migliaia di donne schiave del maschio-padrone.

“Boh. Io non ne ho di maschi padroni, a casa… Oddio, certo, se il papà si fa sentire tutti lo ascoltano… Ma è proprio così un male?”, pensavo, e così restavo un po’ in disparte a guardare le femministe picchettanti davanti al portone del liceo il giorno dell’8 marzo.

L’occupazione femminile, che gran conquista, a un certo punto proclamavamo tutte quante convinte, negli anni 80. Già. E però, andando a vedere le prime catene di montaggio con le donne che cucivano in serie, col capo chino mentre l’addetto ai tempi e metodi le cronometrava, non potevo fare a meno di pensare a quella sartina che, un po’ trafelata ma sempre sorridente, tra un pranzo e una cena confezionava l’ultimo vestito di moda con precisione certosina, mettendoci del suo, dispensando consigli.

Viveva, quella donna stanca, ma viveva. E invece, su una macchina, facendo sempre la stessa azione, che razza di condizione era? Cosa ne potevano mai sapere quelle operaie e impiegate di come stavano crescendo i loro figli, vedendoli solo un qualche ora alla sera?

Perché la domanda che sorgeva spontanea alla vista di quella moltitudine di teste a capo chino, nella catena di montaggio, era dove fossero i loro  bambini. Chi li teneva? Le nonne, certo, quelle più fortunate, ma le altre? Tutti al nido, in mano ad altre donne, già dai pochi mesi.

Ma era vita quella? E oggi, cosa è cambiato? Nulla, anzi, è ancora peggio. A cosa servono i figli, se non a distruggere le aspirazioni delle giovani in carriera, che però non sanno cosa si perdono. Molte donne non riconoscono più il loro valore nella crescita dei loro figli, anzi, devono uscire di casa per ritrovare sé stesse. Sia chiaro, è tutto legittimo, ma il destino dei nostri bambini è ormai legato a doppio filo alle aspirazioni di carriera delle mamme. Dovremmo esserne contenti?

I figli sono la ricchezza del mondo, non l’occupazione femminile. In barba alla narrazione diffusa, io sostengo che le donne che decidono di essere madri, prima che manager di un’azienda, sono la vera ricchezza di una Nazione (ebbene si, ce l’ho anche con Adam Smith).

Mi si potrà obiettare: per mantenere una famiglia si deve essere in due. Ecco, appunto. E non vi pare una degenerazione malefica di un sistema che non lascia spazio alla maternità, e che riduce anche i nostri uomini a essere risolti solo a metà, perché con il loro stipendio non ci mantengono più la propria famiglia, mentre una volta i nostri padri ci tiravano su  letteralmente alla grande: scuole, abiti, vacanze, occasioni di divertimento…

Ma cosa mancava a noi per essere felici, con la mamma che ci aspettava alla finestra a ritorno da scuola e il papà che arrivava la sera a casa, stanco ma felice di vederci? I problemi c’erano, ma noi crescevamo forti dentro. Si può dire la stessa cosa delle giovani generazioni di oggi?

La scelta di diventare genitori è complicata, in questa nostra società. Non dico nulla di nuovo. Ma manca il coraggio di cambiare “le regole”.

Le donne che lavorano e hanno figli vivono nel costante senso di colpa della propria mancanza a casa. Chi lo nega, mente. Forse è il momento di riprenderci quel senso della maternità che questo sistema tenta quotidianamente di sabotare, da anni. Non c’è nulla di male nel fare le mamme a tempo pieno. Lo Stato deve tutelare questa scelta, ma non a spese delle imprese, ma assumendosi la responsabilità di assistere e finanziare le mamme con i bambini, almeno fino ai 10 anni. Questa strategia è fondamentale per invertire la rotta demografica che ha intrapreso il nostro Paese.

Il problema non è solo economico, ma semmai culturale. I bambini sono una bella cosa, non un peso. Le donne che decidono di dedicarsi alla famiglia a tempo pieno devono essere tranquille nel farlo. E i padri, finalmente, devono poter godere di un salario degno di questo nome.

Di Katia Migliore

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