Fonte: il manifesto
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27 Novembre 2015
«La più recente acquisizione scientifica secondo cui il suolo costituisce una spugna che trattiene il carbonio e dunque riduce l’effetto serra è un tassello che pone una questione ineludibile: il suolo è un bene comune, drammaticamente scarso e di inestimabile valore». Il manifesto, 27 novembre 2015
Uno degli effetti indesiderati delle conferenze mondiali sul clima è che essi rafforzano, nella mente del comune cittadino, l’impressione di una spoliazione delle proprie possibilità d’azione, la certificazione dell’inefficacia del suo agire personale. Come se la soluzione dei problemi fosse interamente affidata agli accordi internazionali tra gli stati, chiamati a quella sorta di consulto mondiale sulla salute del pianeta. Un sentimento di impotenza, che induce, nel migliore dei casi, all’attesa di un vaticinio finalmente fausto per il nostro avvenire.
E invece il fatto che si ponga al centro dell’attenzione, sia pure per pochi giorni, il grande tema del riscaldamento globale, costituisce un’occasione importante non solo per familiarizzare con una nuova cultura scientifica, ma anche per indicare il ruolo attivo, le possibilità di lotta e di contrasto che hanno i singoli individui, le associazioni, le popolazioni, nei loro territori, indipendentemente dalle stesse scelte degli stati. Partiamo da un rilevante dato scientifico che mostra le enormi potenzialità a nostra disposizione per mitigare la concentrazione di gas serra nell’atmosfera.
Come viene ricordato nel manifesto Terra viva (2015), coordinato da Vandana Shiva, sulla base di studi scientifici recenti «I suoli rappresentano il più grande bacino per l’assorbimento del carbonio e contribuiscono a mitigare il cambiamento climatico. Il suolo è dunque capace di assorbire gas serra. Esso contiene in tutto il mondo il doppio di carbonio rispetto all’atmosfera e trattiene più di 4000 miliardi di tonnellate di carbonio». Dunque il terreno è un immenso serbatoio di vita che trattiene e metabolizza carbonio contribuendo in maniera rilevante all’equilibrio climatico di tutta la biosfera. E’ noto, grazie alle scienze ecologiche, che l’aratura dei suoli sprigiona co2 nell’atmosfera, così come accade quando si abbattono gli alberi di boschi e foreste.
Ma tutta l’agricoltura industriale del XX e secolo, la stessa rivoluzione verde degli anni ’60 e ’70, le agricolture biotecnologiche degli anni recenti hanno ignorato sovranamente questa verità. E non a caso. Esse sono figlie legittime della logica lineare ed estrattiva che connota il capitalismo del nostro tempo. Un rapido sguardo mostra il grande paradosso economico ed ecologico sui cui si fonda l’edificio dell’alimentazione contemporanea: dopo essere stata, per tutti i precedenti millenni della sua storia, produttrice netta di energia sotto forma di cibo, l’agricoltura è una consumatrice passiva di energia sotto forma di concimi chimici, diserbanti, pesticidi, irrigazione ( azionata da motori elettrici), movimentazione di macchine agricole, ecc. Su questo squilibrio drammatico nel bilancio energetico dell’agricoltura contemporanea abbiamo dati inoppugnabili e clamorosi.
Confrontando i dati sulla produzione granaria mondiale tra il 1950 e il 1985 e il consumo energetico nello stesso periodo, ricaviamo una divaricazione statistica senza precedenti. La crescita produttiva in questi 35 anni è stata del 250%. Ma il consumo di energia è esploso, toccando la percentuale del 5000% (D.A. Pfeiffer, Eating fossil fuels. Oil, food and the coming crisis in agriculture, 2006) Mangiamo, dunque, petrolio. Ma questo dato fornisce una evidenza solare all’insostenibilità ambientale del capitalismo. La crescita produttiva dell’agricoltura è dovuta all’uso del potassio, ai fosfati, sottratti nelle varie miniere del mondo e soprattutto al consumo di petrolio a buon mercato per fabbricare azoto, elaborare i concimi, produrre i diserbanti e i pesticidi, ecc. e al ricorso all’acqua, che costituisce il 70% dei consumi idrici mondiali. Non è un caso che all’agricoltura viene addebitata la produzione del 40% dei gas serra.
Ma tutti questi imput non sono dei ritorni ciclici di energia organica alla terra, come accadeva nella vecchia agricoltura. Sono la dissipazione lineare di energia fossile sottratta alla terra una volta per sempre. I concimi chimici non fertilizzano il terreno, nutrono direttamente la pianta, mentre il suolo si isterilisce ed è sempre meno capace di trattenere carbonio, acqua, vita. All’effetto serra delle estrazioni minerarie e delle produzioni industriali si assomma quello del suolo impoverito di sostanza organica. Di più. Il crescente emungimento di acqua tramite i pozzi impedisce il riformarsi delle falde idriche. La mancanza di rotazioni agrarie nelle coltivazioni non consente ai suoli di ripristinare la propria fertilità e le proprie difese dai parassiti, costringendo gli agricoltori ad accrescere il peso della chimica. La rottura dei cicli, che costituiscono il modo di evoluzione della natura, blocca la rigenerazione circolare delle risorse, imponendo la continuazione dell’economia estrattiva e lineare, sempre più economicamente costosa, sempre più ambientalmente distruttiva.
