Fonte: Lavoce.info
di Andrea Terzi – 21 maggio 2018
Mario Draghi ha mandato un messaggio chiaro ai governi europei. La maggiore fiducia nella stabilità del sistema argina le crisi e riduce così la necessità di interventi pubblici di emergenza. Si deve partire da qui perché l’Unione monetaria funzioni.
Il monito del presidente della Bce
La critica all’Europa che siamo ormai abituati a definire “populista” non è caduta dal cielo. È il riflesso del fatto che la moneta unica non ha realizzato fin qui la sua “promessa di stabilità e prosperità”, come ha detto Mario Draghi l’11 maggio a Firenze. E ciò perché non siamo stati finora capaci di affrontare quegli aspetti che “tutti sappiamo essere incompleti”.
Non è certo la prima volta che il presidente della Banca centrale europea chiama a un salto di qualità dell’assetto istituzionale dell’euro. Ma nel discorso pronunciato all’evento “Lo stato dell’Unione”, organizzato dall’European University Institute, Draghi ha indirizzato alla politica europea un preciso messaggio. È più che mai urgente un progetto comune di riforma che introduca due nuovi strumenti di stabilizzazione: a) una rete di sicurezza pubblica per il fondo di risoluzione bancaria e per l’assicurazione europea dei depositi; b) uno strumento fiscale che scongiuri gli effetti pro-ciclici dei mercati e delle politiche fiscali nazionali in caso di crisi.
A tirare le fila di un possibile accordo al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno sono i due protagonisti di sempre, Francia e Germania, con l’Italia più defilata che mai. Nel nostro paese, ormai da tempo, il dibattito sull’euro si è polarizzato sulla questione se sforare o no le regole sul disavanzo, quando non si è allargato alla questione epocale se uscire o meno dalla moneta unica (e dall’Europa). In entrambi i casi riveliamo un atteggiamento di sudditanza o almeno di riluttanza a entrare nel merito delle riforme necessarie a un continente che oggi si trova ad agire in uno scacchiere internazionale in profonda mutazione.
Dal canto loro, i due paesi leader stentano a trovare un accordo.
In particolare, la Germania insiste sul fatto che ogni riforma che comporti forme di condivisione del rischio non debba avvenire prima di aver preventivamente ridotto quel rischio nei paesi membri. Insomma, condividere il rischio sì, ma a condizione che da condividere sia rimasto poco o nulla. Un’impostazione che Draghi ha decisamente criticato, affermando che “la dicotomia tra riduzione del rischio e condivisione del rischio che caratterizza il dibattito odierno è, sotto molti aspetti, artificiosa”. E che “con la struttura politica giusta questi due obiettivi si rafforzano a vicenda”. Per il presidente della Bce, riduzione e condivisione dei rischi devono essere affrontate in maniera complementare. E ha ampiamente spiegato perché.
Un problema sistemico
La convinzione viene da una diagnosi che va oltre le responsabilità dei singoli paesi e che mette al centro il carattere sistemico del problema. Secondo il presidente della Bce, il filo rosso della crisi è stata l’impossibilità di assorbire efficacemente gli shock. Come ha affermato in altre occasioni, la povertà e la disoccupazione dovute alla crisi sono state largamente causate dall’assetto incompleto dell’Unione monetaria, che ha risposto accentuando le divergenze tra i paesi. Non si tratta dunque di pensare a un euro a due velocità, che non farebbe altro che “raddoppiare” il problema.
Draghi ha invece voluto distinguere tra condivisione del rischio “a posteriori” (quando il danno ormai è fatto e si deve correre ai ripari) e condivisione del rischio “a priori”. È il secondo che fornisce la cornice istituzionale in ogni unione monetaria (l’esplicito riferimento è agli Stati Uniti, al Regno Unito e al Giappone), con l’assordante eccezione di quella europea.
La cornice istituzionale europea dovrebbe articolarsi in due strumenti addizionali di stabilizzazione. Il primo è la creazione di una rete di sicurezza fondata su un sostegno pubblico del fondo unico di liquidazione delle banche e dell’assicurazione dei depositi. La consapevolezza che la risoluzione delle crisi bancarie possa essere condotta con successo alimenta la fiducia e riduce i rischi.
Ma questo non sarebbe sufficiente senza un nuovo strumento europeo di politica fiscale che mantenga la convergenza durante gli shock. Le due strutture europee create in funzione anti-crisi, l’Omt (Outright Monetary Transactions) e l’Esm (European Stability Mechanism) non bastano, ha spiegato Draghi, in quanto la condizionalità dei loro programmi produce, in caso di crisi, una restrizione fiscale pro-ciclica che accentua le divergenze tra i paesi. Qui Draghi pensa evidentemente a qualcosa di molto più ambizioso di un fondo per le emergenze, proponendo di legarlo alla fornitura di beni pubblici come difesa, sicurezza e migrazione.
Comunque lo si voglia interpretare, il messaggio è chiaro: la maggiore fiducia nella stabilità del sistema argina le crisi e finisce per ridurre la necessità di interventi pubblici di emergenza. È da qui che si deve partire perché l’unione monetaria funzioni. Ai governi la responsabilità storica di prendere un’altra strada.