Effemeridi dell’angoscia – sprazzi di luce

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Cardini
Fonte: Minima cardiniana

di Franco Cardini – 30 settembre 2018

Sarà che invecchio, sarà che negli ultimi tempi non sono stato troppo bene (cosa che può succedere, ma che in genere non migliora il carattere anche se e quando apporta saggezza…), ma  sto rendendomi conto di sopportare sempre meno bene i miei simili: e, dal momento che a quanto pare molti di loro nutrono nei miei confronti sentimenti reciproci, siamo pari. Vi sono, tuttavia, delle eccezioni: grazie a Dio anche molte. Mi limito a segnalare tre personaggi che per me sono ordinariamente altrettante stelle polari: Massimo Cacciari, Sergio Givone (chi non ha ancora letto il suo saggio Quant’è vero Iddio la smetta di farsi del male e rimedi subito), Armando Torno.

Di rado riesco a non essere d’accordo con Massimo Cacciari, anche quando si dà alle sue ormai proverbiali sfuriate in TV: del resto, va detto che lo fa sempre con stile. Ma è sempre molto divertente – nel senso migliore del termine – e a volte dice sul serio cose davvero sacrosante. Che non sia formalmente né cattolico né cristiano, non significa nel suo caso un bel nulla: né vorrei molti, di “atei”, o di “agnostici”, o di “teisti” (sbarrare la casella che interessa) come lui; per quanto, per altri versi, di Cacciari ce n’è uno solo e basta e avanza. Del resto, a parte Platone e Nietzsche, mi vanto di avere in comune con lui anche un terzo Autore che per lui come per me è una guida preziosa: Niccolò di Cusa e il suo De pace fidei.

Seguo con attenzione quello che fa e che dice: ma ne fa e ne dice troppe, e non riesco a tenergli dietro. Ad esempio, solo per caso e con grande ritardo ho letto un’intervista da lui rilasciata dopo le elezioni del 4 marzo scorso al settimanale diocesano di Treviso “La Vita del Popolo” dove tra l’altro esemplarmente si dichiara:

…E’ un interrogativo drammatico: che influenza ha oggi sulle scelte politiche Santa  Romana Chiesa? Che influenza hanno il magistero e i discorsi di papa Francesco? I cattolici hanno rappresentato per il paese un valore determinante di vita civile. E’ sparito tutto questo? La gente va ad ascoltare il papa per fare una gita? Come mai l’influenza della chiesa va scemando a prescindere dalla popolarità dei papi e dalle loro grandezza?”.

E’ una riflessione seria e preziosa. Come mai l’influenza della chiesa sulla vita civile dei cattolici – soprattutto, forse, in Italia: ma non solo – va scemando è un tema rispetto al quale Cacciari stesso, più volte e in più occasioni, ha fornito risposte. Resta però una questione di fondo, che in questi mesi (il passo citato è ormai “vecchio” di alcuni mesi) è andata aggravandosi. Ormai lo sport del “tiro al papa” sembra talmente diffuso presso i cattolici – compresi alcuni che tengono molto alla loro fama di ortodossia e di fedeltà alla Chiesa di Roma – da far sul serio temere che, in molti casi, si tratti davvero di una grave perdita di freni inibitori accompagnata da uno sconsiderato crescere di superbia e di millantata competenza: tanto più colpevole poi in quelli che competenze in materia storica, teologica, ecclesiologica magari ce l’hanno davvero. Attenzione: corruptio optimi pessima. Senza umiltà e senza discrezione, anche le migliori ragioni e le più serie competenze rischiano di mutarsi in frutti avvelenati. Si può essere cattolici anche senza votarsi anima e corpo al “monarchismo pontificio”: di quando in quando tornano a galla, ad esempio, e non senza ragione, le istanze conciliaristiche, le quali sembravano sconfitte a metà Quattrocento ma che si sono poi riaffermate dopo il Vaticano II. Tuttavia, “monarchista” o “conciliarista” che sia (e le istanze conciliaristiche sono riaffiorate anche di recente, quando l’arcivescovo di Vienna Schörnborn, nell’aprile scorso, ha richiamato il tema dell’ordinazione sacerdotale alle donne sostenendo che il papa da solo non può bastare a risolvere la questione e chiedendo al riguardo un concilio), il cattolicesimo si distingue dalle altre confessioni cristiane non tanto e non solo sui piani dogmatico e liturgico, quanto soprattutto su un tema che è, autenticamente e letteralmente, romano: la disciplina, che non è né ossequio formale né bovina subordinazione, ma che è obbedienza e rispetto.

Intendiamoci: le critiche sono legittime; e d’altronde nemmeno il papa è infallibile, se non – e questo per i cattolici è un dogma – quando si esprime ex cathedra beati Petri. Ma un conto è la riflessione critica, magari anche l’opposizione, un altro il sospetto continuo e sistematico, le istanze aprioristicamente complottistiche, il pervicace diniego perfino del dovuto rispetto, gli atteggiamenti saccentemente e ridicolmente inquisitòri che arrivano a sfiorare l’accusa di eresia e addirittura il sospetto che il pontefice, dicendo questo e facendo quest’altro, sia incorso nella scomunica latae sententiae. C’è già chi, deposto ogni residuo senso del grottesco, parla di un papa “anticristo” e “servo di Satana” con toni che peraltro lo stesso dottor Lutero – un personaggio dal quale peraltro gli avversari di papa Francesco aborrono in termini  storicamente e teologicamente perfino eccessivi – avrebbe esitato da usare.