Dunque, l’agricoltura è un ambito in cui molto si può fare dal basso per ridurre l’effetto serra. Molte pratiche agricole sono già in atto, per ridare al suo suolo la sua piena funzione di ecositema: l’agricoltura biologica e biodinamica, la permacultura (che elimina o riduce l’aratura dei suoli), il ricorso ai concimi organici e al compost. Ma ancora tanto si può fare, attraverso uno sforzo di lunga lena capace di produrre una trasformazione culturale profonda a livello di massa, e intercettando un filone teorico di critica dirompente al capitalismo del nostro tempo. Pensiamo all’atteggiamento dissipatore che domina ancora nelle zone agricole. Ogni anno, nei mesi dall’inverno alla primavera, le campagne fumano. Gli agricoltori bruciano in qualche angolo della loro azienda la ramaglia della potatura delle piante o delle siepi. Si tratta di altra anidride carbonica che si aggiunge a quella solita. Ma si tratta anche di una rilevante quantità di biomassa che potrebbe trovare altri usi, e che l’assenza di una organizzazione di raccolta rende impossibile. Eppure essa si imporrebbe, soprattutto per ragioni culturali. Il materiale che la natura produce non va distrutto, deve ritornare in qualche modo alla terra, o trovare comunque un uso economicamente utile. Si deve spezzare in ogni ambito la logica dell’estrazione lineare.
Ma la scoperta del ruolo che il suolo gioca nell’assorbimento del carbonio ci porta a ricordare quanto si possa fare per ripristinare un’economia circolare, che aiuti la natura a chiudere i suoi cicli. E un ambito rilevante è quello del rapporto tra la città e la campagna. Per secoli, in Italia, come nel resto d’Europa e del mondo, la città non era solo consumatrice di beni agricoli, ma riforniva le campagne di energia sotto forma di letami, deiezioni, materia dei pozzi neri, ecc. (E. Sori, La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, il Mulino 2001).
La raccolta differenziata dei rifiuti rappresenta una delle leve per fondare una nuova economia del riciclo, che rompa la logica estrattiva, e avvii un nuovo corso. Quanti dei nostri rifiuti organici possono ritornare al terra per renderla più fertile, più capace di trattenere acqua e carbonio? Ma il grande snodo teorico che può fondare una svolta anche politica di rilevante portata è una acquisizione del pensiero ecologico recente: comprendere che la città è un ecosistema. Essa non è, sotto il profilo fisico, una foresta di pietre. Oltre a costituire una vorace dissipatrice di energia prodotta al suo esterno, essa vive dentro un territorio, che condiziona e da cui è condizionata: altera il clima generando calore, inquina l’aria e i suoli dei d’intorni con discariche, fabbriche, ecc.
Ebbene oggi sappiamo, in Italia meglio che in qualunque altro Paese d’Europa, che l’asfalto e il cemento impediscono l’assorbimento dell’acqua piovana, ormai causa sistematica di allagamenti devastanti anche nei centri urbani. Un tempo le periferie erano in gran parte orti o campi, oggi sono strati di cemento che veicolano le acque piovane sulla città in forma di fiumi. Sappiamo inoltre che la progressiva sparizione di spazi verdi in città e nei dintorni aumenta la presenza di particolato nell’aria, che non viene assorbito né dagli edifici, né dall’asfalto. Non solo lo smog, anche l’edificato contribuisce a rendere patogena l’aria che respiriamo.
La più recente acquisizione scientifica secondo cui il suolo costituisce una spugna che trattiene il carbonio e dunque riduce l’effetto serra è un tassello che pone una questione ineludibile: il suolo è un bene comune, drammaticamente scarso e di inestimabile valore. Esso ci protegge dalla pioggia, dall’inquinamento aereo, dal riscaldamento climatico. Le conseguenze politiche che si debbono trarre da queste verità rappresentano un terreno di conflitto da far esplodere in ogni angolo della Penisola. Orti e alberi dentro e fuori la città, in tutte le aree dismesse e in tutti gli spazi possibili, devono contrastare la distruttività lineare dell’edificazione.
Qualunque lembo di terra sottratto alla sua condizione di campo è un atto contro il bene comune della sicurezza urbana, un incremento dei danni alla nostra salute, un tassello all’accrescimento del riscaldamento climatico e alla invivibilità estiva nelle nostre città. La proprietà fondiaria dei privati non può fornire a questi alcun diritto a edificare e a coprire suolo con cemento. Il bene comune oggi appare troppo sovrastante rispetto al profitto solitario dei singoli. Ecco un punto nevralgico in cui le scienze ecologiche danno al pensiero politico della sinistra l’universalità e la potenzialità egemonica che essa ha perduto. L’unificazione del mondo rende ormai troppo evidente che la predazione estrattiva dei pochi costituisce un crescente danno per tutti.