Questo appello non è rivolto affatto alla “frangia lunatica” dei cattolici  sedicenti “cristianisti” in quanto autoreferenzialmente depositari e amministratori della divina Giustizia,  quelli ben più papisti del papa – è il caso di dirlo –, quelli che hanno la Verità in tasca e che fulminano scomuniche a destra e a manca blaterando di riscosse cristiane; bensì ai credenti seri e consapevoli della loro fede e dei doveri ch’essa comporta. Oportet ut scandala eveniant, ma guai a chi s’incarica di provocarli.

Resta poi il fatto che, alla loquacità dei Nuovi Inquisitori, si contrappone oggi quella che nel Medioevo si sarebbe definita la pessima taciturnitas dei vescovi italiani, originata forse dal timore di reprimende vaticane, forse anche dalle troppe e troppo forti tensioni esistenti all’interno della Conferenza Episcopale Italiana. Certo, nessuno o quasi rimpiange le continue dichiarazioni e la magari pesanti “ingerenze” dei capi delle diocesi nelle cose politiche ch’è stata una caratteristica di alcuni momenti della storia passata (per quanto d’ingerenza non si possa né si debba propriamente parlare: un vescovo è un cittadino, avrà pure il diritto se non addirittura il dovere di esprimere dei giudizi e d’indicare delle vie da battere): ma è pur sempre da non dimenticare il mònito da Pio XI rivolto nel 1931 a Mussolini, durante la crisi dell’Azione Cattolica: la Chiesa ha tutto il diritto e addirittura il dovere di “occuparsi di politica” quando la politica “tocca l’altare”; e il fatto è che lo tocca quasi sempre, tutte le volte che vi siano abusi e ingiustizie da combattere. E per questo colpisce, e non rassicura, quello che Alberto Melloni, su “La Repubblica” del 25 aprile scorso, denunziava come L’inedito silenzio dei vescovi. Che parlino, le Loro Eccellenze: che non permettano che il loro silenzio venga sostituito dalla petulante voce degli irresponsabili per i quali uno tzunami sulle coste del Sudest asiatico è una prova automatica e immanente dell’ira di Dio contro i peccati delle popolazioni colpite (magari ogni tanto Dio ragionasse davvero così: ve lo figurate quel che si abbatterebbe su Wall Street o sulla ridente cittadina di Davos?).

Resta, comunque, nell’aria, giustificato o no che sia, eccessivo o meno che sembri, il timore di uno scisma: che per qualche sconsiderato è una speranza. D’altronde, colui che taluni con ammirazione e altri per dileggio definiscono “il papa gaucho” le cose non le manda a dire: non solo quando afferma e dispone, ma anche quando proibisce. Spero non sia sfuggito proprio a tutti che, forse dopo le proteste d’ambiente episcopale provocate dalla sua esortazione apostolica Amoris laetitia, si è opposto alla richiesta che in caso di nozze di confessione mista cattolico-luterana celebrata in una chiesa cattolica il coniuge luterano possa accedere all’eucarestia (è una bacchettata sulle dita al cardinale Marx); ha vietato la revisione della Humanae Vitae, che – emessa il 25 luglio del 1968 – ha ormai cinquant’anni e con la quale papa Paolo VI dichiarava immorale la contraccezione; infine, tornando sulla questione della donna-prete, ha impedito la riapertura della discussione sul divieto delle ordinazioni femminili disposto da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalisdel 22 maggio 1994. Il papa punta, senza dubbio, alla riunione tra le Chiese: ma sa bene altresì che qualunque “apertura” nei confronti del mondo occidentale riformato allontana dall’intesa con le Chiese cristiane ortodosse e orientali. Un passo avanti, anche deciso, per la riammissione del permesso ai sacerdoti di sposarsi non osterebbe all’intesa né con i riformati né con gli ortodossi e gli orientali: ma in tema di contraccezione e di sacerdozio femminile non si scherza, l’opposizione è frontale. E’ vero che questo papa, da buon gaucho, “lleva – come dicono gli argentini – espuelas de plata”, calza sproni d’argento: ma sa benissimo quando è il caso ai affondarli nella pancia del cavallo per farlo correre e quando invece bisogna trattarlo con dolcezza, ammansendolo e carezzandogli la criniera.

E, visto che siamo insensibilmente scivolati nell’ecclesiologia contemporaneistica, anche tornando a un tema che già avevo sfiorato nel MC della settimana scorsa, mi permetto di consigliare il numero 24 (1/2918) della bella rivista “Quaderni Biblioteca Balestrieri”, edita dalla provincia dei Frati Minori di Sicilia e dedicata al sinodo dei vescovi siciliani. Oltre al testo completo del discorso di papa Francesco ai giovani tenuto il 19 marzo scorso in occasione dell’incontro al Pontificio Collegio Internazionale “Maria mater Ecclesiae”, i contributi del fascicolo insistono molto – anche riferendosi al Rapporto Giovani curato dall’Osservatorio Giovani dell’istituto Giuseppe Toniolo (ente fondatore dell’Università Cattolica) – sulla condizione in Italia dei cosiddetti Millennials,cioè di coloro che, nati tra 1980 e 2000, oscillano oggi tra la soglia del quarantesimo e quella del ventesimo anno di età: cioè tra coloro che, se ne hanno, hanno figli ancora piccoli o molto giovani e quelli che stanno diventando o sono da poco diventati maggiorenni. E’ su di loro che bisogna insistere se vogliamo – ed è indispensabile – procedere a una rifondazione morale e culturale dell’ormai destrutturata società civile italiana. Se non è ormai (almeno per i quasi-quarantenni) troppo tardi.

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